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“Niente di importante”. Il racconto vincitore della borsa di studio “Giuseppe Pontiggia” 

    Niente di importante” di Emilia De Rango è il racconto vincitore della borsa di studio per la 7° edizione della Scuola annuale di scrittura, in programma a Milano dal 7 novembre.

    La protagonista del racconto, che non ha nome, tenta di elaborare un lutto adottando degli animali domestici – un gatto, un parrocchetto – e sublimando attraverso di essi il trauma taciuto dai genitori. Una scrittura limpida e scevra da giudizio ci trasporta nel mondo interiore della protagonista, tratteggiando il contesto con pochi, suggestivi tocchi (un letto vuoto, le code di lucertole appese al filo del bucato, le parole del sacerdote trasformate in cantilena sacrificale) per rappresentare il passaggio dall’innocenza infantile all’oscurità del mondo adulto.


    ***

    Per il mio dodicesimo compleanno, i miei genitori decisero di regalarmi un cane.

    Non fu una sorpresa, anzi, me lo comunicarono una mattina a colazione, perché volevano portarmi al canile. Lo dissero come se niente fosse, ma io sapevo che la notte prima erano rimasti svegli fino a tardi, a parlare di quello che era successo con Maura Scorza.

    Maura Scorza era la mia compagna di banco. Appena arrivata a scuola aveva tirato fuori dallo zaino una scatolina di vetro trasparente, con dentro un bocciolo di rosa, e l’aveva mostrata a tutta la classe. Gliel’aveva portata suo fratello da Londra, come souvenir. Era una rosa stabilizzata. Anche se era stata recisa dalla pianta, finché fosse rimasta chiusa nella sua scatola non sarebbe mai appassita.

    Ero entrata in classe di nascosto, durante la ricreazione. Poi avevo rubato la scatolina dallo zaino di Maura e l’avevo lasciata cadere dalla finestra del secondo piano. Maura Scorza aveva pianto per tutta la quinta ora e io ero tornata a casa scontenta.

    Andammo al canile il ventidue di dicembre, e arrivammo in ritardo. Mio padre aveva perso tempo a montare la cuccia. L’aveva sistemata nella mia stanza, fra la cassettiera e la finestra, nel posto vuoto in cui prima stava l’altro letto. Nel bagagliaio della macchina c’erano già un guinzaglio rosa e un sacco di croccantini da quattro chili.

    Quando arrivammo, la volontaria ci fece fare un giro fra i box dei cuccioli. Abbaiarono non appena sentirono il suono delle nostre voci e si avvicinarono alla grata per leccarci la punta delle dita.

    Chiesi quanto durasse la vita di un cane. “Dai dieci ai tredici anni, in media” disse lei.

    Troppo tempo, pensai.

    Così non prendemmo nessun cane, mio padre appese il guinzaglio al gancio a cui di solito attaccavamo gli ombrelli ad asciugare, e la cuccia rimase in un angolo della mia stanza, senza mai essere usata.

    Da quel giorno iniziai a fare sempre lo stesso sogno. C’era un fiore, su un asteroide rotondo delle dimensioni di una casa. Alcune volte era una margherita, altre un tulipano. L’asteroide si muoveva in cerchio, attorno alla sua orbita, in un cielo grigio. Non faceva mai in tempo a compiere il giro completo. All’improvviso veniva schiacciato da un pianeta più grande. Un attimo dopo, su quel pianeta se ne abbatteva un altro, e poi un altro ancora, pianeti sempre più enormi, sempre meno rotondi, dai contorni butterati come germi, fino a quando tutto lo spazio si esauriva, e del fiore non c’era più traccia. Allora mi svegliavo.

    Per primo trovai il gatto, nel parcheggio di fronte alla scuola. Non aveva un collare e non era addomesticato. Mi sembrò perfetto e pregai i miei genitori di poterlo tenere. Loro ci pensarono un istante, ma alla fine dissero di sì, e il gatto diventò mio.

    Non gli diedi un nome, tanto non aveva importanza, e non dormì mai nella cuccia. Lui preferiva acciambellarsi ai piedi del mio letto. Mandavo mio padre in pescheria, a comprargli tranci di salmone e aringhe affumicate sotto sale. Nelle giornate brutte, quando mia madre tirava fuori i vecchi album di famiglia, il gatto si nascondeva fra le mie ginocchia. L’infelicità sembrava non piacere neanche a lui, ma restava con me a guardare.

    Per il compleanno successivo, chiesi in regalo un altro animale. I miei genitori acconsentirono di buon grado. Non avevano il coraggio di negarmi niente. Ero indecisa fra un pesce rosso e un parrocchetto, ma alla fine scelsi il parrocchetto.

    Mio nonno, quello che non avevo mai conosciuto, costruiva gabbie per uccelli nel tempo libero. Dopo la sua morte erano state lasciate in una stanza al piano di sopra della sua vecchia casa. Alcune pendevano dal soffitto e altre erano poggiate su delle mensole, ma tutte avevano una porticina in legno spalancata e, dentro, una piccola altalena in filo metallico. Me lo ricordo perché mia nonna ci portava sempre a vederle, e quando apriva la finestra per far cambiare l’aria le porticine e le altalene dondolavano tutte allo stesso ritmo, come se nella stanza fosse rimasto uno stormo di uccelli fantasma.

    Ne scelsi una e ci misi dentro il parrocchetto. Poi aspettai.

