“Male di stagione” di Elisa Vottre – Laventicinquesimaora 2018
Uno dei racconti finalisti dell’ultima edizione de Laventicinquesimaora
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Quest’anno è arrivato tutto tardi: il freddo, le verdure e le gonne di lana. Sono le undici di sera, è il venti dicembre. Io sono al parco, come sempre. Dei ragazzi, seduti su una panchina, mi guardano da lontano. Ormai li conosco: arrivano a quest’ora scavalcando il cancello e quando scatta la mezzanotte se ne vanno. Non li ho mai seguiti, ma li ascolto molto. Uno di loro mi fissa intensamente. “Quanti anni avrà?” Gli altri lo guardano con fare interrogativo. “Minimo cento, vivono un casino questi qua…” Mi sento osservato, ma la cosa mi lascia indifferente. Il primo riprende a parlare, biascica “Ma se gli do un calcio lo butto giù?”. Si alza, inizio a temere per la mia incolumità, ma sono fortunato: un amico lo afferra per il giaccone e lo trascina via. Il gruppo se ne va. Resto solo, sempre qui, nel parco. Non so come riesco a sopportare questo freddo, ma resisto, sono forte. Sono le sette, Ugo e la sua padrona sono puntualissimi, impossibile sbagliare. Mi passano accanto “Dài, stamattina veloce che poi devo farmi anche la doccia”. Ugo si strofina contro di me. È una bestia d’altri tempi, mi corteggia da anni, sempre con fare garbatissimo. Si allontana seguendo non si sa cosa, la padrona inizia a urlare, si mette quasi a correre “Ugo Ugoooo vieni qui subito!” I due si ricongiungono. La padrona aggancia nervosamente il guinzaglio al collare di Ugo e, nonostante la palpabile tensione, si allontanano uno al fianco dell’altro. Tempo qualche ora e compaiono La Luisa e La Clelia, due signore eleganti e decisamente agée. In questa stagione non si fermano, passano solo prima di tornare a casa, a metà mattina, rigorosamente dopo la messa. “Oggi non ho visto La Franca” esordisce, con tono acido, La Luisa. La Clelia la guarda di sottecchi, impegnata come è a spostare le foglie secche con il suo bastone. “È rimasta al caldo, a casa con Il suo Mario… mali di stagione”. La Luisa annuisce mentre avanza, quasi dondolando. I loro discorsi sono ormai parole incomprensibili, la loro voce si perde schiacciata dai rumori cittadini. Trascorrono alcune ore silenziose. Nel pomeriggio un gruppo di bambini, con mamme al seguito, si fa largo fra sentierini e aiuole. Un pallone volteggia nell’aria, ma in fase di atterraggio, invece che entrare in rete, mi colpisce. Uno dei bambini corre verso di me. Un altro lo raggiunge e, prima di riprendersi il pallone, come un bonobo, cerca di saltarmi addosso. Non ce la fa e cade rovinosamente a terra. Si mette a piangere, urla, sbraita. Il plotone delle madri si catapulta ai piedi dello sventurato, decide di trasportarlo al pronto soccorso e di porre così fine ai giochi di tutta l’armata. La notte è ormai alle porte e due quarantenni mi passano accanto, gli occhi fissi sullo schermo dei rispettivi cellulari. Sono vicini, ma non parlano. Le ore scorrono sempre più lente, mi sembrano infinite, ma forse perché sono solo. Lo sono sempre stato. Tornano i ragazzi, i soliti. Raggiungono la panchina. Tutti, tranne quello che voleva malmenarmi. Si stacca dal gruppo, mi raggiunge. Mi sferra un calcio pieno di rabbia. Un urlo squarcia la notte, “Uaaaaaaah!” Gli altri si girano verso di lui, lo guardano, mi guardano. Il ragazzo stringe tra le dita una foglia, la mia ultima foglia. La sventola come un trofeo, una medaglia al valore. Gli altri non sembrano interessati, continuano a parlare tra loro mentre si avviano verso l’uscita. Il ragazzo butta la foglia per terra, la calpesta mentre corre per ricongiungersi al gruppo. È mezzanotte, è il primo giorno d’inverno. Quest’anno mi ha fatto un po’ male.
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