Alessandro Manzoni,
I promessi sposi, 1840
Capitolo XXXIV
In
quanto
alla
maniera
di
penetrare
in
città,
Renzo
aveva
sentito,
così
all’ingrosso,
che
c’eran
ordini
severissimi
di
non
lasciar
entrar
nessuno,
senza
bulletta
di
sanità;
ma
che
in
vece
ci
s’entrava
benissimo,
chi
appena
sapesse
un
po’
aiutarsi
e
cogliere
il
momento.
Era
infatti
così;
e
lasciando
anche
da
parte
le
cause
generali,
per
cui
in
que’
tempi
ogni
ordine
era
poco
eseguito;
lasciando
da
parte
le
speciali,
che
rendevano
così
malagevole
rigorosa
esecuzione
di
questo;
Milano
si
trovava
ormai
in
tale
stato,
da
non
veder
cosa
giovasse
guardarlo,
e
da
cosa;
e
chiunque
ci
venisse,
poteva
parer
piuttosto
noncurante
della
propria
salute,
che
pericoloso
a
quella
de’
cittadini.
Su
queste
notizie,
il
disegno
di
Renzo
era
di
tentare
d’entrar
dalla
prima
porta
a
cui
si
fosse
abbattuto;
se
ci
fosse
qualche
intoppo,
riprender
le
mura
di
fuori,
finchè
ne
trovasse
un’altra
di
più
facile
accesso.
E
sa
il
cielo
quante
porte
s’immaginava
che
Milano
dovesse
avere.
Arrivato
dunque
sotto
le
mura,
si
fermò
a
guardar
d’intorno,
come
fa
chi,
non
sapendo
da
che
parte
gli
convenga
di
prendere,
par
che
n’aspetti,
e
ne
chieda
qualche
indizio
da
ogni
cosa.
Ma,
a
destra
e
a
sinistra,
non
vedeva
che
due
pezzi
d’una
strada
storta;
dirimpetto,
un
tratto
di
mura;
da
nessuna
parte,
nessun
segno
d’uomini
viventi:
se
non
che,
da
un
certo
punto
del
terrapieno,
s’alzava
una
colonna
d’un
fumo
oscuro
e
denso,
che
salendo
s’allargava
e
s’avvolgeva
in
ampi
globi,
perdendosi
poi
nell’aria
immobile
e
bigia.
Eran
vestiti,
letti
e
altre
masserizie
infette
che
si
bruciavano:
e
di
tali
triste
fiammate
se
ne
faceva
di
continuo,
non
lì
soltanto,
ma
in
varie
parti
delle
mura.
Il
tempo
era
chiuso,
l’aria
pesante,
il
cielo
velato
per
tutto
da
una
nuvola
o
da
un
nebbione
uguale,
inerte,
che
pareva
negare
il
sole,
senza
prometter
la
pioggia;
la
campagna
d’intorno,
parte
incolta,
e
tutta
arida;
ogni
verzura
scolorita,
e
neppure
una
gocciola
di
rugiada
sulle
foglie
passe
e
cascanti.
Per
di
più,
quella
solitudine,
quel
silenzio,
così
vicino
a
una
gran
città,
aggiungevano
una
nuova
costernazione
all’inquietudine
di
Renzo,
e
rendevan
più
tetri
tutti
i
suoi
pensieri.
Stato
lì
alquanto,
prese
la
diritta,
alla
ventura,
andando,
senza
saperlo,
verso
porta
Nuova,
della
quale,
quantunque
vicina,
non
poteva
accorgersi,
a
cagione
d’un
baluardo,
dietro
cui
era
allora
nascosta.
Dopo
pochi
passi,
principiò
a
sentire
un
tintinnìo
di
campanelli,
che
cessava
e
ricominciava
ogni
tanto,
e
poi
qualche
voce
d’uomo.
Andò
avanti
e,
passato
il
canto
del
baluardo,
vide
per
la
prima
cosa,
un
casotto
di
legno,
e
sull’uscio,
una
guardia
appoggiata
al
moschetto,
con
una
cert’aria
stracca
e
trascurata:
dietro
c’era
uno
stecconato,
e
dietro
quello,
la
porta,
cioè
due
alacce
di
muro,
con
una
tettoia
sopra,
per
riparare
i
battenti;
i
quali
erano
spalancati,
come
pure
il
cancello
dello
stecconato.
Però,
davanti
appunto
all’apertura,
c’era
in
terra
un
tristo
impedimento:
una
barella,
sulla
quale
due
monatti
accomodavano
un
poverino,
per
portarlo
via.
Era
il
capo
de’
gabellieri,
a
cui,
poco
prima,
s’era
scoperta
la
peste.
Renzo
si
fermò,
aspettando
la
fine:
partito
il
convoglio,
e
non
venendo
nessuno
a
richiudere
il
cancello,
gli
parve
tempo,
e
ci
s’avviò
in
fretta;
ma
la
guardia,
con
una
manieraccia,
gli
gridò:
“olà!”
Renzo
si
fermò
di
nuovo
su
due
piedi,
e,
datogli
d’occhio,
tirò
fuori
un
mezzo
ducatone,
e
glielo
fece
vedere.
Colui,
o
che
avesse
già
avuta
la
peste,
o
che
la
temesse
meno
di
quel
che
amava
i
mezzi
ducatoni,
accennò
a
Renzo
che
glielo
buttasse;
e
vistoselo
volar
subito
a’
piedi,
susurrò:
“
va’
innanzi
presto.”
Renzo
non
se
lo
fece
dir
due
volte;
passò
lo
stecconato,
passò
la
porta,
andò
avanti,
senza
che
nessuno
s’accorgesse
di
lui,
o
gli
badasse;
se
non
che,
quando
ebbe
fatti
forse
quaranta
passi,
sentì
un
altro
“olà”
che
un
gabelliere
gli
gridava
dietro.
Questa
volta,
fece
le
viste
di
non
sentire,
e,
senza
voltarsi
nemmeno,
allungò
il
passo.
–
Olà!
–
gridò
di
nuovo
il
gabelliere,
con
una
voce
però
che
indicava
più
impazienza
che
risoluzione
di
farsi
ubbidire;
e
non
essendo
ubbidito,
alzò
le
spalle,
e
tornò
nella
sua
casaccia,
come
persona
a
cui
premesse
più
di
non
accostarsi
troppo
ai
passeggieri,
che
d’informarsi
de’
fatti
loro.
La
strada
che
Renzo
aveva
presa,
andava
allora,
come
adesso,
diritta
fino
al
canale
detto
il
Naviglio:
i
lati
erano
siepi
o
muri
d’orti,
chiese
e
conventi,
e
poche
case.
In
cima
a
questa
strada,
e
nel
mezzo
di
quella
che
costeggia
il
canale,
c’era
una
colonna,
con
una
croce
detta
la
croce
di
sant’Eusebio.
E
per
quanto
Renzo
guardasse
innanzi,
non
vedeva
altro
che
quella
croce.
Arrivato
al
crocicchio
che
divide
la
strada
circa
alla
metà,
e
guardando
dalle
due
parti,
vide
a
dritta,
in
quella
strada
che
si
chiama
lo
stradone
di
santa
Teresa,
un
cittadino
che
veniva
appunto
verso
di
lui.
—
Un
cristiano,
finalmente!
—
disse
tra
sè;
e
si
voltò
subito
da
quella
parte,
pensando
di
farsi
insegnar
la
strada
da
lui.
Questo
pure
aveva
visto
il
forestiero
che
s’avanzava;
e
andava
squadrandolo
da
lontano,
con
uno
sguardo
sospettoso;
e
tanto
più,
quando
s’accorse
che,
in
vece
d’andarsene
per
i
fatti
suoi,
gli
veniva
incontro.
Renzo,
quando
fu
poco
distante,
si
levò
il
cappello,
da
quel
montanaro
rispettoso
che
era;
e
tenendolo
con
la
sinistra,
mise
l’altra
mano
nel
cocuzzolo,
e
andò
più
direttamente
verso
lo
sconosciuto.
