Vai al contenuto

Scrivere il tempo

    Il tempo è un mistero. Una delle cose più difficili da fare, in prosa, è dare l’impressione che stia scorrendo del tempo. L’impressione che nelle frasi trascorra il tempo la si crea in filigrana – può fare qualche comparsa in primo piano solo ogni tanto: per ogni iconico “A lungo, mi sono addormentato di buon’ora”, esistono milioni di interventi di manipolazione della percezione del tempo di cui non ci accorgiamo durante la lettura.
    Prendiamo Moby Dick. La grande balena bianca, simbolo di qualunque cosa, dalle più scontate velleità, all’amore dei genitori, ai sogni di gloria. Il libro citato sempre e solo come metafora passe-partout dell’ossessione. Dentro Moby Dick, Melville dà la caccia anche all’invisibile balena bianca del tempo. Ho sfogliato il libro per qualche secondo in cerca di un esempio e ho trovato questo. (Il trucco di questo esercizio è metterci poco, per capire che il tempo è nascosto in ogni pagina.) L’inizio del trentesimo capitolo, che si intitola “La pipa” (nell’italiano di Cesare Pavese, scrittore molto interessato alla questione di come scorre il tempo). Non aspettatevi chissà che.

    Quando Stubb se ne fu andato, Achab stette per un po’ appoggiato alla murata e poi, come da un pezzo era solito, chiamato un marinaio della guardia lo mandò sotto coperta a prendergli lo sgabello d’avorio e insieme la pipa. Accendendo la pipa alla lampada della chiesuola e disponendo lo sgabello a sopravvento sul ponte, si sedette a fumare.

    Sono poche righe, impostano la scena. Niente di memorabile, all’apparenza. Ma per arrivare a scrivere di grandi balene bisogna passare per momenti come questo. In poche righe il tempo viene manipolato come un origami, consegnandoci un disegno tridimensionale leggero e perfetto. Guardate le pieghe dell’origami:

    Stubb se ne va. È una soglia.
    Poi scorre il tempo della meditazione: “per un po’”.
    La meditazione è interrotta da un desiderio – peraltro “solito” – che scopriamo dalla domanda di Achab.

    Achab chiama un marinaio.
    Achab dà l’ordine.
    Achab accende la pipa.

    Dopo il “per un po’”, il tempo non viene chiamato in ballo esplicitamente. Come fa a scorrere? Melville costruisce una specie di fumetto, cioè una sequenza in cui pare disegnare Achab e lasciare fuori dal fumetto il marinaio:
    Achab chiama il marinaio. [Il marinaio raggiunge Achab.]
    Achab dà l’ordine. [Il marinaio si allontana, torna con pipa e sgabello.]
    Achab si siede a fumare. [Il marinaio se ne torna alle sue faccende.]

    È un passaggio di una pulizia fenomenale. Invece di raccontarci i processi mentali di Achab, per farci capire quanto è assorto Melville ci nasconde il marinaio. E insieme, con un movimento leggero, creando questi tre piccoli salti temporali, in sequenza come tre vignette, fa scorrere dentro di noi un orologio senza nemmeno dircelo. Ricrea il tempo.

    Imparare a gestire il passaggio del tempo è la cosa più importante nella scrittura. Ci ho messo decenni a convincermene e insieme a trovare una spiegazione un minimo razionale. Eccola: la narrazione in prosa è portata avanti da due motori che si avvitano a spirale: il tempo e la causalità. Le cose hanno un perché, e intanto il tempo scorre. Ma la causalità siamo abituati a gestirla, perché con quella, appunto, ci spieghiamo il mondo e le sue connessioni e le nostre intenzioni. Nel testo lo facciamo, quasi spontaneamente, con ogni sua parte che ha un sapore di causa, di conseguenza o di scopo. Ci è facile capire che se un capitano vuole una pipa chiamerà il marinaio per farsela portare. Il tempo ci viene molto più difficile da simulare. Perciò richiede che si impari a descriverlo, come chi dipinge deve imparare a mischiare i colori per ottenere l’effetto della luce sugli oggetti.

    *

    Ecco una notte insonne in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante. Anche in questo caso non porto un passo speciale: ho solo sfogliato per qualche secondo il romanzo in cerca di un paragrafo in cui spiccasse la gestione del tempo. Lo ricopio qui lasciando già in grassetto ciò che ha a che fare con le necessità di descrivere il tempo sfuggente e insieme granitico della notte. Sottolineo pure delle altre cose su cui tornerò dopo.

