Vai al contenuto

Il racconto vincitore della borsa “Scrivere di notte”

    Il sogno del signor Allegri” di Oscar Francioso è il racconto vincitore della borsa di studio per il corso online Scrivere di notte in programma dall’1 marzo con Giordano Meacci.

    La storia di un impiegato cinquantenne, anonimo, mediocre, il cui riscatto esistenziale si compie in un’unica giornata. Con un tono tra minimalismo e fiaba, il racconto mostra come si possa creare tensione narrativa grazie a dettagli semplici ma memorabili (i baffi tagliati di un collega, che innescano la rivoluzione interiore di Allegri) e all’efficacia dello stile (il ralenti che cattura il momento in cui Allegri si lancia al salvataggio di una collega; il sogno finale, che sublima e suggella la vita del personaggio).

    ***

    La 10Data aveva sede in periferia, in uno dei tanti palazzi grigi. Come tutti i giorni negli ultimi trent’anni, Gregorio Allegri entrò nell’edificio. Percorse l’atrio affollato e salì nell’ascensore metallico ingombro di persone. Tutti erano vestiti alla stessa maniera: scarpe di lacca nere, pantaloni, giacca e cravatta nera. Le camicie erano azzurre o bianche. Quella di Allegri era azzurra, ma il suo completo, a differenza degli altri, era dieci anni più vecchio. Questo perché, dieci anni prima, chi glielo aveva venduto lo aveva rassicurato sul fatto che il tre bottoni sarebbe tornato di moda. Ed era da allora che Allegri aspettava che succedesse.

    Allegri aveva da poco passato la cinquantina. Non era mai stato magro o in forma. La sua faccia era grossa, sempre arrossata da rasature imperfette. Gli occhi, piccoli e neri, somigliavano a quelli vuoti dei roditori. Scriveva software alla 10Data da trent’anni e non era particolarmente abile nel vestire. Non eccelleva neppure nella cura della persona. Stempiato, teneva i pochi capelli superstiti molto corti. Un paio di lunghi peli neri gli spuntavano dai lobi delle orecchie, ma non se n’era mai accorto perché, a casa, non c’era nessuno a farglielo notare. Non era neppure troppo sveglio. Non aveva ottenuto eccellenti risultati né al liceo né all’Università. Ogni volta che gli capitava di dover imparare un nuovo linguaggio di programmazione, ci metteva il doppio dei suoi colleghi coetanei e il quadruplo di quelli giovani.

    L’ascensore arrivò al diciassettesimo piano e tutti uscirono. B era l’unica persona con cui Allegri scambiava qualche parola. Si incontravano ogni mattina alla macchinetta del caffè. Non erano proprio amici, semplicemente prendevano un caffè alla stessa ora. Erano molto simili, anche fisicamente. Salvo il fatto che B, per anni, aveva sfoggiato un paio di rigogliosi baffi castani. “Aveva” perché quella mattina i baffi non c’erano più. Spariti, rasati. Allegri se ne accorse che era a un paio di metri dalla macchinetta. La borsa gli sfuggì di mano e cadde a terra, producendo un rumore sordo. B gli chiese se si sentisse bene.

    “Benissimo,” rispose lui raccogliendo la borsa e sperando che l’urto non avesse danneggiato il computer. “Benissimo.”

    “Benissimo, benissimo.”

    Presero il caffè come tutte le altre giornate. Come va il lavoro, la casa, il mutuo, la moglie. Allegri si sentiva strano. Agitato, forse. Asciugandosi la fronte sudata con la manica, ebbe il coraggio di chiedere:

                “Che fine hanno fatto i tuoi baffi?”

                “I miei baffi?”

                “I tuoi baffi, sì.”

    B fece spallucce.

                “Non sono mai piaciuti a C. Erano anni che mi chiedeva di rasarli.”       

                “… E com’è?”

                “Com’è cosa?”

                “Stare senza baffi.”

    “Non saprei.” B aggrottò leggermente la fronte “Ho freddo al labbro superiore, credo.”

    Un paio d’ore dopo, D fece sobbalzare Allegri, bussando al suo cubicolo. D era una sviluppatrice, di grado direttamente superiore a lui. Una ragazza piuttosto giovane per ricoprire quella posizione in azienda – aveva meno della metà degli anni di Allegri. Portava i capelli rossi tagliati a caschetto e in genere si truccava poco. Le sopracciglia – rosse anch’esse – erano sottili, come sottili erano il naso e le labbra – che spesso si schiudevano in gradevoli e sinceri sorrisi quando parlava. D chiese se lo potesse disturbare – nessun disturbo. Consegnò a Allegri una cartella. Mentre elencava le attività da priorizzare, Allegri la guardava ma non la ascoltava. Raramente la ascoltava. Conosceva il suo viso a memoria, specie quella piccola venuzza blu sulla pallida tempia sinistra.

