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La palestra del pensiero. Quattro domande a Franco Nasi

    Abbiamo chiesto a Franco Nasi, traduttore, teorico della traduzione e docente dei corsi di traduzione dall’inglese dal francese in partenza a ottobre, di rispondere a quattro domande su Mats on cats, il breve saggio contenuto in Siamo ciò che traduciamo (a cura di Stefano Arduini, Marcos y Marcos 2024) in cui argomenta il ruolo irrinunciabile della mente umana nella traduzione della “letterarietà“ di un testo. 

    1. In Mats on cats affronti un tema molto dibattuto, ovvero il ruolo che l’MT (Machine Translation) può giocare nei diversi ambiti della traduzione. Qualcuno pensa che per i testi tecnici questa tecnologia possa rappresentare un aiuto prezioso, mentre per le opere letterarie la faccenda si complica. Ma se siamo ciò che traduciamo e ciò che traduciamo è scritto da esseri umani e non da macchine, non sarebbe più saggio accantonare una volta per tutte l’idea che un algoritmo possa incaricarsi di tradurre al posto nostro?

    Il tema è complesso e non credo che si possa liquidare in due parole. Nessuno può mettere in dubbio che le innovazioni tecnologiche abbiano aiutato e aiutino gli esseri umani a vivere meglio e più a lungo, così come nessuno oggi non può non trarre giovamento dall’informatica e dalla rete, pur sapendo che queste innovazioni non sono “a costo zero”, né per l’ambiente né per ciascuno di noi. Già in passato si è assistito a dibattiti accesi su innovazioni che avevano inciso pesantemente sulla società. L’avvento dei telai meccanici in Inghilterra, ad esempio, avrebbe portato, secondo alcuni, alla perdita di posti di lavoro e alla riduzione dei salari. Una risposta fu quella dei Luddisti che a inizio Ottocento cercarono di sabotare le industrie e distruggere le macchine. Ancor prima, l’introduzione della polvere da sparo cambiò radicalmente i modi di fare la guerra. Anche qui ci fu chi si oppose, magari non tirando di scherma, ma con le parole e con i versi, come Cervantes nel Don Chisciotte o Ariosto nel Furioso. Recentemente ho assistito a uno spettacolo teatrale molto coinvolgente e profondo della compagnia della Albe di Ravenna: Don Chisciotte ad ardere. Marco Martinelli e Ermanna Montanari, che insieme firmano ideazione, drammaturgia e regia dello spettacolo, partono dal discorso di Don Chisciotte su questa invenzione diabolica della modernità, per arrivare a parlare delle testate atomiche oggi disponibili nel mondo. Sono circa 12.500, e 500 basterebbero per l’estinzione della razza umana, dicono in un dialogo caustico e angosciante gli altri due comprimari, Sancho Panza e Dulcinea del Toboso. E nonostante questo si continua a investire in armamenti. Amen. Se mi permettete, lascerei spazio alle parole del cavaliere errante Don Chisciotte della Mancia, che forse un po’ assomiglia a quel cavaliere errante che è il traduttore letterario.

    Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell’impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggì, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina), e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d’uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli. E quindi, considerando ciò, sto per dire che mi duole nell’anima d’aver abbracciato questa professione di cavaliere errante in un’età così odiosa qual è quella che oggi viviamo; perché sebbene a me non ci sia pericolo che faccia paura, ciò nonostante, mi esaspera il pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada, per tutto quanto il mondo conosciuto. Ma faccia il cielo ciò che crederà, che se riesco nel mio proposito, sarò maggiormente stimato, per aver affrontato ben maggiori pericoli che non quelli ai quali si esposero i cavalieri erranti dei passati secoli.

    Il traduttore letterario non è un cavaliere errante, ma un professionista serio, eppure in questo momento, come il cavaliere errante, corre il rischio che la sua professionalità, il suo lavoro artigianale fatto di competenza linguistica-culturale e di sensibilità letteraria, siano vanificate, che scompaia quella che oggi chiamiamo autorialità del traduttore. Una traduzione fatta con Deep L e poi rivista con Chat GPT3 o altri potenti programmi basati su algoritmi negherà la riconoscibilità della mano o della voce del traduttore umano, così come la polvere da sparo aveva annullato “il valore del mio braccio e il filo della mia spada” del prode cavaliere. Ma come, nonostante i telai meccanici e le produzioni dei capi di abbigliamento di serie, esistono ancora sarti artigianali, così immagino continueranno ad esserci traduttori che con pazienza e sapienza sapranno restituire testi complessi, pieni di deviazioni dalla norma, di innovazioni stilistiche e linguistiche, che una versione automatica a fatica, credo, potrà confezionare. Penso ad esempio a traduzioni di testi di Céline, Joyce, Gadda o del primo Celati in cui il gioco linguistico è centrale e a cui dovrebbe corrispondere anche un gioco traduttorio creativo e imprevisto.