    Molto tardi si levò la luna e splendette sulle straducole immerse in un silenzio mortale; anche le ultime voci di nottambuli s’erano taciute, e solo il triste abbaio di qualche cane e una remota voce di grilli dai prati della ferrovia saliva alla stanzetta dove Anna si dibatteva fra i suoi dubbi come un carcerato fra gli aguzzini. Ogni suono o rumore dalla via (e alcuni di questi rumori erano soltanto illusioni dei suoi nervi agitati) faceva sì che Anna, suo malgrado, e senza più fede ormai, si rimettesse all’erta, o corresse alla finestra, nella speranza che il cugino fosse là sotto a chiamarla, come la notte avanti. Venuta l’alba, esausta ella si sedette su una cassapanca presso la finestra, dove rimase ferma, con gli occhi aperti e imbambolati, fino a mattino alto. Allora, si sentì d’un tratto bizzarramente inebriata, e senza chiedersi ragione di quel che faceva, senza rispondere alle interrogazioni di sua madre, uscì e s’avviò verso Palazzo Cerentano.

    È chiaro che i protagonisti di questo passaggio sono gli elementi che ho sottolineato, cioè il merletto di sentimenti di Anna: “silenzio motale”, “dubbi”, “nervi agitati”, “esausta”, “bizzarramente inebriata”, eccetera. Ma questi elementi sarebbero come tanti pezzi di nigiri e sashimi ficcati di fretta in una busta di plastica, se non si usasse il tempo per disporli sulla pagina.

    Quando scriviamo, abbiamo più dimestichezza con la complessità dei sentimenti che con il funzionamento del tempo. In qualche modo, non c’è nemmeno troppo bisogno di imparare a scriverli, i sentimenti, già sappiamo più o meno farlo. Ma non si possono scrivere in modo ricco i sentimenti se non si affronta la questione di come disporli. E a disporli è più il tempo che il nostro giro di frase.
    … “Molto tardi” ci porta lo splendore della luna.
    … La scomparsa delle voci dei nottambuli ci porta in un nuovo stadio della notte. (“Scomparsa” segna il tempo.)
    …“Ogni suono o rumore” ci racconta una scena ripetuta, quella in cui Anna corre alla finestra o semplicemente si mette in allerta.
    La scena ripetuta, che immaginiamo alternata ai momenti senza allerta, ci fa immaginare il tempo che scorre (come, in Melville, l’attenzione al capitano ritmata dalle azioni a noi invisibili del marinaio), senza bisogno di riempirlo con ulteriore rimuginio, che però possiamo immaginare, perché così è l’insonnia.
    Finalmente arriva l’alba, quando ci si può sedere alla finestra in uno stato strano, postumo: Anna è “imbambolata”.
    … “Fino al mattino alto” ci fa correre in avanti, veloci insieme al sole.
    d’un tratto” ci faedere come, nel tempo, si realizzi una conseguenza puramente psicologica, vale a dire la scoperta di un desiderio:
    andare verso Palazzo Cerentano.

    Un racconto che potrebbe essere un sacco informe di stati d’ansia è diventato un sinuoso movimento che porta dalle ultime voci in strada del giorno precedente a un sole che non fa in tempo a sorgere che è già alto nel cielo.

    *

    In Picasso, il resoconto di Gertrude Stein sul suo amico pittore, mi imbatto in una pagina che racconta il protagonista durante la prima guerra mondiale. Userò il grassetto come ho fatto prima, e lascerò una parte in corsivo.

    Poi ci fu la guerra, tutti i suoi amici partirono per la guerra. Picasso abitava ancora in rue Schoelcher; Braque e Derain, richiamati, erano già al fronte, ma Apollinaire non era ancora partito. Non era francese e non venne richiamato, ma poco dopo parti volontario. Se ne erano andati tutti. Picasso rimase solo. Quella che lo rattristò più di ogni altra fu forse la partenza di Apollinare, di Apollinaire che gli scriveva quello che provava nell’imparare a diventare un guerriero. Era il 1914 e tutto era guerra.
    Più tardi si trasferì da rue Schoelcher a Montrouge; fu durante tale trasferimento che gli oggetti di lamiera di zinco, di latta e di carta andarono perduti e si ruppero. Qualche tempo dopo, a Montrouge, Picasso fu derubato: i ladri gli portarono via la biancheria. Questo mi fece venire in mente i giorni in cui tutti loro erano degli sconosciuti e Picasso diceva che sarebbe stato meraviglioso se fosse venuto un ladro vero a rubare i suoi quadri o i suoi disegni. Gli amici, certo, qualche quadro lo prendevano, di tanto in tanto, lo rubavano, se preferite lo arraffavano, ma un ladro professionista, un ladro di professione, quando Picasso non era proprio uno sconosciuto, gli fece visita e preferì prendersi la biancheria.
    Così, a poco a poco, il tempo passò. Picasso cominciò a frequentare Erik Satie e Jean Cocteau. Il risultato fu Parade, conclusione di questo periodo, il periodo del vero cubismo.

    Cominciamo in modo deciso. “Poi ci fu la guerra, tutti i suoi amici partirono per la guerra.” È un inizio che arriva senza trascinarsi, con la coreografia degli amici in partenza. Non conta dire solo “ci fu la guerra”, bisogna farcela vedere. La guerra è la partenza degli amici.