    La cosa che più mi piaceva di casa mia era un termo-camino a vetri rettangolari, costruito nella parete confinante fra la cucina e il soggiorno. D’inverno si poteva avere il fuoco in due stanze diverse. D’estate mia madre ci metteva dentro una pianta grassa, per bellezza. Quando mi sedevo in un punto preciso del divano, con la testa piegata contro la spalla, riuscivo a vedere un ritaglio della cucina – il tavolo in formica con quattro sedie, metà frigorifero e un fornello – come attraverso una cornice.

    La domenica, subito dopo il pranzo, chiudevo la porta della cucina, poi quella del soggiorno, e restavo lì, a guardare i miei genitori bere il caffè. Lasciavo la gabbia nel posto di fronte a loro, in modo che potessi osservare il parrocchetto riposarsi sul suo trespolo. Il gatto restava l’unico libero di muoversi. Quello era il momento in cui disponevo tutti i pezzi.

    Immaginavo che dall’altra parte del vetro si svolgesse un film muto, con me come unica spettatrice. Ogni volta che mia madre e mio padre dicevano qualcosa, inventavo le loro battute di dialogo, e le recitavo ad alta voce. “Non ci sono più le mezze stagioni” faceva uno. “Capisci chi è davvero una persona solo quando la vedi soffrire” rispondeva l’altra.

    Sapevo che era solo una finzione. Ma non faceva molta differenza: neanche i genitori conoscono tutto del mondo. E quando vedi qualcuno soffrire, sai solo chi sei tu.

    Dopo un po’, il parrocchetto cominciò a mangiare i semi direttamente dalle mie mani. Gli cambiavo l’acqua nel beverino ogni mattina, per assicurarmi che fosse sempre fresca. Mi accorsi che, anche se lasciavo la porticina della gabbia aperta, lui non provava mai a volare via. Così iniziai a portarlo con me nel cortile sul retro.

    Legata fra i rami di un ulivo c’era una vecchia corda, di quelle che servivano per saltare. Adesso che nessuno la usava più, mia nonna ci stendeva il bucato. Di solito mi sdraiavo lì vicino, con la gabbia all’altezza della testa. Con un occhio guardavo le nuvole, e con l’altro le lenzuola messe ad asciugare. Man mano che l’autunno si avvicinava, dalla terra spuntarono nidi di formiche, simili a crateri, e le pavoncelle iniziarono a migrare verso sud.

    “Pensa a tutti i posti che avresti potuto vedere”, dissi una volta al parrocchetto, indicandogli uno stormo che volava. Ma poi realizzai che lui era felice così, perché era nato addomesticato.

    Nei pomeriggi di sole, anche il gatto si univa a noi. Era sempre affamato. Qualche giorno prima lo avevamo portato dal veterinario: ci aveva detto che era troppo grasso, e aveva consigliato di metterlo a dieta. I miei genitori si erano aspettati di sentirmi protestare. Invece mi dissi d’accordo. E neanche una volta dimenticai di lasciar la ciotola vuota, prima di cena.

    Il gatto saltava nell’erba per dare la caccia a piccoli insetti, che non mangiava mai, anche se aveva fame. Era stato abituato ad avere il meglio, perciò apprezzava solo la carne tenera. Ma si divertiva a giocare. Le sue prede preferite erano le lucertole, specialmente quando stavano stese sul muretto di cemento, a prendere il sole. Dopo averle catturate, se le faceva passare fra una zampa e l’altra, e poi le inchiodava con gli artigli. A volte le uccideva. Ma altre volte le lucertole rinunciavano alla coda, e riuscivano a scappare.

             Usavo un bastoncino d’ulivo per scavare piccoli sepolcri rettangolari, della misura di un mignolo. Accumulavo la terra da un lato, e picchiettavo lungo i bordi fino a ottenere la forma di una tomba. Però non seppellivo niente. Non volevo attirare le formiche. Banchettare con gli avanzi era fin troppo facile. Così appendevo le code mozzate al filo del bucato, con le mollette. In quel modo avrei potuto continuare a vederle. Anche quando le lucertole le avrebbero sostituite con altre nuove code, loro sarebbero rimaste sempre lì.

             Non riuscivo a capire perché gli adulti innalzassero lapidi, se non erano neanche in grado di inginocchiarsi e pregare.

    Iniziai a contare i giorni sul calendario. Avevo già deciso quello che sarebbe dovuto succedere.

    Ogni sera mi avvicinavo alla gabbia del parrocchetto fino a sfiorarla con il naso e sussurravo “alcune cose accadono e basta, anche a chi non se lo merita, non possiamo farci niente.” Accarezzavo il gatto dietro le orecchie e ripetevo “c’è una ragione più grande che noi non possiamo immaginare.” Era quello che mi avevano detto i miei genitori, e anche la catechista e le maestre, nei mesi dopo il funerale.

    Il lunedì, subito dopo cena, stesi un foglio di giornale sul pavimento della terrazza, nel cono di luce di una torcia. Sollevai il gatto dalla pancia, posizionandolo all’estremità destra, e lasciai che il parrocchetto mi si arrampicasse sulla mano, per posarlo sul lato opposto.

    Restai immobile al buio, vicina ma non troppo, in attesa. Il gatto piegò la testa e allungò una zampa con calma, come per misurare lo spazio vuoto fra loro.

    Poi saltò, e del parrocchetto non rimase più niente.

    Redazione Belleville