Germano Antonucci è il 2° classificato al premio letterario “Laventicinquesimaora”, dedicato al racconto breve.
La traccia del premio, che quest’anno è giunto alla sesta edizione, è stata pubblicata il 28 novembre e i partecipanti hanno avuto venticinque ore per scrivere un racconto di massimo 3.600 battute. Il tema di questa edizione è “Ma il cielo è sempre più blu”: ai candidati è stato chiesto di scrivere una storia completamente ambientata all’aperto.
2º classificato: le motivazioni della giuria
Tra due giorni, gli orsi polari è stato scelto «per l’atmosfera malinconica, per il dialogo efficace che si instaura tra le vicende interne (la malattia della figlia, i problemi della coppia) ed esterne (la nebbia, il mar glaciale artico)» (Michele Turazzi). Attraverso la combinazione di questi elementi il racconto getta uno sguardo dentro l’infelicità dei personaggi, rendendola unica – ogni famiglia infelice lo è a modo suo – e sciogliendo dubbi e speranze del lettore in un finale sospeso.
Tra due giorni, gli orsi polari
di Germano Antonucci
Non le trovavo. Mancavano quattro minuti, e non le trovavo. Percorsi in lungo e in largo il ponte della nave, cercando dappertutto. Niente, sembravano essersi dileguate. C’era una fitta nebbia, quella mattina, che risaliva dal mare. L’aria era pungente, mozzava il respiro. Chiesi ai tedeschi. «Avete visto una bambina col cappotto giallo? Alta più o meno così? È mia figlia. C’è mia moglie, con lei».
Dissero di no, mi offrirono una birra, nonostante fossero appena le sei. Mi allontanai, calandomi il cappello di lana sulle orecchie, per proteggermi dal freddo. L’Hurtigruten beccheggiava in direzione nord-ovest, gli ultimi fiordi si protendevano come lunghe dita nodose nella foschia. Controllai la rotta sul GPS: tre minuti. Mancavano tre minuti. Avevo atteso quel momento per mesi, e non le trovavo, non erano con me.
Mi sporsi sul parapetto, guardai giù, l’acqua spumeggiava furiosa contro i fianchi della nave. Un brivido. Stavo forse per avere uno dei miei attacchi? L’ultima volta era successo domenica, al mercato di Trondheim, poco prima di imbarcarci, quando avevo dato un’occhiata al cellulare e lei mi aveva chiesto se avessi un’altra, me lo aveva chiesto come se volesse semplicemente sapere l’ora, e io le avevo rinfacciato la noia, nient’altro che la noia.
«Non siamo felici» mi ero sentito dire.
Le avevo risposto che la felicità è un sentimento poco affidabile.
«E cosa dovremmo desiderare, allora?»
«La stessa cosa. Ti pare difficile? Dovremmo desiderare la stessa cosa».
Poi ero stato male, avevamo quasi rimandato la partenza.
Le trovai sul terrazzo di poppa, nascoste sotto due coperte di lana, in mezzo a tutti quei lettini già occupati. C’era una luce sfibrata.
«Dorme?» le chiesi.
«Sì».
Guardai mia figlia, sollevato. Speravo che bastasse il mio arrivo a farle aprire gli occhi: eravamo in tempo per non perderci l’attimo.
«Dovremmo svegliarla».
«Lasciala stare. È stanca. Hai preso le sue medicine?»
Annuii.
«Siamo venuti apposta» dissi.
«Siamo venuti per gli orsi. Lei vuole vedere gli orsi».
«Ti sbagli. Siamo venuti anche per gli orsi».
Un fischio dagli altoparlanti. La voce del comandante annunciò che la nave, in perfetto orario, stava per superare il Circolo Polare Artico. Scattò l’applauso.
«Eccoci» dissi. «La prendo io. Su, andiamo a vedere».
Gli altri turisti si avvicinarono alle balaustre. Lei no, non si mosse, poggiò la fronte sulle ginocchia e sbuffò.
«Non c’è nulla da vedere. Solo mare, mare, mare».
«Per nostra figlia è importante».
«Cosa cambia se restiamo qua? Passiamo lo stesso, no? E poi non dobbiamo svegliarla. Il dottore si è raccomandato: non deve stancarsi».
Avevamo affrontato un viaggio di oltre duemila chilometri, e adesso che si trattava di compiere l’ultimo passo, per ripicca, ecco che si rifiutava. Le afferrai il polso, la strinsi per obbligarla ad alzarsi, ma lei si divincolò, minacciò di mettersi a urlare. Le chiesi scusa, non sapevo cosa mi fosse preso. Scusa.
«Tu pensi solo a completare la tua collezione di belle promesse».
«Lo faccio per lei» risposi.
«Per lei o per te? Speri di perdonartelo, eh? Speri di piangerla senza rimorsi?»
La fissai, incredulo. Cosa c’era di sbagliato? A mia figlia avevo raccontato di mari scintillanti, di un cielo limpido, blu, e di quella linea impalpabile tra i ghiacci, un mi-raggio che segnava il confine più remoto del mondo. Non vedo l’ora di esserci, mi diceva, e forse me lo diceva per farmi contento, sì, o forse perché le piaceva quando le parlavo di futuro.
Che importava?
Adesso eravamo lì. In qualche modo, eravamo lì.
Tra due giorni, avremmo visto gli orsi polari.
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