Schiacciate dai grandi colossi editoriali oppure libere di scegliere i libri più coraggiosi; costrette a lottare contro un sistema distributivo che le penalizza o fertile terreno per la sperimentazione di nuovi paradigmi: come funzionano, davvero, le giovani case editrici indipendenti?
Per cominciare a scoprirlo, la Scuola Belleville ospita “Indipendente-mente. La giovane editoria raccontata da chi la fa” un ciclo di incontri online aperti e gratuiti con case editrici giovani, indipendenti e di progetto.
Il secondo appuntament0 è per il 17 marzo, alle 19.00, in diretta streaming sulla pagina Facebook di Belleville e sul nostro sito. In quell’occasione parleremo con Emanuele Giammarco, fondatore, insieme a Stefano Friani, di Racconti Edizioni.
Per iniziare a esplorare i temi della serata, abbiamo fatto a Emanuele qualche domanda.
Che cos’è un racconto? Quanto è stretta la definizione che ne date in termini letterari e/o editoriali? In altre parole, pubblicate – e pubblicherete – solo racconti (e quanto lunghi?) o anche novelle, raccolte e altro ancora?
Per quanto affascinante sia il compito di definire l’indefinibile (nessuno può effettivamente dire su quale rigo tracciare la linea di confine fra un racconto e un non-più-racconto) e per quanto il problema sembri effettivamente creare non pochi grattacapi alle persone (le mail che ci chiedono quale sia il numero esatto di cartelle da non superare sono molte) le cose sono molto più semplici di quanto la domanda sembrerebbe supporre: di solito chi scrive racconti sa di voler scrivere racconti. Semplice.
Posto che di novelle già ne pubblichiamo, in una collana chiamata «Scarafaggi» – quanto al futuro non saprei davvero dire. Vorremmo rendere il progetto sostenibile così com’è stato impostato. È possibile che ciò non dipenda interamente da noi. In ogni caso non ci sono romanzi, né saggi, né poesia, in vista.
Com’è nata Racconti Edizioni? Perché avete deciso di dedicarla a un genere letterario generalmente ritenuto “debole” sul mercato italiano?
Il racconto è una forma, non un genere. Non che “genere” sia una brutta parola, anzi, purtroppo a molti fa ancora un brutto effetto ma senza che ci sia un vero motivo. La parola “forma” semplicemente calza di più. Oltre a essere più corretta ci concede di spaziare in più (infinite?) direzioni possibili, narrativa «di genere» compresa. Abbiamo deciso di occuparcene perché banalmente ci interessava e perché ci avrebbe permesso di rivolgerci a un pubblico preciso. Potremmo quasi definirla una “fetta di mercato”. Il problema con il mercato però è che c’è sempre qualcuno che parla per lui. Mai che parli da solo (se non con i numeri, che però non piacciono a nessuno). E cambia spesso idea. E ha anche un sacco di idee pessime…
Quando siete partiti avevate esperienza sul campo (e relativi contatti) o eravate dei perfetti outsider?
Avevamo qualche contatto racimolato al Master in Editoria e nei nostri rispettivi stage, per il resto abbiamo deciso semplicemente di rompere le scatole alle persone (che molto spesso che si sono rivelate disponibili e gentili). Detto questo direi che eravamo degli outsider. Lo siamo ancora.
Cita tre esperienze che nell’apprendistato di un editore non possono mancare.
Prendersi del tempo per andare in libreria.
Parlare con i promotori.
Fare cose che non c’entrano niente con i libri.
C’è stato un punto di svolta nella – ancor breve ma già ricca di soddisfazioni -– storia della casa editrice? Un momento in cui avete sentito che il progetto aveva i “numeri” per decollare?
Ci siamo tolti delle soddisfazioni ma no, la svolta non c’è stata e ho la netta impressione che nessun evento possa rientrare sotto la suddetta categoria. Neanche «decollare» mi pare molto adatto alle imprese editoriali. Persino Rizzoli sosteneva che con i libri non si fanno i soldi. Siamo qui per cercare di fare il nostro lavoro.
Su quali aree geografiche e linguistiche puntate per il futuro della casa editrice?
Nessuna area geografica né linguistica nello specifico, piuttosto più aree che si mischiano. Ma del resto non siamo noi ad andare in quella direzione, è il mondo che ci porta lì. Noi e tanti altri. Poi ci sono i nostri limiti strutturali (nonché di chi vuole entrare in questo mondo). Leggere in inglese è più semplice che farlo in sloveno. Il percorso verso certe aree geografiche è più accidentato. Però siamo in ascolto.
Quanto conta per un editore indipendente il rapporto con i librai e come lo si coltiva?
Spero di uscire fuor di retorica dicendo semplicemente che i librai, alcuni in particolar modo, ci hanno letteralmente salvato durante la pandemia. Non è nemmeno una questione ideologica, è una questione di prospettiva sulla lettura e sulle cose in generale: antropologica, direi. Che sia vero o no, sia noi sia i librai crediamo che le persone siano in grado di scegliere i propri percorsi di lettura, che vogliano parlare con i loro simili, che sappiano mettersi in discussione e crearsi un gusto proprio, che vogliano vivere la lettura. La piega presa dall’editoria, almeno ai miei occhi, sembra concepire l’uomo in modo diverso.