Ma
questo,
stralunando
gli
occhi
affatto,
fece
un
passo
addietro,
alzò
un
noderoso
bastone,
e
voltata
la
punta,
ch’era
di
ferro,
alla
vita
di
Renzo,
gridò:
“via!
via!
via!”
“Oh
oh!”
gridò
il
giovine
anche
lui;
rimise
il
cappello
in
testa,
e,
avendo
tutt’altra
voglia,
come
diceva
poi,
quando
raccontava
la
cosa,
che
di
metter
su
lite
in
quel
momento,
voltò
le
spalle
a
quello
stravagante,
e
continuò
la
sua
strada,
o,
per
meglio
dire,
quella
in
cui
si
trovava
avviato.
L’altro
tirò
avanti
anche
lui
per
la
sua,
tutto
fremente,
e
voltandosi,
ogni
momento,
indietro.
E
arrivato
a
casa,
raccontò
che
gli
s’era
accostato
un
untore,
con
un’aria
umile,
mansueta,
con
un
viso
d’infame
impostore,
con
lo
scatolino
dell’unto,
o
l’involtino
della
polvere
(non
era
ben
certo
qual
de’
due)
in
mano,
nel
cocuzzolo
del
cappello,
per
fargli
il
tiro,
se
lui
non
l’avesse
saputo
tener
lontano.
“Se
mi
s’accostava
un
passo
di
più,”
soggiunse,
“l’infilavo
addirittura,
prima
che
avesse
tempo
d’accomodarmi
me,
il
birbone.
La
disgrazia
fu
ch’eravamo
in
un
luogo
così
solitario,
ché
se
era
in
mezzo
Milano,
chiamavo
gente,
e
mi
facevo
aiutare
a
acchiapparlo.
Sicuro
che
gli
si
trovava
quella
scellerata
porcheria
nel
cappello.
Ma
lì
da
solo
a
solo,
mi
son
dovuto
contentare
di
fargli
paura,
senza
risicare
di
cercarmi
un
malanno;
perchè
un
po’
di
polvere
è
subito
buttata;
e
coloro
hanno
una
destrezza
particolare;
e
poi
hanno
il
diavolo
dalla
loro.
Ora
sarà
in
giro
per
Milano:
chi
sa
che
strage
fa!
E
fin
che
visse,
che
fu
per
molt’anni,
ogni
volta
che
si
parlasse
d’untori,
ripeteva
la
sua
storia,
e
soggiungeva:
“quelli
che
sostengono
ancora
che
non
era
vero,
non
lo
vengano
a
dire
a
me;
perchè
le
cose
bisogna
averle
viste.”
Renzo,
lontano
dall’immaginarsi
come
l’avesse
scampata
bella,
e
agitato
più
dalla
rabbia
che
dalla
paura,
pensava,
camminando,
a
quell’accoglienza,
e
indovinava
bene
a
un
di
presso
ciò
che
lo
sconosciuto
aveva
pensato
di
lui;
ma
la
cosa
gli
pareva
così
irragionevole,
che
concluse
tra
sè
che
colui
doveva
essere
un
qualche
mezzo
matto.
—
La
principia
male,
—
pensava
però:
—
par
che
ci
sia
un
pianeta
per
me,
in
questo
Milano.
Per
entrare,
tutto
mi
va
a
seconda;
e
poi,
quando
ci
son
dentro,
trovo
i
dispiaceri
lì
apparecchiati.
Basta…
coll’aiuto
di
Dio…
se
trovo…
se
ci
riesco
a
trovare…
eh!
tutto
sarà
stato
niente.
—
Arrivato
al
ponte,
voltò,
senza
esitare,
a
sinistra,
nella
strada
di
san
Marco,
parendogli,
a
ragione,
che
dovesse
condurre
verso
l’interno
della
città.
E
andando
avanti,
guardava
in
qua
e
in
là,
per
veder
se
poteva
scoprire
qualche
creatura
umana;
ma
non
ne
vide
altra
che
uno
sformato
cadavere
nel
piccol
fosso
che
corre
tra
quelle
poche
case
(che
allora
erano
anche
meno),
e
un
pezzo
della
strada.
Passato
quel
pezzo,
sentì
gridare:
“o
quell’uomo!”
e
guardando
da
quella
parte,
vide
poco
lontano,
a
un
terrazzino
d’una
casuccia
isolata,
una
povera
donna,
con
una
nidiata
di
bambini
intorno;
la
quale,
seguitandolo
a
chiamare,
gli
fece
cenno
anche
con
la
mano.
Ci
andò
di
corsa;
e
quando
fu
vicino,
“o
quel
giovine,”
disse
quella
donna:
“per
i
vostri
poveri
morti,
fate
la
carità
d’andare
a
avvertire
il
commissario
che
siamo
qui
dimenticati.
Ci
hanno
chiusi
in
casa
come
sospetti,
perchè
il
mio
povero
marito
è
morto;
ci
hanno
inchiodato
l’uscio,
come
vedete;
e
da
ier
mattina,
nessuno
è
venuto
a
portarci
da
mangiare.
In
tante
ore
che
siam
qui,
non
m’è
mai
capitato
un
cristiano
che
me
la
facesse
questa
carità:
e
questi
poveri
innocenti
moion
di
fame.”
“Di
fame!”
esclamò
Renzo;
e,
cacciate
le
mani
nelle
tasche,
“ecco,
ecco,”
disse,
tirando
fuori
i
due
pani:
“calatemi
giù
qualcosa
da
metterli
dentro.”
“Dio
ve
ne
renda
merito;
aspettate
un
momento,”
disse
quella
donna;
e
andò
a
cercare
un
paniere,
e
una
fune
da
calarlo,
come
fece.
A
Renzo
intanto
gli
vennero
in
mente
que’
pani
che
aveva
trovati
vicino
alla
croce,
nell’altra
sua
entrata
in
Milano,
e
pensava:
—
ecco:
è
una
restituzione,
e
forse
meglio
che
se
gli
avessi
restituiti
al
proprio
padrone:
perchè
qui
è
veramente
un’opera
di
misericordia.
—
“In
quanto
al
commissario
che
dite,
la
mia
donna,”
disse
poi,
mettendo
i
pani
nel
paniere,
“io
non
vi
posso
servire
in
nulla;
perchè,
per
dirvi
la
verità,
son
forestiero,
e
non
son
niente
pratico
di
questo
paese.
Però,
se
incontro
qualche
uomo
un
po’
domestico
e
umano,
da
potergli
parlare,
lo
dirò
a
lui.”
La
donna
lo
pregò
che
facesse
così,
e
gli
disse
il
nome
della
strada,
onde
lui
sapesse
indicarla.
“Anche
voi,”
riprese
Renzo,
“credo
che
potrete
farmi
un
piacere,
una
vera
carità,
senza
vostro
incomodo.
Una
casa
di
cavalieri,
di
gran
signoroni,
qui
di
Milano,
casa
***
sapreste
insegnarmi
dove
sia?”
“So
che
la
c’è
questa
casa”,
rispose
la
donna:
“ma
dove
sia,
non
lo
so
davvero.
Andando
avanti
di
qua,
qualcheduno
che
ve
la
insegni,
lo
troverete.
E
ricordatevi
di
dirgli
anche
di
noi.”
“Non
dubitate,”
disse
Renzo,
e
andò
avanti.
A
ogni
passo,
sentiva
crescere
e
avvicinarsi
un
rumore
che
già
aveva
cominciato
a
sentire
mentre
era
lì
fermo
a
discorrere:
un
rumor
di
ruote
e
di
cavalli,
con
un
tintinnìo
di
campanelli,
e
ogni
tanto
un
chioccar
di
fruste,
con
un
accompagnamento
d’urli.
Guardava
innanzi,
ma
non
vedeva
nulla.
Arrivato
allo
sbocco
di
quella
strada,
scoprendosegli
davanti
la
piazza
di
san
Marco,
la
prima
cosa
che
gli
diede
nell’occhio,
furon
due
travi
ritte,
con
una
corda,
e
con
certe
carrucole;
e
non
tardò
a
riconoscere
(ch’era
cosa
famigliare
in
quel
tempo)
l’abbominevole
macchina
della
tortura.