    Ma il problema della traduzione automatica non riguarda solo la figura del traduttore professionista e della sua autorialità. Personalmente credo che la traduzione sia un laboratorio eccezionale per lo sviluppo di un pensiero critico, creativo e complesso. La traduzione letteraria costringe a considerare una serie di varianti, linguistiche, retoriche, culturali in senso lato, che devono essere vagliate congiuntamente. Inoltre, e non è cosa di poco conto, a differenza di certi problemi matematici, non offre una sola soluzione, ma una serie di soluzioni possibili, ognuna della quali potrà essere scelta o esclusa dopo aver considerato altre varianti, quali lo scopo della traduzione, il ricevente, l’opportunità sociale, etica, deontologica ecc. di una scelta. Il pericolo è che i traduttori automatici facciano chiudere queste palestre del pensiero. È un po’ come fare di conto o mandare a memoria una poesia: una volta eravamo addestrati a fare queste attività della mente, oggi sempre meno. Se i nostri cellulari lo fanno per noi, credo che a ciascuno di noi venga a mancare qualcosa.

      2. Nel tuo saggio sostieni che la “letterarietà” di un testo è il risultato dell’interazione di molteplici aspetti, tra cui l’ambiguità, l’intertestualità, il ritmo e lo stile. A quale di queste “qualità letterarie” presti maggiore attenzione quando traduci e perché?

      Dipende dal tipo di testo che devo tradurre. Non credo che ci siano cose che necessariamente bisogna fare quando si traduce. Gli studi sulla traduzione da almeno cinquant’anni a questa parte insistono molto sugli aspetti descrittivi della traduzione, non su quelli prescrittivi. Studiando come le traduzioni sono state fatte nei secoli si vede come sia cambiato il concetto stesso di traduzione. In certi momenti era necessario, ad esempio, privilegiare la bella scrittura della lingua di arrivo, magari dimenticando certe caratteristiche (sia di contenuto sia di stile) del testo fonte; in altri invece tutto è spostato sull’apertura all’altro, con l’invito a forzare la lingua di arrivo in modo che restituisca il più possibile la grana sintattica e idiomatica del testo di partenza. Se traduco una poesia di Rodari per un bambino farò in modo che la poesia funzioni e che la musicalità o il gioco di parole siano in qualche modo presenti e immediatamente percepibili da un bambino, se invece traduco la poesia di Rodari per un’edizione critica darò più importanza ad altri aspetti, magari utilizzando note e altri luoghi del paratesto. Si traduce sempre per qualcuno e questo determina la strategia traduttiva. A lezione insisto spesso sulla necessità di prestare attenzione allo stile e al ritmo, e con ritmo non intendo soltanto la metrica naturalmente. Insisto su questo perché mi pare che oggi tante volte siamo ossessionati da una parola o da un costrutto che possono essere oggetto di contenzioso politico o etico. Faccio un esempio banale. Una volta ho partecipato a una tavola rotonda sulla traduzione per libri dell’infanzia. Una collega, peraltro molto brava, aveva a lungo discusso della sua traduzione di un album illustrato il cui oggetto centrale erano gli underwear di una bambina. Il nucleo della sua riflessione era come rendere in italiano panties. Purtroppo, però non aveva detto nulla sul fatto che quell’album illustrato aveva un ritmo molto preciso: poteva essere letto ad alta voce (e i Picture books sono fatti per questo) come se fosse un rap. A volte si leggono critiche a traduzioni perché si è usato o non si è usata la parola oggi censurabile (penso alle terribili epurazioni dei classici americani dell’Ottocento come Tom Sawyer, Hackleberry Finn ecc.), e non si presta attenzione allo stile o al ritmo della parlata di Jim o di Huck che dicono invece moltissimo.

      3. Se, come scrivi, “la traduzione è in sé un atto di addomesticamento”, come si evita il rischio della semplificazione e della standardizzazione che annullano l’alterità del testo originale?

