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Il racconto vincitore del concorso “Scrivere con i grandi”

    Il racconto vincitore del concorso “Scrivere con i grandi”

    “Un padre” di Gaia Passi

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    Guardò il cielo. Anche il cielo era altrettanto magico quanto la terra. Il cielo si era schiarito e al di sopra delle vette degli alberi correvano rapide delle nubi che sembrava volessero coprire la terra. A volte sembrava che stesse schiarendo, mostrando il cielo nero e pulito. A volte sembrava che quelle macchie nere fossero nuvolette, a volte sembrava s’innalzasse alto, altissimo sopra la sua testa; a volte invece si abbassava al punto che sembrava poterlo toccare con una mano.
    Giuseppe immaginò suo padre combattere sotto quel cielo di piombo, calpestare quella stessa terra abbracciato al fucile per difendere la patria e magari, se ci riusciva, anche riportare a casa la vita. Aveva trascorso al fronte quasi due anni, tra quelle montagne che «piangevano sangue», come gli aveva sentito ripetere tante volte. Giuseppe era solo un bambino allora, giù in paese lo chiamavano Pitusso. Ricordava poco di quegli anni: il carretto di legno che spingeva lngo il sentiero di casa con dentro Otto, il cagnolino a tre zampe; i sospiri di sua madre quando il postino in bicicletta tirava dritto senza fermarsi. Di suo padre ricordava soprattutto le mani, forti e un po’ ruvide, che avevano sempre una carezza per lui. Una poi l’aveva persa in guerra, ma a Giuseppe non importava, almeno era tornato a casa. A distanza di quasi mezzo secolo era stato il padre a chiedergli di partire per quello strano pellegrinaggio tra le montagne della sua giovinezza. L’aveva lasciato scritto sul testamento, insieme a un indirizzo scribacchiato a penna su un foglio di quaderno a righe. Così Giuseppe si era preso il venerdì libero ed era partito in macchina da Milano: non sapeva cosa, né chi avrebbe trovato, ma era deciso a onorare la memoria del suo vecchio, il soldato semplice Aurelio Guadagnino.
    Aveva bussato a quella porta sconosciuta aspettandosi di trovare un antico commilitone di suo padre, invece gli aveva aperto un ragazzo alto, magrissimo. Si erano fissati per un attimo, nei loro occhi dello stesso colore grigioverde. «Sono Giuseppe Guadagnino, mio padre mi ha lasciato questo indirizzo»… aveva detto, incerto. Il ragazzo era sparito gridando «mamma». Poi era arrivata lei. Una donna di poco più di cinquant’anni con quegli stessi occhi, così simile a lui già a quel primo sguardo che non erano servite spiegazioni. «Mi chiamo Francesca» aveva detto, ma lui se n’era già andato, seguendo un impulso a scappare il più lontano possibile per fingere che quella casa, quella donna e suo figlio fossero solo il frutto della sua immaginazione. Sua sorella. Suo nipote.
    Ed ecco spiegate le lunghe assenze del padre durante la sua giovinezza, i viaggi senza motivo, i silenzi ostinati. Tornava da sua figlia, nata in guerra ma non per questo meno figlia.
    Tutto questo era accaduto il giorno prima. Ora Pitusso (così si chiamava tra sé e sé, come se avesse ancora nove anni) camminava per il paese, incerto sul da farsi. Vicino alla chiesa tutti i pomeriggi si ritrovavano i bambini a giocare, anche quando faceva freddo e c’era la nebbia. Alcuni di loro, che erano già arrivati, giocavano a biglie sul lastricato del cimitero. Altri, a cavalcioni sul muricciolo, agitavano le gambe falciando con gli zoccoli i grossi ciuffi d’ortica spuntati tra la breve cinta e le ultime tombe. Rimase a guardarli a lungo, prima di decidersi a tornare lì. In fondo, ora lo sapeva, era quello che voleva suo padre. Giunto all’angolo con la via del giorno prima, vi si affacciò con un’ansia tormentosa, guardò quella casa… e subito distolse gli occhi.
    Tornò indietro ancora una, due volte. Infine bussò. Gli aprì lei e lo invitò a entrare. L’appartamento era all’ultimo piano: un piccolo soggiorno, una piccola sala da pranzo, una piccola camera da letto e un bagno. Il soggiorno era pieno fino alle porte di mobili decisamente troppo grandi, rivestiti di gobelin, per cui muoversi significava inciampare di continuo in scene di dame a passeggio nei giardini di Versailles. Il solo quadro era una fotografia troppo ingrandita, che rappresentava una gallina seduta su una roccia sfocata. Scelta bizzarra, pensò Giuseppe. Lei sembrò leggergli nel pensiero: «È opera di un pazzo furioso» (…) «Di qualche matto scappato da un manicomio nei dintorni. Mia madre lo comprò per due soldi dal rigattiere in paese, quando ero bambina mi faceva tanto ridere». E allora lui la vide: quella bambina nata da un soldato che era sempre stato lontano. E capì che entrambi avevano avuto un padre a metà. L’altra metà, ora lo sapevano, apparteneva all’altro. Quell’incontro doveva essere il loro risarcimento.
    Giuseppe pensò che forse non si sarebbero più visti dopo quel giorno. Prima di lasciarla volle comprarle un regalo, un segno tangibile del suo passaggio in quella casa, della loro fratellanza nuova, eppure antica. Entrò in un negozio di robivecchi, il primo che trovò sulla via, e la vide subito: una grande boule de neige con dentro imprigionati due bambini, un maschio e una femmina, che giocavano con uno slittino. «Da dove viene?» chiese al vecchio che lo fissava da dietro il bancone di legno. «E chi lo sa» rispose quello «c’è tanta roba qui che viene e va». Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà.
    Uscì per strada e respirò forte. Non aveva più paura adesso. Anche la nebbia e il buio erano svaniti, visto che si era ora in un freddo e limpido pomeriggio invernale e la neve ricopriva il terreno. Forse era uscita dalla sua boule de neige. La tirò fuori dalla tasca per controllare ma no, era ancora lì. Si sentì un po’ stupido per questo.
    Ancora una volta pensò a suo padre. Chissà come aveva incontrato la mamma di Francesca, chissà se le voleva bene, o se aveva soltanto avuto bisogno di riscaldarsi il corpo e l’anima in un pomeriggio d’inverno come quello. Non faceva molta differenza, comunque. Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà il titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo. C’era stata un’altra guerra, altri padri e altri figli partiti per il fronte, altre donne a casa ad aspettare, o ad accogliere in un letto i soldati vagabondi. La loro piccola storia privata era soltanto un frammento del puzzle, tanto importante per loro quanto insignificante per il resto del mondo. Ma lui aveva trovato una sorella e il loro padre ora poteva riposare in pace.

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