Era
rizzata
in
quel
luogo,
e
non
in
quello
soltanto,
ma
in
tutte
le
piazze
e
nelle
strade
più
spaziose,
affinchè
i
deputati
d’ogni
quartiere,
muniti
a
questo
d’ogni
facoltà
più
arbitraria,
potessero
farci
applicare
immediatamente
chiunque
paresse
loro
meritevole
di
pena:
o
sequestrati
che
uscissero
di
casa,
o
subalterni
che
non
facessero
il
loro
dovere,
o
chiunque
altro.
Era
uno
di
que’
rimedi
eccessivi
e
inefficaci
de’
quali,
a
quel
tempo,
e
in
que’
momenti
specialmente,
si
faceva
tanto
scialacquìo.
Ora,
mentre
Renzo
guarda
quello
strumento,
pensando
perchè
possa
essere
alzato
in
quel
luogo,
sente
avvicinarsi
sempre
più
il
rumore,
e
vede
spuntar
dalla
cantonata
della
chiesa
un
uomo
che
scoteva
un
campanello:
era
un
apparitore;
e
dietro
a
lui
due
cavalli
che,
allungando
il
collo,
e
puntando
le
zampe,
venivano
avanti
a
fatica;
e
strascinato
da
quelli,
un
carro
di
morti,
e
dopo
quello
un
altro,
e
poi
un
altro
e
un
altro;
e
di
qua
e
di
là,
monatti
alle
costole
de’
cavalli,
spingendoli,
a
frustate,
a
punzoni,
a
bestemmie.
Eran
que’
cadaveri,
la
più
parte
ignudi,
alcuni
mal
involtati
in
qualche
cencio,
ammonticchiati,
intrecciati
insieme,
come
un
gruppo
di
serpi
che
lentamente
si
svolgano
al
tepore
della
primavera;
chè,
a
ogni
intoppo,
a
ogni
scossa,
si
vedevan
que’
mucchi
funesti
tremolare
e
scompaginarsi
bruttamente,
e
ciondolar
teste,
e
chiome
verginali
arrovesciarsi,
e
braccia
svincolarsi,
e
batter
sulle
rote,
mostrando
all’occhio
già
inorridito
come
un
tale
spettacolo
poteva
divenire
più
doloroso
e
più
sconcio.
Il
giovine
s’era
fermato
sulla
cantonata
della
piazza,
vicino
alla
sbarra
del
canale,
e
pregava
intanto
per
que’
morti
sconosciuti.
Un
atroce
pensiero
gli
balenò
in
mente:
—
forse
là,
là
insieme,
là
sotto…
Oh,
Signore!
fate
che
non
sia
vero!
fate
ch’io
non
ci
pensi!
—
Passato
il
convoglio
funebre,
Renzo
si
mosse,
attraversò
la
piazza,
prendendo
lungo
il
canale
a
mancina,
senz’altra
ragione
della
scelta,
se
non
che
il
convoglio
era
andato
dall’altra
parte.
Fatti
que’
quattro
passi
tra
il
fianco
della
chiesa
e
il
canale,
vide
a
destra
il
ponte
Marcellino;
prese
di
lì,
e
riuscì
in
Borgo
Nuovo.
E
guardando
innanzi,
sempre
con
quella
mira
di
trovar
qualcheduno
da
farsi
insegnar
la
strada,
vide
in
fondo
a
quella
un.prete
in
farsetto,
con
un
bastoncino
in
mano,
ritto
vicino
a
un
uscio
socchiuso,
col
capo
chinato,
e
l’orecchio
allo
spiraglio;
e
poco
dopo
lo
vide
alzar
la
mano
e
benedire.
Congetturò
quello
ch’era
di
fatto,
cioè
che
finisse
di
confessar
qualcheduno;
e
disse
tra
sè:
—
questo
è
l’uomo
che
fa
per
me.
Se
un
prete,
in
funzion
di
prete,
non
ha
un
po’
di
carità,
un
po’
d’amore
e
di
buona
grazia,
bisogna
dire
che
non
ce
ne
sia
più
in
questo
mondo
“.
Intanto
il
prete,
staccatosi
dall’uscio,
veniva
dalla
parte
di
Renzo,
tenendosi,
con
gran
riguardo,
nel
mezzo
della
strada.
Renzo,
quando
gli
fu
vicino,
si
levò
il
cappello,
e
gli
accennò
che
desiderava
parlargli,
fermandosi
nello
stesso
tempo,
in
maniera
da
fargli
intendere
che
non
si
sarebbe
accostato
di
più.
Quello
pure
si
fermò,
in
atto
di
stare
a
sentire,
puntando
però
in
terra
il
suo
bastoncino
davanti
a
sè,
come
per
farsene
un
baluardo.
Renzo
espose
la
sua
domanda,
alla
quale
il
prete
soddisfece,
non
solo
con
dirgli
il
nome
della
strada
dove
la
casa
era
situata,
ma
dandogli
anche,
come
vide
che
il
poverino
n’aveva
bisogno,
un
po’
d’itinerario;
indicandogli,
cioè,
a
forza
di
diritte
e
di
mancine,
di
chiese
e
di
croci,
quell’altre
sei
o
otto
strade
che
aveva
da
passare
per
arrivarci.
“Dio
la
mantenga
sano,
in
questi
tempi,
e
sempre,”
disse
Renzo:
e
mentre
quello
si
moveva
per
andarsene,
“un’altra
carità,”
soggiunse;
e
gli
disse
della
povera
donna
dimenticata.
Il
buon
prete
ringraziò
lui
d’avergli
dato
occasione
di
fare
una
carità
così
necessaria;
e,
dicendo
che
andava
ad
avvertire
chi
bisognava,
tirò
avanti.
Renzo
si
mosse
anche
lui,
e,
camminando,
cercava
di
fare
a
se
stesso
una
ripetizione
dell’itinerario,
per
non
esser
da
capo
a
dover
domandare
a
ogni
cantonata.
Ma
non
potreste
immaginarvi
come
quell’operazione
gli
riuscisse
penosa,
e
non
tanto
per
la
difficoltà
della
cosa
in
sè,
quanto
per
un
nuovo
turbamento
che
gli
era
nato
nell’animo.
Quel
nome
della
strada,
quella
traccia
del
cammino
l’avevan
messo
così
sottosopra.
Era
l’indizio
che
aveva
desiderato
e
domandato,
e
del
quale
non
poteva
far
di
meno;
nè
gli
era
stato
detto
nient’altro,
da
che
potesse
ricavare
nessun
augurio
sinistro;
ma
che
volete?
quell’idea
un
po’
più
distinta
d’un
termine
vicino,
dove
uscirebbe
d’una
grand’incertezza,
dove
potrebbe
sentirsi
dire:
è
viva,
o
sentirsi
dire:
è
morta;
quell’idea
l’aveva
così
colpito
che,
in
quel
momento,
gli
sarebbe
piaciuto
più
di
trovarsi
ancora
ai
buio
di
tutto,
d’essere
al
principio
del
viaggio,
di
cui
ormai
toccava
la
fine.
Raccolse
però
le
sue
forze,
e
disse
a
se
stesso:
—
ehi!
se
principiamo
ora
a
fare
il
ragazzo,
com’anderà?
—
Così
rinfrancato
alla
meglio,
seguitò
la
sua
strada,
inoltrandosi
nella
città.
Quale
città!
e
cos’era
mai,
al
paragone,
quello
ch’era
stata
l’anno
avanti,
per
cagion
della
fame!
Renzo
s’abbatteva
appunto
a
passare
per
una
delle
parti
più
squallide
e
più
desolate:
quella
crociata
di
strade
che
si
chiamava
il
carrobio
di
porta
Nuova.
(C’era
allora
una
croce
nel
mezzo,
e,
dirimpetto
ad
essa,
accanto
a
dove
ora
è
san
Francesco
di
Paola,
una
vecchia
chiesa
col
titolo
di
sant’Anastasia).
