A quante e quali funzioni assolve un buon incipit? Che tipo di strategie mette in campo per trasportare, nel giro di poche righe, il lettore all’interno di un’ambientazione, nel punto di vista un personaggio, dentro i meccanismi di una trama?
L’arte dell’incipit, nelle sue varianti e sfaccettature, è il tema della lezione aperta online dal titolo “Inizi” che Vanni Santoni ha tenuto il 12 dicembre dal titolo “Inizi” (la registrazione si trova qui). Dalla lezione Vanni ha ricavato una reading list con ventidue esempi tratti dalla grande letteratura su come si comincia una storia.
Ultima uscita per Brooklyn di Hubert Selby Jr.
Se ne stavano stravaccati lungo il bancone e sulle sedie.
“Ultima uscita per Brooklyn” di Hubert Selby Jr., Edizioni Sur 2017, traduzione di Martina Testa
Un’altra serata. Un’altra serata che si trascinava al locale del Greco, una tavola calda scalcagnata aperta tutta la notte, vicino alla base militare di Brooklyn. Di tanto in tanto un soldato di fanteria o della marina entrava a mangiarsi un hamburger e a usare il jukebox. Ma di solito i militari mettevano qualche disco del cazzo di musica da campagnoli. Loro ci provavano a dire al Greco di levare certa roba dal jukebox, ma lui rispondeva sempre di no. Quelli vengono e
spendono soldi. Voi state qui tutta la sera e non comprate un accidente. Mi prendi per il culo, Alex? Ci potresti andare in pensione, coi soldi che ci spendiamo noi qui dentro.
Scatah. Non ci pago manco l’autobus…
L’uomo senza qualità di Robert Musil
1. Dal quale, eccezionalmente, non si ricava nulla.
“L’uomo senza qualità“ di Robert Musil, Einaudi 2014, traduzione di Anita Rho, Gabriella Benedetti e Laura Castoldi
Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913.
Il colore viola di Alice Walker
È meglio che non lo dici mai a nessuno tranne che a Dio. Tua madre ci morirebbe.
Caro Dio,
“Il colore viola” di Alice Walker, Edizioni Sur 2019, traduzione di Andreina Lombardi Bom
ho quattordici anni.Sono unaSono sempre stata una brava ragazza. Magari mi puoi dare un segno per farmi capire cosa mi sta succedendo. La primavera scorsa dopo che è nato il piccolo Lucious li ho sentiti che bisticciavano. Lui la tirava per il braccio. Lei diceva È troppo presto, Fonso, non sto bene. Alla fine l’ha lasciata in pace. Passa una settimana, lui la tira per il braccio un’altra volta. E lei No, non me la sento. Non lo vedi che sto già mezza morta, e poi con tutti questi bambini.
Harry Potter e la Pietra Filosofale di J. K. Rowling
Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano.
“Harry Potter e la Pietra Filosofale” di J. K. Rowling, Salani 2020, traduzione di Marina Astrologo
Il giovane Holden di J. D. Salinger
Se davvero volete sentirne parlare, la prima cosa che vorrete sapere sarà dove sono nato, e che schifo di infanzia ho avuto, e cosa facevano e non facevano i miei genitori prima che nascessi, e altre stronzate alla David Copperfield, ma a me non va di entrare nei dettagli, se proprio volete la verità. Primo, è roba che m’annoia, e secondo ai miei verrebbero un paio di ictus a testa, se andassi in giro a raccontare i fatti loro. Su certe cose sono permalosissimi, specie mio padre. Simpatici, per carità, ma anche parecchio permalosi. E poi non mi metto certo a farvi la mia stupida autobiografia o non so cosa. Vi racconterò giusto la roba da matti che mi è capitata sotto Natale, prima di ritrovarmi così a pezzi che poi sono dovuto venire qui a stare un po’ tranquillo.
“Il giovane Holden“, Einaudi 2014, traduzione di Matteo Colombo
Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez
Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di fango e canne costruite sulla riva di un fiume dalle acque diafane che si precipitavano su un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle col dito.
“Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez, Mondadori 2021, traduzione di Ilide Carmignani
Lolita di Vladimir Nabokov
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
“Lolita” di Vladimir Nabokov, Adelphi 1996, traduzione di Giulia Arborio Mella
La casa della fame di Dambudzo Marechera
Presi le mie cose e me ne andai. Stava sorgendo il sole. Non mi veniva in mente un posto dove andare. Mi incamminai verso il bar ma mi fermai al negozio di liquori a comprare una birra. C’era gente sparsa dappertutto nell’ampia veranda del negozio, a bere. Mi sedetti sotto il grande msasa dai rami che graffiano la lamiera ondulata dei tetti. Cercavo di non pensare a dove stavo andando. Non ero risentito. Ero contento che fosse andata com’era andata: non potevo restarci più in quella Casa della fame dove ti portavano via ogni boccone di sanità mentale come certi uccelli che strappano il cibo dalla bocca dei bambini. E poi gli occhi di quella Casa della fame ti seguivano come se ci fosse una qualche bestia indescrivibile pronta a saltarti addosso. Certo, c’era la ragazza. Ma che altro potevo fare, con Peter che gliele dava dalla mattina alla sera? E poi, il mio intervento non era stato disinteressato come avrei voluto.
“La casa della fame” di Dambudzo Marechera, Racconti edizioni 2019, traduzione di Eva Allione
Tito di Gormenghast di Mervyn Peake
Gormenghast, ovvero l’agglomerato centrale della costruzione originaria, avrebbe esibito, preso in sé, una certa qual massiccia corposità architettonica, se fosse stato possibile ignorare il nugolo di abitazioni miserande che pullulavano lungo il circuito esterno delle mura inerpicandosi su per il pendio, semiaddossate le une alle altre, fino alle bicocche più interne che, trattenute dal terrapieno del castello, si puntellavano alle grandi mura aderendovi come patelle a uno scoglio. Questa fredda intimità con la mole incombente della fortezza era concessa alle abitazioni da leggi antichissime. Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo. Di notte, i gufi ne facevano una gola sonante; di giorno, la sua ombra nera si allungava muta.
“Tito di Gormenghast” di Mervyn Peake, Adelphi 2014, traduzione di Anna Ravano
Solenoide di Mircea Cărtărescu
Ho preso di nuovo i pidocchi, la cosa nemmeno mi sorprende più, non mi spaventa più, non mi provoca più disgusto. Mi prude soltanto. Lendini ne ho in continuazione, li faccio cadere sempre quando mi pettino in bagno: piccole uova di color avorio, che luccicano nerastre sulla ceramica del lavandino. Ne restano parecchi anche tra i denti del pettine, che poi pulisco con un vecchio spazzolino da denti, quello con l’impugnatura ammuffita. È impossibile non prendere i pidocchi: insegno in una scuola di periferia. Metà dei ragazzi hanno pidocchi, glieli trovano alla visita medica, a inizio scuola, quando l’infermiera separa i capelli con i gesti esperti degli scimpanzé, salvo che non schiaccia sotto i denti le croste chitinose degli insetti catturati. Raccomanda invece ai genitori una soluzione biancastra, simile a liscivia, dall’odore chimico, la stessa che usano alla fine anche i professori. In pochi giorni tutta la scuola arriva a odorare di soluzione contro i pidocchi.
“Solenoide” di Mircea Cărtărescu, il Saggiatore 2021, traduzione di Bruno Mazzoni
Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert
Con quel caldo – trentatré gradi – in corso Bourdon non un’anima.
“Bouvard e Pécuchet” di Gustave Flaubert, Einaudi 2008, traduzione di Camillo Sbarbaro e Michele Rago
Lì sotto, come una riga diritta, il canale Saint-Martin, la sua acqua d’inchiostro, chiusa tra le due dighe. In mezzo al canale, un barcone carico di legname; e sulla sponda, una doppia fila di botti.
Al di là, tra le case, separate da cantieri, il grande cielo terso si ritagliava in rettangoli di azzurro oltremare; e, accesi dal riverbero del sole, il bianco delle facciate, l’ardesia dei tetti, il granito delle calate spiccavano da abbagliare la vista. Un indistinto brusio saliva laggiú nell’aria di piombo; e tutto pareva intorpidito dall’ozio domenicale e dalla tristezza del giorno estivo.
