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Intervista doppia a Giorgio Fontana e Sara Loffredi

    Dall’11 ottobre Belleville propone un corso di scrittura serale al Circolino di Città Alta a Bergamo destinato a tutti coloro che vogliono avvicinarsi al mondo della narrazione, imparare a leggere con più consapevolezza e a maneggiare le tecniche utili per concepire e sviluppare una storia. In attesa della presentazione del 13 settembre a Bergamo, abbiamo chiesto ai docenti Giorgio Fontana e Sara Loffredi di rispondere alle nostre domande.

    1. Una delle qualità imprescindibili per chi scrive narrativa è avere una “voce”. In che cosa consiste? Esistono metodi utili a trovarla e rafforzarla?

    GF: La voce è l’identità stilistica (ma non solo) di un autore o autrice; ed è tanto più riconoscibile quanto più si stacca dall’uniformità e dal cliché linguistico, segnando una differenza. In potenza ognuno ha una propria voce, ma plasmarla con cura è uno degli aspetti più difficili della narrativa. Innanzitutto, bisogna evitare un errore comune: scambiare la spontaneità per l’espressione più naturale del proprio stile. Non è così: è anzi con un lungo lavoro di lettura profonda, studio e riscrittura che si crea (più che “si trova”) la cifra che ci distingue dagli altri.

    SL: Chi studia canto utilizza una voce udibile, che ha certe caratteristiche innate. Queste fanno parte della sua conformazione fisica – ognuno di noi ha un modo di camminare, di parlare, ma anche di immaginare e di vivere, in sostanza – eppure deve lavorare duramente perché la voce acquisisca estensione e “tessitura”. Con la scrittura succede qualcosa di simile. Si parte dal proprio tono, che ci contraddistingue; il passo successivo è il lavoro. La perseveranza di rimanere dentro le nostre parole, dopo averle scritte, ci fa fare un passo indietro per osservarle da lontano, come fa il pittore con il quadro: va ammorbidito ciò che è macchinoso e alleggerito ciò che è sovraccarico, esercitando la pazienza. Il punto è quasi sempre sottrarre, perché la voce è come il David: la parte difficile è togliere il marmo di troppo – l’ego, il bel suono, il compiacimento – in modo da farla emergere. Per lavorare sull’estensione, il mio consiglio è quello di allontanarsi dal proprio ombelico provando a scrivere cose lontanissime dal proprio gusto, addirittura estranee, per tornare alla storia che ci è affine con una voce più ampia.

    2. Quando cominci a lavorare a una trama, quanto peso dai alla preparazione? Fai una scaletta o preferisci addentrarti nella scrittura e lasciare che siano i personaggi a guidarti (come fa, tra gli altri, Stephen King)?

    GF: Ogni autore ha il proprio metodo, e il metodo giusto è quello che funziona: all’inizio può essere utile provare varie strade. Per quanto mi riguarda, dipende dal romanzo. In genere scrivo una decina di pagine per verificare che l’idea abbia presa e concretezza (le idee da sole non contano nulla); se la storia mi convince, inizio a preparare una scaletta di massima per garantire solidità all’architettura del testo. Ma è un supporto tecnico, non una griglia rigida: romanzo e scaletta hanno un rapporto dialettico, per cui molto spesso mentre scrivo cambio idea, sposto sequenze narrative, determinate situazioni ne generano altre che non avevo previsto. Insomma, tengo il cantiere sempre aperto.

    SL: In Fronte di scavo ho raccontato la storia del tunnel del Bianco e l’ho fatto perché tra le montagne della Valle d’Aosta ci sono cresciuta. Questo mi ha insegnato a non partire per una camminata senza prima preparare lo zaino: durante il cammino possono succedere molte cose diverse, come durante la scrittura. Certo non si può prevedere tutto ma io ho la necessità di tenere tra le mani almeno gli strumenti base per gestire i primi momenti fondamentali della storia, che sono le motivazioni dei miei personaggi – ciò che li fa alzare dal letto la mattina – e le loro paure profonde. Meglio sarebbe conoscere anche la direzione verso la quale li muoveranno questi due elementi, ma non è sempre possibile. Quindi non decido tutto io e tutto subito, ma chiedo certamente indicazioni sommarie ai miei personaggi prima di partire.

    3. Una delle difficoltà maggiori che si incontrano nello scrivere una storia è agganciare il lettore fin dalle prime righe. Quali sono secondo te le caratteristiche di un buon incipit?

    GF: Anche qui, dipende. Al di là delle questioni strettamente narrative, a mio avviso è importante che il lettore percepisca subito un’uniformità stilistica, colga il tono del testo, e percepisca che chi scrive ha il controllo della materia. A volte chi comincia tende a girovagare un po’ attorno alla storia, spesso accumulando riflessioni poco calzanti o anticipando troppo le vicende a venire: meglio andare subito al punto. Ma ripeto, dipende: la scrittura narrativa non ha norme fisse, e le indicazioni di massima vanno declinate secondo la propria sensibilità.

    SL: Generosità, misura, potenziale. Essere generosi significa essere capaci di darsi. Gli scrittori che mi piace leggere sono completamente lì, nelle loro parole, fin dalle prime righe. La misura serve da contraltare, per evitare di spalancare il proprio stomaco versandone fuori il contenuto. In breve: niente ansia di scrivere tutto, ma essere sempre presenti in ciò che si scrive. L’incipit è il varco che porta il lettore nella storia, quindi è una soglia alla quale va dedicata energia e lavoro. Per risultare efficace deve contenere in potenziale gli elementi e i temi che caratterizzano la storia, il suo tono, il suo ritmo. È come un seme, dal quale riconoscere la pianta che sarà.

    Redazione Belleville