Tanta
era
stata
in
quel
vicinato
la
furia
del
contagio,
e
il
fetor
de’
cadaveri
lasciati
lì
che
i
pochi
rimasti
vivi
erano
stati
costretti
a
sgomberare:
sicchè,
alla
mestizia
che
dava
al
passeggiero
quell’aspetto
di
solitudine
e
d’abbandono,
s’aggiungeva
l’orrore
e
lo
schifo
delle
tracce
e
degli
avanzi
della
recente
abitazione.
Renzo
affrettò
il
passo,
facendosi
coraggio
col
pensare
che
la
meta
non
doveva
essere
così
vicina,
e
sperando
che,
prima
d’arrivarci,
troverebbe
mutata,
almeno
in
parte,
la
scena;
e
infatti,
di
lì
a
non
molto,
riuscì
in
un
luogo
che
poteva
pur
dirsi
città
di
viventi;
ma
quale
città
ancora,
e
quali
viventi!
Serrati,
per
sospetto
e
per
terrore,
tutti
gli
usci
di
strada,
salvo
quelli
che
fossero
spalancati
per
esser
le
case
disabitate,
o
invase;
altri
inchiodati
e
sigillati,
per
esser
nelle
case
morta
o
ammalata
gente
di
peste;
altri
segnati
d’una
croce
fatta
col
carbone,
per
indizio
ai
monatti,
che
c’eran
de’
morti
da
portar
via:
il
tutto
più
alla
ventura
che
altro,
secondo
che
si
fosse
trovato
piuttosto
qua
che
là
un
qualche
commissario
della
Sanità
o
altro
impiegato,
che
avesse
voluto
eseguir
gli
ordini,
o
fare
un’angheria.
Per
tutto
cenci
e,
più
ributtanti
de’
cenci,
fasce
marciose,
strame
ammorbato,
o
lenzoli
buttati
dalle
finestre;
talvolta
corpi,
o
di
persone
morte
all’improvviso,
nella
strada,
e
lasciati
lì
fin
che
passasse
un
carro
da
portarli
via,
o
cascati
da’
carri
medesimi,
o
buttati
anch’essi
dalle
finestre:
tanto
l’insistere
e
l’imperversar
del
disastro
aveva
insalvatichiti
gli
animi,
e
fatto
dimenticare
ogni
cura
di
pietà,
ogni,
riguardo
sociale!
Cessato
per
tutto
ogni
rumor
di
botteghe,
ogni
strepito
di
carrozze,
ogni
grido
di
venditori,
ogni
chiacchierìo
di
passeggieri,
era
ben
raro
che
quel
silenzio
di
morte
fosse
rotto
da
altro
che
da
rumor
di
carri
funebri,
da
lamenti
di
poveri,
da
rammarichìo
d’infermi,
da
urli
di
frenetici,
da
grida
di
monatti.
All’alba,
a
mezzogiorno,
a
sera,
una
campana
del
duomo
dava
il
segno
di
recitar
certe
preci
assegnate
dall’arcivescovo:
a
quel
tocco
rispondevan
le
campane
dell’altre
chiese;
e
allora
avreste
veduto
persone
affacciarsi
alle
finestre,
a
pregare
in
comune;
avreste
sentito
un
bisbiglio
di
voci
e
di
gemiti,
che
spirava
una
tristezza
mista
pure
di
qualche
conforto.
Morti
a
quell’ora
forse
i
due
terzi
de’
cittadini,
andati
via
o
ammalati
una
buona
parte
del
resto,
ridotto
quasi
a
nulla
il
concorso
della
gente
di
fuori,
de’
pochi
che
andavan
per
le
strade,
non
se
ne
sarebbe
per
avventura,
in
un
lungo
giro,
incontrato
uno
solo
in
cui
non
si
vedesse
qualcosa
di
strano,
e
che
dava
indizio
d’una
funesta
mutazione
di
cose.
Si
vedevano
gli
uomini
più
qualificati,
senza
cappa
nè
mantello,
parte
allora
essenzialissima
del
vestiario
civile;
senza
sottana
i
preti,
e
anche
de’
religiosi
in
farsetto;
dismessa
in
somma
ogni
sorte
di
vestito
che
potesse
con
gli
svolazzi
toccar
qualche
cosa,
o
dare
(ciò
che
si
temeva
più
di
tutto
il
resto)
agio
agli
untori.
E
fuor
di
questa
cura
d’andar
succinti
e
ristretti
il
più
che
fosse
possibile,
negletta
e
trasandata
ogni
persona;
lunghe
le
barbe
di
quelli
che
usavan
portarle,
cresciute
a
quelli
che
prima
costumavan
di
raderle;
lunghe
pure
e
arruffate
le
capigliature,
non
solo
per
quella
trascuranza
che
nasce
da
un
invecchiato
abbattimento,
ma
per
esser
divenuti
sospetti
i
barbieri,
da
che
era
stato
preso
e
condannato,
come
untor
famoso,
uno
di
loro,
Giangiacomo
Mora:
nome
che,
per
un
pezzo,
conservò
una
celebrità
municipale
d’infamia,
e
ne
meriterebbe
una
ben
più
diffusa
e
perenne
di
pietà.
I
più
tenevano
da
una
mano
un
bastone,
alcuni
anche
una
pistola,
per
avvertimento
minaccioso
a
chi
avesse
voluto
avvicinarsi
troppo;
dall’altra
pasticche
odorose,
o
palle
di
metallo
o
di
legno
traforate,
con
dentro
spugne
inzuppate
d’aceti
medicati;
e
se
le
andavano
ogni
tanto
mettendo
al
naso,
o
ce
le
tenevano
di
continuo.
Portavano
alcuni
attaccata
al
collo
una
boccetta
con
dentro
un
po’
d’argento
vivo,
persuasi
che
avesse
la
virtù
d’assorbire
e
di
ritenere
ogni
esalazione
pestilenziale;
e
avevan
poi
cura
di
rinnovarlo
ogni
tanti
giorni.
I
gentiluomini,
non
solo
uscivano
senza
il
solito
seguito,
ma
si
vedevano,
con
una
sporta
in
braccio,
andare
a
comprar
le
cose
necessarie
al
vitto.
Gli
amici,
quando
pur
due
s’incontrassero
per
la
strada,
si
salutavan
da
lontano,
con
cenni
taciti
e
frettolosi.
Ognuno,
camminando,
aveva
molto
da
fare,
per
iscansare
gli
schifosi
e
mortiferi
inciampi
di
cui
il
terreno
era
sparso
e,
in
qualche
luogo,
anche
affatto
ingombro:
ognuno
cercava
di
stare
in
mezzo
alla
strada,
per
timore
d’altro
sudiciume,
o
d’altro
più
funesto
peso
che
potesse
venir
giù
dalle
finestre;
per
timore
delle
polveri
venefiche
che
si
diceva
esser
spesso
buttate
da
quelle
su’
passeggieri;
per
timore
delle
muraglie,
che
potevan
esser
unte.
Così
l’ignoranza,
coraggiosa
e
guardinga
alla
rovescia,
aggiungeva
ora
angustie
all’angustie,
e
dava
falsi
terrori,
in
compenso
de’
ragionevoli
e
salutari
che
aveva
levati
da
principio.
Tal
era
ciò
che
di
meno
deforme
e
di
men
compassionevole
si
faceva
vedere
intorno,
i
sani,
gli
agiati:
chè,
dopo
tante
immagini
di
miseria,
e
pensando
a
quella
ancor
più
grave,
per
mezzo
alla
quale
dovrem
condurre
il
lettore,
non
ci
fermeremo
ora
a
dir
qual
fosse
lo
spettacolo
degli
appestati
che
si
strascicavano
o
giacevano
per
le
strade,
de’
poveri,
de’
fanciulli,
delle
donne.
Era
tale,
che
il
riguardante
poteva
trovar
quasi
un
disperato
conforto
in
ciò
che
ai
lontani
e
ai
posteri
fa
la
più
forte
e
dolorosa
impressione;
nel
pensare,
dico,
nel
vedere
quanto
que’
viventi
fossero
ridotti
a
pochi.