Murphy di Samuel Beckett
Il sole splendeva, senza possibilità di alternative, sul niente di nuovo. Quasi fosse libero, Murphy se ne stava all’ombra, seduto, nel vicolo cieco del Bambino Gesù, West-Brompton, Londra. Là, da mesi, forse da anni, mangiava, beveva, dormiva, si vestiva e si svestiva, in un vano di media dimensione, esposto a nord-ovest, con una vista ininterrotta su altri vani di media dimensione, esposti a sud-est. Presto gli sarebbe toccato trovarsi un’altra sistemazione: del vicolo del Bambino Gesù era stata decisa la condanna. Presto gli sarebbe toccato imparare di nuovo a mangiare, a bere, a dormire, a vestirsi e svestirsi in un ambiente assolutamente sconosciuto.
“Murphy” di Samuel Beckett, Mondadori 1981, traduzione di Franco Quadri
I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia di Thomas Mann
– Com’è…? com’è…?
“I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia“ di Thomas Mann, Einaudi 2014, traduzione di Anita Rho
– Eh, diavolo, c’est la question, ma très chère demoiselle!
La moglie del console Buddenbrook, seduta accanto alla suocera sul sofà rettilineo laccato di bianco e adorno di una testa di leone dorata, con i cuscini ricoperti di stoffa giallochiara, gettò un’occhiata al marito nella poltrona al suo fianco e venne in aiuto alla figlioletta, che il nonno teneva sulle ginocchia, presso la finestra.
Sopra eroi e tombe di Ernesto Sábato
Un sabato di maggio del 1953, due anni prima degli avvenimenti di Barracas, un ragazzo alto e curvo camminava per uno dei sentieri del parco Lezama.
“Sopra eroi e tombe” di Ernesto Sábato, Einaudi 2009, traduzione di Jaime Riera Rehren
Sedette su una panchina, vicino alla statua di Ceres, e rimase lí senza far niente, abbandonato ai suoi pensieri. Come una barca alla deriva su un gran lago apparentemente tranquillo, ma agitato da profonde correnti, pensò Bruno, quando, dopo la morte di Alejandra, Martín gli raccontò, in modo confuso e frammentario, alcuni episodi legati a quella relazione. E non solo lo pensava, lo capiva anche, eccome! Perché quel diciassettenne, quel Martín, gli ricordava un suo antenato, quel Bruno remoto, che egli a volte rivedeva attraverso una nebulosa landa trentennale, territorio arricchito e devastato dall’amore, dalla delusione e dalla morte.
Rayuela di Julio Cortázar
Avrei incontrato la Maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all’arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Arts, qualche volta muovendosi da una parte all’altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull’acqua. Ed era così naturale attraversare la strada, salire i gradini del ponte, penetrare nella sua sottile vita ed avvicinarmi alla Maga, che sorrideva senza sorpresa, convinta quanto me che incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite, e che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio.
“Rayuela“ di Julio Cortázar, Einaudi 1969, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, Irene Buonafalce, Jaime Riera Rehren, Giulia Zavagna
2666 di Roberto Bolaño
La prima volta che Jean-Claude Pelletier lesse Benno von Arcimboldi fu all’età di diciannove anni, durante le feste di Natale del 1980, a Parigi, dove studiava letteratura tedesca all’università. Il libro in questione era D’Arsonval. Il giovane Pelletier allora non sapeva che il romanzo faceva parte di una trilogia (costituita dal Giardino, di ambientazione inglese, La maschera di cuoio, di ambientazione polacca, così come D’Arsonval, evidentemente, era di ambientazione francese), ma tale ignoranza o lacuna o negligenza bibliografica, che poteva essere addebitata soltanto alla sua estrema giovinezza, non sminuì di una virgola lo stupore e l’ammirazione che il libro suscitò in lui.
“2666” di Roberto Bolaño, Adelphi 2008, traduzione di Ilide Carmignani
Punch al rum di Elmore Leonard
tradotto precedentemente con il titolo “Jackie Brown”
Domenica mattina, Ordell portò Louis a dare un’occhiata alla manifestazione della supremazia bianca nel centro di Palm Beach.