      Domestication e Foreignization sono due termini entrati ormai nel lessico comune della traduttologia. Li tradurrei con addomesticamento e stranierizzazione, anziché straniamento o estraniamento come di solito si fa, per mettere in evidenza meglio che si tratta di due direzioni diverse dell’atto traduttivo. Una traduzione può essere straniante ma non stranierizzante se rompe con le abitudini retoriche e linguistiche della cultura di arrivo anche se questa rottura non è derivata necessariamente dal testo straniero. Ma a parte questo, nessuna traduzione è completamente addomesticante o completamente stranierizzante. Sono due punti estremi (e mai raggiungibili completamente) di uno spettro di possibilità che presenta infinite varianti e sfumature. Quando spiego agli studenti queste due direzioni uso come esempio di traduzione più spostata sul testo di partenza la versione di Erri de Luca di alcuni libri dell’antico testamento, che si presentano anche graficamente come traduzioni interlineari, mentre come esempio di traduzione più preoccupata della cultura di arrivo le traduzioni della CEI, o The Good News for Modern Man elaborata negli USA negli anni Sessanta del Novecento. Ma uso anche una immagine buffa: un paio di cani con tanto di cappottino, e occhiali. I cani sono in genere animali addomesticati. Fanno parte della domus: li portiamo in casa e ci aspettiamo che in un qualche modo si adeguino alle nostre abitudini. Giusto è che non distruggano la casa, ma forse eccessivo che si vestano come noi: hanno il pelo e non hanno bisogno di cappottini. Dobbiamo imparare a rispettare il loro essere animali, così come dobbiamo imparare a rispettare l’altro, sempre. Il rispetto del testo ha a che fare con il nostro essere capaci di ascoltare la sua voce, la sua ragione d’essere, che non è affatto detto che sia la nostra. Ma su questo la bibliografia critica è ricca e stimolante: dagli scritti ormai canonici di Antoine Berman o di Paul Ricoeur, fino ad alcuni dei libri dei miei compagni di avventura di Siamo ciò che traduciamo, che ribadiscono, a modo loro, l’importanza dell’ascolto dell’altro. Ricordo Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro (Jaca Book, 2020), Franca Cavagnoli, La voce dell’altro (Feltrinelli 2012), Daniele Petruccioli, Le pagine nere (La lepre edizioni 2017), Enrico Terrinoni, Oltre abita il silenzio (Il Saggiatore 2019).

      4. Tra le varie tecniche utilizzate dall’MT c’è quella dell’“interlingua”, che prevede di trasporre il testo originale in una lingua intermedia, diversa da quella di partenza e da quella d’arrivo, e, solo in un secondo momento di tradurlo nella lingua di destinazione. Questa lingua intermedia ricorda sotto certi aspetti la Neolingua di 1984, a cui fai riferimento quando rifletti sul rapporto tra lingue e globalizzazione e sulla tendenza di molti autori a rinunciare in partenza a uno stile complesso e a riferimenti culturali specifici, in modo da poter essere tradotti e diffusi con maggiore agilità. Da traduttore, da teorico della traduzione e da lettore, fino a che punto ti senti immerso in questa letteratura globalizzata?

      Mi viene in mente che nel Settecento Hamlet di Shakespeare arriva in Italia attraverso una traduzione francese. Siccome nella Francia illuminista del Settecento non era opportuno che ci fossero spiriti e fantasmi in scena (robe per menti non illuminate evidentemente), così vennero tolte le scene dell’apparizione dello spirito del re al figlio. La prima traduzione italiana dell’Amleto, essendo stata fatta su quella francese, ugualmente mancava di qualcosa che, tutti sappiamo, non è irrilevante nella costruzione della tragedia. Questo è un esempio particolare, connotato storicamente, ma succedono cose analoghe quando ci si deve servire di una lingua intermedia (oggi quasi sempre l’inglese), come avviene quando si deve tradurre fra lingue minori. Peggio ancora se a fare da lingua intermedia è una lingua senza storia, o senza sfumature e ambiguità, o senza colore e sapore.
      Quando la traduzione diventa interpretazione solo e unicamente del significato delle parole, quando mette in secondo piano il significato obliquo della lingua, la sua forza allusiva sia nelle figure retoriche e fonetiche, nel ritmo, sia nei rimandi intertestuali o etimologici, allora c’è di sicuro un impoverimento della complessità del testo. Potremo vivere in un mondo in cui useremo solo mille parole, in cui potremo tradurre ogni nostra frase in modo non ambiguo, senza il pericolo di fraintendimenti. Forse. Però personalmente penso che sia bello anche poter lasciare che le persona capiscano o non capiscano una battuta, che si possa ridere dell’ambiguità di una frase, che si possa dire e non dire, anche mentire, che si possa parlare una lingua con un lessico famigliare che ci assomiglia e che solo alcune persone, con le quali condividiamo tante cose, tanti cibi, tanti usi, possono capire un po’ meglio. Persone con uno stile proprio, così come la nostra voce o le nostre impronte digitali non sono ancora prodotte in serie.

      Franco Nasi
      Saggista e traduttore, insegna Teorie della traduzione e Letteratura anglo-americana all’Università di Modena e Reggio Emilia. Fra le sue pubblicazioni di ambito traduttologico La malinconia del traduttore (Medusa 2008), Specchi comunicanti (Medusa 2010), L’artefice aggiunto. Riflessioni sulla traduzione in Italia 1900-1975 (con Angela Albanese, Longo 2015), Traduzioni estreme (Quodlibet 2015) e Tradurre l’errore (Quodlibet 2021). Ha tradotto diversi poeti inglesi e americani fra cui Billy Collins e Roger McGough.