In
mezzo
a
questa
desolazione
aveva
Renzo
fatto
già
una
buona
parte
del
suo
cammino,
quando,
distante
ancor
molti
passi
da
una
strada
in
cui
doveva
voltare,
sentì
venir
da
quella
un
vario
frastono,
nel
quale
si
faceva
distinguere
quel
solito
orribile
tintinnìo.
Arrivato
alla
cantonata
della
strada,
ch’era
una
delle
più
larghe,
vide
quattro
carri
fermi
nel
mezzo;
e
come,
in
un
mercato
di
granaglie,
si
vede
un
andare
e
venire
di
gente,
un
caricare
e
un
rovesciar
di
sacchi,
tale
era
il
movimento
in
quel
luogo:
monatti
ch’entravan
nelle
case,
monatti
che
n’uscivan
con
un
peso
su
le
spalle,
e
lo
mettevano
su
l’uno
o
l’altro
carro:
alcuni
con
la
divisa
rossa,
altri
senza
quel
distintivo,
molti
con
uno
ancor
più
odioso,
pennacchi
e
fiocchi
di
vari
colori,
che
quegli
sciagurati
portavano
come
per
segno
d’allegria,
in
tanto
pubblico
lutto.
Ora
da
una,
ora
da
un’altra
finestra,
veniva
una
voce
lugubre:
“qua,
monatti!”
E
con
suono
ancor
più
sinistro,
da
quel
tristo
brulichìo
usciva
qualche
vociaccia
che
rispondeva:
“ora,
ora.”
Ovvero
eran
pigionali
che
brontolavano,
e
dicevano
di
far
presto:
ai
quali
i
monatti
rispondevano
con
bestemmie.
Entrato
nella
strada,
Renzo
allungò
il
passo,
cercando
di
non
guardar
quegl’ingombri,
se
non
quanto
era
necessario
per
iscansarli;
quando
il
suo
sguardo
s’incontrò
in
un
oggetto
singolare
di
pietà,
d’una
pietà
che
invogliava
l’animo
a
contemplarlo;
di
maniera
che
si
fermò,
quasi
senza
volerlo.
Scendeva
dalla
soglia
d’uno
di
quegli
usci,
e
veniva
verso
il
convoglio,
una
donna,
il
cui
aspetto
annunziava
una
giovinezza
avanzata,
ma
non
trascorsa;
e
vi
traspariva
una
bellezza
velata
e
offuscata,
ma
non
guasta,
da
una
gran
passione,
e
da
un
languor
mortale:
quella
bellezza
molle
a
un
tempo
e
maestosa,
che
brilla
nel
sangue
lombardo.
La
sua
andatura
era
affaticata,
ma
non
cascante;
gli
occhi
non
davan
lacrime,
ma
portavan
segno
d’averne
sparse
tante;
c’era
in
quel
dolore
un
non
so
che
di
pacato
e
di
profondo,
che
attestava
un’anima
tutta
consapevole
e
presente
a
sentirlo.
Ma
non
era
il
solo
suo
aspetto
che,
tra
tante
miserie,
la
indicasse
così
particolarmente
alla
pietà,
e
ravvivasse
per
lei
quel
sentimento
ormai
stracco
e
ammortito
ne’
cuori.
Portava
essa
in
collo
una
bambina
di
forse
nov’anni,
morta;
ma
tutta
ben
accomodata,
co’
capelli
divisi
sulla
fronte,
con
un
vestito
bianchissimo,
come
se
quelle
mani
l’avessero
adornata
per
una
festa
promessa
da
tanto
tempo,
e
data
per
premio.
Nè
la
teneva
a
giacere,
ma
sorretta,
a
sedere
sur
un
braccio,
col
petto
appoggiato
al
petto,
come
se
fosse
stata
viva;
se
non
che
una
manina
bianca
a
guisa
di
cera
spenzolava
da
una
parte,
con
una
certa
inanimata
gravezza,
e
il
capo
posava
sull’omero
della
madre,
con
un
abbandono
più
forte
del
sonno:
della
madre,
chè,
se
anche
la
somiglianza
de’
volti
non
n’avesse
fatto
fede,
l’avrebbe
detto
chiaramente
quello
de’
due
ch’esprimeva
ancora
un
sentimento.
Un
turpe
monatto
andò
per
levarle
la
bambina
dalle
braccia,
con
una
specie
però
d’insolito
rispetto,
con
un’esitazione
involontaria.
Ma
quella,
tirandosi
indietro,
senza
però
mostrare
sdegno
né
disprezzo,
“no!”
disse:
“non
me
la
toccate
per
ora;
devo
metterla
io
su
quel
carro:
prendete.”
Così
dicendo,
aprì
una
mano,
fece
vedere
una
borsa,
e
la
lasciò
cadere
in
quella
che
il
monatto
le
tese.
Poi
continuò:
“promettetemi
di
non
levarle
un
filo
d’intorno,
né
di
lasciar
che
altri
ardisca
di
farlo,
e
di
metterla
sotto
terra
così.”
Il
monatto
si
mise
una
mano
al
petto;
e
poi,
tutto
premuroso,
e
quasi
ossequioso,
più
per
il
nuovo
sentimento
da
cui
era
come
soggiogato,
che
per
l’inaspettata
ricompensa,
s’affaccendò
a
far
un
po’
di
posto
sul
carro
per
la
morticina.
La
madre,
dato
a
questa
un
bacio
in
fronte,
la
mise
lì
come
sur
un
letto,
ce
l’accomodò,
le
stese
sopra
un
panno
bianco,
e
disse
l’ultime
parole:
“addio,
Cecilia!
riposa
in
pace!
Stasera
verremo
anche
noi,
per
restar
sempre
insieme.
Prega
intanto
per
noi;
ch’io
pregherò
per
te
e
per
gli
altri.”
Poi
voltatasi
di
nuovo
al
monatto,
“voi,”
disse,
“passando
di
qui
verso
sera,
salirete
a
prendere
anche
me,
e
non
me
sola.”
Così
detto,
rientrò
in
casa,
e,
un
momento
dopo,
s’affacciò
alla
finestra,
tenendo
in
collo
un’altra
bambina
più
piccola,
viva,
ma
coi
segni
della
morte
in
volto.
Stette
a
contemplare
quelle
così
indegne
esequie
della
prima,
finché
il
carro
non
si
mosse,
finché
lo
poté
vedere;
poi
disparve.
E
che
altro
poté
fare,
se
non
posar
sul
letto
l’unica
che
le
rimaneva,
e
mettersele
accanto
per
morire
insieme?
come
il
fiore
già
rigoglioso
sullo
stelo
cade
insieme
col
fiorellino
ancora
in
boccia,
al
passar
della
falce
che
pareggia
tutte
l’erbe
del
prato.
“O
Signore!”
esclamò
Renzo:
“esauditela!
tiratela
a
voi,
lei
e
la
sua
creaturina:
hanno
patito
abbastanza!
hanno
patito
abbastanza!”
Riavuto
da
quella
commozione
straordinaria,
e
mentre
cerca
di
tirarsi
in
mente
l’itinerario
per
trovare
se
alla
prima
strada
deve
voltare,
e
se
a
diritta
o
a
mancina,
sente
anche
da
questa
venire
un
altro
e
diverso
strepito,
un
suono
confuso
di
grida
imperiose,
di
fiochi
lamenti,
un
pianger
di
donne,
un
mugolìo
di
fanciulli.
Andò
avanti,
con
in
cuore
quella
solita
trista
e
oscura
aspettativa.
Arrivato
al
crocicchio,
vide
da
una
parte
una
moltitudine
confusa
che
s’avanzava,
e
si
fermò
lì,
per
lasciarla
passare.