“Punch al rum” di Elmore Leonard, Einaudi 2014, traduzione di Stefano Massaron
– Giovani skinhead nazi, – disse Ordell. – Guarda, ci sono anche piccole nazi-girls che marciano in Worth Avenue, ci credi? E adesso ecco che arriva il Klan. Oggi però non ce ne sono molti. Alcuni sono vestiti di verde, dev’essere la nuova moda primaverile delle teste di cono. Dietro di loro sembra che ci siano i Bikers per il razzismo, piú noti come i Cavalieri di Dixieland. Meglio che ci spostiamo piú avanti, facciamoci largo tra la folla qui, – disse Ordell portandosi dietro Louis. – C’è un uomo che voglio farti vedere. Vediamo chi ti ricorda. Mi ha detto che marceranno sulla South County e faranno il loro spettacolino sui gradini della fontana davanti al municipio. Hai mai visto tanta polizia? Sí, credo di sí. Ma non tante uniformi diverse tutte nello stesso momento, eh? E fanno anche sul serio, c’hanno su gli elmetti e tengono i manganelli pronti. Resta sul marciapiedi, sennò rischi che te li diano in testa. Tengono le strade sicure per i nazi.
Dissipatio H. G. di Guido Morselli
Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di “loro”. Puramente verbali, due (da notiziari della radio, suppongo): fallito dirottamento e riuscito stupro di una ragazza in un aereo dell’Olympic Airways; e quest’altro in inglese, forse dall’inattendibile Voice of Europe: A favorite Polish joke goes, we feign to work, the State feign to pay us. E due immagini: una bottiglia, con corona reale sullo sfondo, e la scritta in rosso: Seagrams’s Canadian Whisky. Il quadratino bianco del campo da tennis dietro l’Hotel Bellevue, nell’oculare del mio binocolo. La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano inesistenti e vaghi.
“Dissipatio H. G.” di Guido Morselli, Adelphi 2012
Pedro Páramo di Juan Rulfo
Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta. Le avevo stretto le mani per farle capire che l’avrei fatto; lei era pronta a morire e io a prometterle qualsiasi cosa. «Non mancare di fargli visita, – mi raccomandò. – Si chiama così e cosà. Sono sicura che gli farà piacere conoscerti.» Per cui non potei far altro che dirle che l’avrei fatto, glielo assicurai e continuai a dirglielo anche dopo che alle mie mani costò fatica liberarsi dalle sue mani morte.
“Pedro Páramo” di Juan Rulfo, Einaudi 2014, traduzione di Paolo Collo
L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon
Un grido s’avvicina, attraversando il cielo. È già successo prima, però niente di paragonabile ad adesso.
L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, Rizzoli 2001, traduzione di Giuseppe Natale
Ormai è troppo tardi. L’Evacuazione prosegue, ma è tutta scena. Le luci dei vagoni sono spente. Sono spente anche fuori. In alto, sopra la sua testa, si ergono le travi oblique, vecchie quanto la regina di ferro, e più in alto ancora una vetrata in grado di lasciar filtrare la luce del giorno. Sennonché è notte. La vetrata cadrà giù – presto – sarà un crollo temibile, spettacolare, il crollo di un palazzo di cristallo. Però avverrà nel buio più totale, senza neppure un barlume di luce a rischiararlo, un grande schianto invisibile e nient’altro.
Money di Martin Amis
Mentre il mio taxi lasciava la Franklin Delano Roosevelt Drive da qualche parte intorno alla Centesima, una Tomahawk carica di neri uscí di corsia squaleggiando e si infilò di prua sulla nostra rotta. Sbandammo e centrammo qualcosa, uno spartitraffico o una buca: con il fragore di un colpo di fucile il tettuccio del taxi si abbassò di colpo e mi picchiò con violenza in pieno cranio. L’ultima cosa di cui avevo bisogno, credimi, con tutti i malanni che mi tormentano già, tra testa, faccia, schiena e cuore, e ancora mezzo ubriaco e stordito e fuso com’ero per via dell’aereo.
“Money” di Martin Amis, Einaudi 2011, traduzione di Susanna Basso
Kaputt di Curzio Malaparte
Il principe Eugenio di Svezia si fermò in mezzo alla stanza.
“Kaputt” di Curzio Malaparte, Adelphi 2009
“Ascoltate” disse.
Attraverso le querce dell’Oakhill e i pini del parco di Valdemarsudden, di là dal braccio di mare che si addentra nella terra fino al Nybroplan, nel cuore di Stoccolma, veniva nel vento un triste, amoroso lamento. Non era il malinconico richiamo delle sirene dei piroscafi, che risalivano dal mare verso il porto, né il grido nebbioso dei gabbiani: era una voce femminile, distratta e dolente.