    A questo punto prendiamo due punti di riferimento topografici: “Picasso abitava ancora in rue Schoelcher”Più tardi si trasferì da rue Schoelcher a Montrouge”. Ora vediamo, cosa c’è in mezzo? L’elenco degli amici partiti. Braque e Derain erano già al fronte, Apollinaire non ancora. Come una lista di potenziali caduti. Poi rimaniamo su Apollinaire: “non venne richiamato, ma poco dopo partì volontario”. Sembra voler dire: pure tu mi lasci? E Stein conclude empaticamente: “Se ne erano andati tutti. Picasso rimase solo”. E torna su Apollinaire che gli descrive per lettera la propria trasformazione in guerriero. Il paragrafo qui si conclude icasticamente com’era cominciato: Era il 1914 e tutto era guerra”.

    In sostanza questa parte funziona tutta intorno all’arrivo dirompente della guerra:

    Poi ci fu la  guerra … e tutto era guerra, con dentro le partenze strazianti degli amici. E qui andiamo a capo sul secondo riferimento topografico: Più tardi si trasferì da rue Schoelcher a Montrouge”. Durante il trasloco si rompono degli oggetti. Qualche tempo dopo un ladro gli ruba la biancheria. Due problemi stupidi: oggetti rotti, l’autostima ferita. [Ho messo in corsivo il flashback, un aneddoto dal passato, legato all’autostima ferita del presente: se in passato sognava un ladro che apprezzasse le sue opere rubandole, ma erano solo gli amici a sgraffignarle, durante la guerra succede davvero, ma il ladro non apprezza l’opera e ruba la biancheria. Il ritorno al passato è incastonato tra le due occorrenze della parola “biancheria”.]

    Ora, spaventati dalla guerra, andiamo a capo e invece ecco come il tempo cambia le carte in tavola: “Così, a poco a poco, il tempo passò”. Picasso si fa nuovi amici interessanti, e il risultato è un quadro: “Parade”.

    Guardate per un attimo quanto è strana questa costruzione – e quanto è strano che la si debba smontare e ricostruire per riuscire a vederla, altrimenti rimane invisibile:

    Primo paragrafo:
    Poi ci fu la guerra … e tutto era guerra CONTIENE l’elenco degli amici, che CONTIENE Picasso rimasto solo:
    Guerra
    Amici
    Picasso
    Amici
    Guerra

    Secondo paragrafo:
    C’è la guerra, ma leggiamo di cose buffe, che levano la patina eroica a Picasso rendendolo simpatico: perde dei suoi oggetti; un ladro lo umilia non rubando le sue opere. (Con flashback.)

    Terzo paragrafo:
    Il tempo passa, nuovi amici interessanti, un quadro, finisce il cubismo. Quattro elementi, scritti senza orpelli perché funzionano meglio in velocità.

    *

    Sono tre brani scelti quasi a caso, da tre libri che amo. Poche decine di righe in tutto, e ci sono dentro continue sottili variazioni e reinvenzioni degli strumenti che abbiamo per descrivere il tempo con le parole.

    Una cosa che mi piace dell’arte in generale, e della letteratura in particolare, è che quando ne parliamo in pubblico dobbiamo tirare fuori dei gran discorsi per affabulare, e delle grandi omelie, ma poi di fatto, se ti siedi a scrivere, si tratta di miliardi di particolari. La passione, l’ossessione è per le possibilità assurde di tutti quei particolari che aspettano di venirti in mente. Forse ci ho passato troppo tempo dentro e non riesco più a uscire fuori e dire, guardandola: “La letteratura è importante perché…” D’altronde, non so neanche perché dovrei uscirne. (Intanto che editavo il pezzo seduto al buio su una poltrona calda, in mutande, mia moglie si è addormentata in camera da letto con l’abat-jour acceso. Tra poco spedirò il file, prenderò le medicine come ogni notte, e andrò a sdraiarmi accanto a lei. Avrò ancora il quadrato bianco del file impresso negli occhi. Ma domattina non ci sarà più.)

    Francesco Pacifico

    Nato nel 1977, ha scritto i romanzi Il caso Vittorio(minimum fax 2003),Storia della mia purezza(Mondadori 2010),Class(Mondadori 2014), Le donne amate(Rizzoli 2018)e Il capo(Mondadori 2023). È autore della raccolta di saggi letterari Seminario sui luoghi comuni(minimum fax 2012), del saggio Io e Clarissa Dalloway(Marsilio 2020) e della raccolta di racconti Solo storie di sesso(nottetempo 2022). Collabora con diversi quotidiani e riviste, italiane e internazionali. È fondatore e editor della rivista online Il Tascabile e ha tradotto numerosi autori stranieri, tra cui Francis Scott Fitzgerald, Kurt Vonnegut e Henry Miller.