Erano
ammalati
che
venivan
condotti
al
lazzeretto;
alcuni,
spinti
a
forza,
resistevano
in
vano,
in
vano
gridavano
che
volevan
morire
sul
loro
letto,
e
rispondevano
con
inutili
imprecazioni
alle
bestemmie
e
ai
comandi
de’
monatti
che
li
guidavano;
altri
camminavano
in
silenzio,
senza
mostrar
dolore,
nè
alcun
altro
sentimento,
come
insensati;
donne
co’
bambini
in
collo;
fanciulli
spaventati
dalle
grida,
da
quegli
ordini,
da
quella
compagnia,
più
che
dal
pensiero
confuso
della
morte,
i
quali
ad
alte
strida
imploravano
la
madre
e
le
sue
braccia
fidate,
e
la
casa
loro.
Ahi!
e
forse
la
madre,
che
credevano
d’aver
lasciata
addormentata
sul
suo
letto,
ci
s’era
buttata,
sorpresa
tutt’a
un
tratto
dalla
peste;
e
stava
lì
senza
sentimento,
per
esser
portata
sur
un
carro
al
lazzeretto,
o
alla
fossa,
se
il
carro
veniva
più
tardi.
Forse,
o
sciagura
degna
di
lacrime
ancor
più
amare!
la
madre,
tutta
occupata
de’
suoi
patimenti,
aveva
dimenticato
ogni
cosa,
anche
i
figli,
e
non
aveva
più
che
un
pensiero:
di
morire
in
pace.
Pure,
in
tanta
confusione,
si
vedeva
ancora
qualche
esempio
di
fermezza
e
di
pietà:
padri,
madri,
fratelli,
figli,
consorti,
che
sostenevano
i
cari
loro,
e
gli
accompagnavano
con
parole
di
conforto:
nè
adulti
soltanto,
ma
ragazzetti,
ma
fanciulline
che
guidavano
i
fratellini
più
teneri,
e,
con
giudizio
e
con
compassione
da
grandi,
raccomandavano
loro
d’essere
ubbidienti,
gli
assicuravano
che
s’andava
in
un
luogo
dove
c’era
chi
avrebbe
cura
di
loro
per
farli
guarire.
In
mezzo
alla
malinconia
e
alla
tenerezza
di
tali
viste,
una
cosa
toccava
più
sul
vivo,
e
teneva
in
agitazione
il
nostro
viaggiatore.
La
casa
doveva
esser
lì
vicina,
e
chi
sa
se
tra
quella
gente…
Ma
passata
tutta
la
comitiva,
e
cessato
quel
dubbio,
si
voltò
a
un
monatto
che
veniva
dietro,
e
gli
domandò
della
strada
e
della
casa
di
don
Ferrante.
“In
malora,
tanghero,”
fu
la
risposta
che
n’ebbe.
Nè
si
curò
di
dare
a
colui
quella
che
si
meritava;
ma,
visto,
a
due
passi,
un
commissario
che
veniva
in
coda
al
convoglio,
e
aveva
un
viso
un
po’
più
di
cristiano,
fece
a
lui
la
stessa
domanda.
Questo,
accennando
con
un
bastone
la
parte
donde
veniva,
disse:
“la
prima
strada
a
diritta,
l’ultima
casa
grande
a
sinistra.”
Con
una
nuova
e
più
forte
ansietà
in
cuore,
il
giovine
prende
da
quella
parte.
È
nella
strada;
distingue
subito
la
casa
tra
l’altre,
più
basse
e
meschine;
s’accosta
al
portone
che
è
chiuso,
mette
la
mano
sul
martello,
e
ce
la
tien
sospesa,
come
in
un’urna,
prima
di
tirar
su
la
polizza
dove
fosse
scritta
la
sua
vita,
o
la
sua
morte.
Finalmente
alza
il
martello,
e
dà
un
picchio
risoluto.
Dopo
qualche
momento,
s’apre
un
poco
una
finestra;
una
donna
fa
capolino,
guardando
chi
era,
con
un
viso
ombroso
che
par
che
dica:
monatti?
vagabondi?
commissari?
untori?
diavoli?
“Quella
signora,”
disse
Renzo
guardando
in
su,
e
con
voce
non
troppo
sicura:
–
ci
sta
qui
a
servire
una
giovine
di
campagna,
che
ha
nome
Lucia?
“La
non
c’è
più;
andate,”
rispose
quella
donna,
facendo
atto
di
chiudere.
“Un
momento,
per
carità!
La
non
c’è
più?
Dov’è?”
“Al
lazzeretto;”
e
di
nuovo
voleva
chiudere.
“Ma
un
momento,
per
l’amor
del
cielo!
Con
la
peste?”
“Già.
Cosa
nuova,
eh?
Andate.”
“Oh
povero
me!
Aspetti:
era
ammalata
molto?
Quanto
tempo
è…?”
Ma
intanto
la
finestra
fu
chiusa
davvero.
“Quella
signora!
quella
signora!
una
parola,
per
carità!
per
i
suoi
poveri
morti!
Non
le
chiedo
niente
del
suo:
ohe!”
Ma
era
come
dire
al
muro.
Afflitto
della
nuova,
e
arrabbiato
della
maniera,
Renzo
afferrò
ancora
il
martello,
e,
così
appoggiato
alla
porta,
andava
stringendolo
e
storcendolo,
l’alzava
per
picchiar
di
nuovo
alla
disperata,
poi
lo
teneva
sospeso.
In
quest’agitazione,
si
voltò
per
vedere
se
mai
ci
fosse
d’intorno
qualche
vicino,
da
cui
potesse
forse
aver
qualche
informazione
più
precisa,
qualche
indizio,
qualche
lume.
Ma
la
prima,
l’unica
persona
che
vide,
fu
un’altra
donna,
distante
forse
un
venti
passi;
la
quale,
con
un
viso
ch’esprimeva
terrore,
odio,
impazienza
e
malizia,
con
cert’occhi
stravolti
che
volevano
insieme
guardar
lui,
e
guardar
lontano,
spalancando
la
bocca
come
in
atto
di
gridare
a
più
non
posso,
ma
rattenendo
anche
il
respiro,
alzando
due
braccia
scarne,
allungando
e
ritirando
due
mani
grinzose
e
piegate
a
guisa
d’artigli,
come
se
cercasse
d’acchiappar
qualcosa,
si
vedeva
che
voleva
chiamar
gente,
in
modo
che
qualcheduno
non
se
n’accorgesse.
Quando
s’incontrarono
a
guardarsi,
colei,
fattasi
ancor
più
brutta,
si
riscosse
come
persona
sorpresa.
“Che
diamine…?”
cominciava
Renzo,
alzando
anche
lui
le
mani
verso
la
donna;
ma
questa,
perduta
la
speranza
di
poterlo
far
cogliere
all’improvviso,
lasciò
scappare
il
grido
che
aveva
rattenuto
fin
allora:
“l’untore!
dagli!
dagli!
dagli
all’untore!
“Chi?
io!
ah
strega
bugiarda!
sta
zitta,”
gridò
Renzo;
e
fece
un
salto
verso
di
lei,
per
impaurirla
e
farla
chetare.
Ma
s’avvide
subito,
che
aveva
bisogno
piuttosto
di
pensare
ai
casi
suoi.
Allo
strillar
della
vecchia,
accorreva
gente
di
qua
e
di
là;
non
la
folla
che,
in
un
caso
simile,
sarebbe
stata,
tre
mesi
prima;
ma
più
che
abbastanza
per
poter
fare
d’un
uomo
solo
quel
che
volessero.
Nello
stesso
tempo,
s’aprì
di
nuovo
la
finestra,
e
quella
medesima
sgarbata
di
prima
ci
s’affacciò
questa
volta,
e
gridava
anche
lei:
“pigliatelo,
pigliatelo;
che
dev’essere
uno
di
que’
birboni
che
vanno
in
giro
a
unger
le
porte
de’
galantuomini.”
Renzo
non
istette
lì
a
pensare:
gli
parve
subito
miglior
partito
sbrigarsi
da
coloro,
che
rimanere
a
dir
le
sue
ragioni:
diede
un’occhiata
a
destra
e
a
sinistra,
da
che
parte
ci
fosse
men
gente,
e
svignò
di
là.
Rispinse
con
un
urtone
uno
che
gli
parava
la
strada;
con
un
gran
punzone
nel
petto,
fece
dare
indietro
otto
o
dieci
passi
un
altro
che
gli
correva
incontro;
e
via
di
galoppo,
col
pugno
in
aria,
stretto,
nocchiuto,
pronto
per
qualunque
altro
gli
fosse
venuto
tra’
piedi.
La
strada
davanti
era
sempre
libera;
ma
dietro
le
spalle
sentiva
il
calpestìo
e,
più
forti
del
calpestìo,
quelle
grida
amare:
“dàgli!
dàgli!
all’untore!”
Non
sapeva
quando
fossero
per
fermarsi;
non
vedeva
dove
si
potrebbe
mettere
in
salvo.
L’ira
divenne
rabbia,
l’angoscia
si
cangiò
in
disperazione;
e,
perso
il
lume
degli
occhi,
mise
mano
al
suo
coltellaccio,
lo
sfoderò,
si
fermò
su
due
piedi,
voltò
indietro
il
viso
più
torvo
e
più
cagnesco
che
avesse
fatto
a’
suoi
giorni;
e,
col
braccio
teso,
brandendo
in
aria
la
lama
luccicante,
gridò:
“chi
ha
cuore,
venga
avanti,
canaglia!
che
l’ungerò
io
davvero
con
questo.”
Ma,
con
maraviglia,
e
con
un
sentimento
confuso
di
consolazione,
vide
che
i
suoi
persecutori
s’eran
già
fermati,
e
stavan
lì
come
titubanti,
e
che,
seguitando
a
urlare,
facevan,
con
le
mani
per
aria,
certi
cenni
da
spiritati,
come
a
gente
che
venisse
di
lontano
dietro
a
lui.
Si
voltò
di
nuovo,
e
vide
(chè
il
gran
turbamento
non
gliel
aveva
lasciato
vedere
un
momento
prima)
un
carro
che
s’avanzava,
anzi
una
fila
di
que’
soliti
carri
funebri,
col
solito
accompagnamento;
e
dietro,
a
qualche
distanza,
un
altro
mucchietto
di
gente
che
avrebbero
voluto
anche
loro
dare
addosso
all’untore,
e
prenderlo
in
mezzo;
ma
eran
trattenuti
dall’impedimento
medesimo.
Vistosi
così
tra
due
fuochi,
gli
venne
in
mente
che
ciò
che
era
di
terrore
a
coloro,
poteva
essere
a
lui
di
salvezza;
pensò
che
non
era
tempo
di
far
lo
schizzinoso;
rimise
il
coltellaccio
nel
fodero,
si
tirò
da
una
parte,
prese
la
rincorsa
verso
i
carri,
passò
il
primo,
e
adocchiò
nel
secondo
un
buono
spazio
vòto.
Prende
la
mira,
spicca
un
salto;
è
su,
piantato
sul
piede
destro,
col
sinistro
in
aria,
e
con
le
braccia
alzate.
“Bravo!
bravo!”
esclamarono,
a
una
voce,
i
monatti,
alcuni
de’
quali
seguivano
il
convoglio
a
piedi,
altri
eran
seduti
sui
carri,
altri,
per
dire
l’orribil
cosa
com’era,
sui
cadaveri,
trincando
da
un
gran
fiasco
che
andava
in
giro.
“Bravo!
bel
colpo!”
“Sei
venuto
a
metterti
sotto
la
protezione
de’
monatti;
fa’
conto
d’essere
in
chiesa,”
gli
disse
uno
de’
due
che
stavano
sul
carro
dov’era
montato.
I
nemici,
all’avvicinarsi
del
treno,
avevano,
i
più,
voltate
le
spalle,
e
se
n’andavano,
non
lasciando
di
gridare:
“dàgli!
dàgli!
all’untore!”
Qualcheduno
si
ritirava
più
adagio,
fermandosi
ogni
tanto,
e
voltandosi,
con
versacci
e
con
gesti
di
minaccia,
a
Renzo;
il
quale,
dal
carro,
rispondeva
loro
dibattendo
i
pugni
in
aria.
“Lascia
fare
a
me,”
gli
disse
un
monatto;
e
strappato
d’addosso
a
un
cadavere
un
laido
cencio,
l’annodò
in
fretta,
e,
presolo
per
una
delle
cocche,
l’alzò
come
una
fionda
verso
quegli
ostinati,
e
fece
le
viste
di
buttarglielo,
gridando:
“aspetta,
canaglia!”
A
quell’atto,
fuggiron
tutti,
inorriditi;
e
Renzo
non
vide
più
che
schiene
di
nemici,
e
calcagni
che
ballavano
rapidamente
per
aria,
a
guisa
di
gualchiere.
Tra
i
monatti
s’alzò
un
urlo
di
trionfo,
uno
scroscio
procelloso
di
risa,
un
“uh!”
prolungato,
come
per
accompagnar
quella
fuga.
“Ah
ah!
vedi
se
noi
sappiamo
proteggere
i
galantuomini?”
disse
a
Renzo
quel
monatto:
“val
più
uno
di
noi
che
cento
di
que’
poltroni.”
“Certo,
posso
dire
che
vi
devo
la
vita,”
rispose
Renzo:
“e
vi
ringrazio
con
tutto
il
cuore.”
“Di
che
cosa?”
disse
il
monatto:
“tu
lo
meriti:
si
vede
che
sei
un
bravo
giovine.
Fai
bene
a
ungere
questa
canaglia:
ungili,
estirpali
costoro,
che
non
vaglion
qualcosa,
se
non
quando
son
morti;
che,
per
ricompensa
della
vita
che
facciamo,
ci
maledicono,
e
vanno
dicendo
che,
finita
la
morìa,
ci
voglion
fare
impiccar
tutti.
Hanno
a
finir
prima
loro
che
la
morìa,
e
i
monatti
hanno
a
restar
soli,
a
cantar
vittoria,
e
a
sguazzar
per
Milano.”
“Viva
la
morìa,
e
moia
la
marmaglia!”
esclamò
l’altro;
e,
con
questo
bel
brindisi,
si
mise
il
fiasco
alla
bocca,
e,
tenendolo
con
tutt’e
due
le
mani,
tra
le
scosse
del
carro,
diede
una
buona
bevuta,
poi
lo
porse
a
Renzo,
dicendo:
“bevi
alla
nostra
salute.”
“Ve
l’auguro
a
tutti,
con
tutto
il
cuore,”
disse
Renzo:
“ma
non
ho
sete;
non
ho
proprio
voglia
di
bere
in
questo
momento”.
“Tu
hai
avuto
una
bella
paura,
a
quel
che
mi
pare,”
disse
il
monatto:
“m’hai
l’aria
d’un
pover’uomo;
ci
vuol
altri
visi
a
far
l’untore.”
“Ognuno
s’ingegna
come
può,”
disse
l’altro.
“Dammelo
qui
a
me,”
disse
uno
di
quelli
che
venivano
a
piedi
accanto
al
carro,
“chè
ne
voglio
bere
anch’io
un
altro
sorso,
alla
salute
del
suo
padrone,
che
si
trova
qui
in
questa
bella
compagnia….
lì,
lì,
appunto,
mi
pare,
in
quella
bella
carrozzata.”
E,
con
un
suo
atroce
e
maledetto
ghigno,
accennava
il
carro
davanti
a
quello
su
cui
stava
il
povero
Renzo.
Poi,
composto
il
viso
a
un
atto
di
serietà
ancor
più
bieco
e
fellonesco,
fece
una
riverenza
da
quella
parte,
e
riprese:
“si
contenta,
padron
mio,
che
un
povero
monattuccio
assaggi
di
quello
della
sua
cantina?
Vede
bene:
si
fa
certe
vite:
siam
quelli
che
l’abbiam
messo
in
carrozza,
per
condurlo
in
villeggiatura.
E
poi,
già
a
loro
signori
il
vino
fa
subito
male:
i
poveri
monatti
han
lo
stomaco
buono.”
E
tra
le
risate
de’
compagni,
prese
il
fiasco,
e
l’alzò;
ma,
prima
di
bere,
si
voltò
a
Renzo,
gli
fissò
gli
occhi
in
viso,
e
gli
disse,
con
una
cert’aria
di
compassione
sprezzante:
“bisogna
che
il
diavolo
col
quale
hai
fatto
il
patto,
sia
ben
giovine;
chè,
se
non
eravamo
lì
noi
a
salvarti,
lui
ti
dava
un
bell’aiuto.”
E
tra
un
nuovo
scroscio
di
risa,
s’attaccò
il
fiasco
alle
labbra.
“E
noi?
eh!
e
noi?”
gridaron
più
voci
dal
carro
ch’era
avanti.
Il
birbone,
tracannato
quanto
ne
volle,
porse,
con
tutt’e
due
le
mani,
il
gran
fiasco
a
quegli
altri
suoi
simili,
i
quali
se
lo
passaron
dall’uno
all’altro,
fino
a
uno
che,
votatolo,
lo
prese
per
il
collo,
gli
fece
fare
il
mulinello,
e
lo
scagliò
a
fracassarsi
sulle
lastre,
gridando:
“viva
la
morìa!”
Dietro
a
queste
parole,
intonò
una
loro
canzonaccia;
e
subito
alla
sua
voce
s’accompagnaron
tutte
l’altre
di
quel
turpe
coro.
La
cantilena
infernale,
mista
al
tintinnìo
de’
campanelli,
al
cigolìo
de’
carri,
al
calpestìo
de’
cavalli,
risonava
nel
vòto
silenzioso
delle
strade,
e,
rimbombando
nelle
case,
stringeva
amaramente
il
cuore
de’
pochi
che
ancor
le
abitavano.
Ma
cosa
non
può
alle
volte
venire
in
acconcio?
cosa
non
può
far
piacere
in
qualche
caso?
Il
pericolo
d’un
momento
prima
aveva
resa
più
che
tollerabile
a
Renzo
la
compagnia
di
que’
morti
e
di
que’
vivi;
e
ora
fu
a’
suoi
orecchi
una
musica,
sto
per
dire,
gradita,
quella
che
lo
levava
dall’impiccio
d’una
tale
conversazione.
Ancor
mezzo
affannato,
e
tutto
sottosopra,
ringraziava
intanto
alla
meglio
in
cuor
suo
la
Provvidenza,
d’essere
uscito
d’un
tal
frangente,
senza
ricever
male
nè
farne;
la
pregava
che
l’aiutasse
ora
a
liberarsi
anche
da’
suoi
liberatori;
e
dal
canto
suo,
stava
all’erta,
guardava
quelli,
guardava
la
strada,
per
cogliere
il
tempo
di
sdrucciolar
giù
quatto
quatto,
senza
dar
loro
occasione
di
far
qualche
rumore,
qualche
scenata,
che
mettesse
in
malizia
i
passeggieri.
Tutt’a
un
tratto,
a
una
cantonata,
gli
parve
di
riconoscere
il
luogo:
guardò
più
attentamente,
e
ne
fu
sicuro.
Sapete
dov’era?
Sul
corso
di
porta
orientale,
in
quella
strada
per
cui
era
venuto
adagio,
e
tornato
via
in
fretta,
circa
venti
mesi
prima.
Gli
venne
subito
in
mente
che
di
lì
s’andava
diritto
al
lazzeretto;
e
questo
trovarsi
sulla
strada
giusta,
senza
studiare,
senza
domandare,
l’ebbe
per
un
tratto
speciale
della
Provvidenza,
e
per
buon
augurio
del
rimanente.
In
quel
punto,
veniva
incontro
ai
carri
un
commissario,
gridando
a’
monatti
di
fermare,
e
non
so
che
altro:
il
fatto
è
che
il
convoglio
si
fermò,
e
la
musica
si
cambiò
in
un
diverbio
rumoroso.
Uno
de’
monatti
ch’eran
sul
carro
di
Renzo,
saltò
giù:
Renzo
disse
all’altro:
“vi
ringrazio
della
vostra
carità:
Dio
ve
ne
renda
merito;”
e
giù
anche
lui,
dall’altra
parte.
“Va’,
va’,
povero
untorello,”
rispose
colui:
“non
sarai
tu
quello
che
spianti
Milano.”
Per
fortuna,
non
c’era
chi
potesse
sentire.
Il
convoglio
era
fermato
sulla
sinistra
del
corso:
Renzo
prende
in
fretta
dall’altra
parte,
e,
rasentando
il
muro,
trotta
innanzi
verso
il
ponte;
lo
passa,
continua
per
la
strada
del
borgo,
riconosce
il
convento
de’
cappuccini,
è
vicino
alla
porta,
vede
spuntar
l’angolo
del
lazzeretto,
passa
il
cancello,
e
gli
si
spiega
davanti
la
scena
esteriore
di
quel
recinto:
un
indizio
appena
e
un
saggio,
e
già
una
vasta,
diversa,
indescrivibile
scena.
Lungo
i
due
lati
che
si
presentano
a
chi
guardi
da
quel
punto,
era
tutto
un
brulichìo;
erano
ammalati
che
andavano,
in
compagnie,
al
lazzeretto;
altri
che
sedevano
o
giacevano
sulle
sponde
del
fossato
che
lo
costeggia;
sia
che
le
forze
non
fosser
loro
bastate
per
condursi
fin
dentro
al
ricovero,
sia
che,
usciti
di
là
per
disperazione,
le
forze
fosser
loro
ugualmente
mancate
per
andar
più
avanti.
Altri
meschini
erravano
sbandati,
come
stupidi,
e
non
pochi
fuor
di
sé
affatto;
uno
stava
tutto
infervorato
a
raccontar
le
sue
immaginazioni
a
un
disgraziato
che
giaceva
oppresso
dal
male;
un
altro
dava
nelle
smanie;
un
altro
guardava
in
qua
e
in
là
con
un
visino
ridente,
come
se
assistesse
a
un
lieto
spettacolo.
Ma
la
specie
più
strana
e
più
rumorosa
d’una
tal
trista
allegrezza,
era
un
cantare
alto
e
continuo,
il
quale
pareva
che
non
venisse
fuori
da
quella
miserabile
folla,
e
pure
si
faceva
sentire
più
che
tutte
l’altri
voci:
una
canzone
contadinesca
d’amore
gaio
e
scherzevole,
di
quelle
che
chiamavan
villanelle;
e
andando
con
lo
sguardo
dietro
al
suono,
per
iscoprire
chi
mai
potesse
esser
contento,
in
quel
tempo,
in
quel
luogo,
si
vedeva
un
meschino
che,
seduto
tranquillamente
in
fondo
al
fossato,
cantava
a
più
non
posso,
con
la
testa
per
aria.
Renzo
aveva
appena
fatti
alcuni
passi
lungo
il
lato
meridionale
dell’edifizio,
che
si
sentì
in
quella
moltitudine
un
rumore
straordinario,
e
di
lontano
voci
che
gridavano:
guarda!
piglia!
S’alza
in
punta
di
piedi,
e
vede
un
cavallaccio
che
andava
di
carriera,
spinto
da
un
più
strano
cavaliere:
era
un
frenetico
che,
vista
quella
bestia
sciolta
e
non
guardata,
accanto
a
un
carro,
c’era
montato
in
fretta
a
bisdosso,
e,
martellandole
il
collo
co’
pugni,
e
facendo
sproni
de’
calcagni,
la
cacciava
in
furia;
e
monatti
dietro,
urlando;
e
tutto
si
ravvolse
in
un
nuvolo
di
polvere,
che
volava
lontano.
Così,
già
sbalordito
e
stanco
di
veder
miserie,
il
giovine
arrivò
alla
porta
di
quel
luogo
dove
ce
n’erano
adunate
forse
più
che
non
ce
ne
fosse
di
sparse
in
tutto
lo
spazio
che
gli
era
già
toccato
di
percorrere.
S’affaccia
a
quella
porta,
entra
sotto
la
volta,
e
rimane
un
momento
immobile
a
mezzo
del
portico.
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