                “Ho capito. Non c’è problema.”

               “Grazie.” sorrise lei.

    Pausa pranzo, un intervallo di circa quaranta minuti tra le tredici e le quattordici. Allegri aveva già attraversato le strisce pedonali e, notandola nel riflesso della vetrina, si girò verso la 10Data per guardare D uscire. Appena fuori, lei guardò il cielo, si mise le cuffie e, sospirando, aprì l’ombrello.

    Un grosso Tir viaggiava a tutta velocità sulla strada. Allegri, rapidamente, spostò lo sguardo dal tir a D, che stava attraversando le strisce. Allegri, come in una sorta di premonizione, capì che D, di lì a poco, sarebbe stata investita. Forse avrebbe potuto urlare. Ma cosa? “Attenta”? “Si sposti”? No, sarebbe stato stupido. Anche ammesso che D lo avesse sentito, sarebbe rimasta imbambolata in mezzo alla strada quel mezzo secondo di troppo per capire che c’era un tir pronto a investirla. Quindi scattò, come mosso da una forza sovrumana. Sentì ogni cosa. Qualunque parte del suo corpo. Il piede sinistro che atterrava, la gamba che imprimeva forza sul terreno per correre il più velocemente possibile, il proprio corpo, goffo e pesante, scontrarsi con la forza di gravità e l’attrito dell’aria. Percepiva ogni singola goccia di pioggia che gli colpiva il viso. Sentiva tutto. Vide lo sguardo interrogativo che fece D, notando il collega correre verso di lei a braccia aperte. L’impatto tra i due fu violento e lei, con un caldo gemito, espirò tutta l’aria che aveva in corpo. Le cuffie volarono chissà dove e lei, finalmente, sentì il rumore del tir.

    Atterrarono sull’asfalto di schiena. I passanti, spettatori involontari ma partecipi del salvataggio, cominciarono ad applaudire e a fischiare. Allegri si guardò in giro, sentendosi un po’ a disagio. Aiutò D ad alzarsi e, scortati dai passanti e coperti dai loro ombrelli neri, i due rientrarono alla 10Data.

                “Siamo zuppi” fece lei, constatando l’ovvio.

                “Le…” Allegri si schiarì la voce “… le conviene andare a casa a cambiarsi.”

                “No, non c’è problema… mi faccio portare un cambio da mio marito.”

               “È sposata?”

                “Sì, certo. E lei?”

                “No, sono… ah, scapolo.”

               “…”

                “…”

                “Vada pure a casa. Non può restare zuppo per tutto il giorno. No, si prenda il pomeriggio.”        

                “Ma devo finire”

               “Non si preoccupi, ci penso io…”

                “È sicura?”

                “Davvero. Vada, vada pure a casa.”

    Restarono a guardarsi per qualche secondo, poi Allegri fece un paio di passi all’indietro

                “Allegri?”

                “Sì?”

                “Questa sera… io… io e mio marito… diamo una piccola festa… una cosa per amici. Le andrebbe di venire?”

               “Da lei?”

                “Sì.”

                “Non so se sarebbe appropriato…”

    “È il minimo che possa fare. Le faccio avere l’indirizzo.”

    Recuperato l’ombrello, Allegri uscì dall’ufficio. Si guardò attorno. Prese un bel respiro di quell’aria carica di umido, di terra bagnata delle aiuole, di smog e metallo. Cominciò a camminare verso la metro. A metà strada, cosa strana per lui, cominciò a fischiettare. Magari si sarebbe fatto crescere un bel paio di baffi. Chissà se gli sarebbero stati bene.

    Prese posto sulla metro verde, accanto a una signora sovrappeso e a un ragazzo di colore dall’aria triste. Sorrise a entrambi ed entrambi distolsero lo sguardo. Allora sospirò e chiuse gli occhi. Si sentiva sfinito. Aveva bisogno di dormire e si addormentò.

    Sognò un’altra vita, diversa da quella che aveva e simile a quella che avrebbe potuto avere. Sognò un lavoro diverso, con uno stipendio più alto. Sognò di andare al cinema, a vedere l’ultimo film del suo regista preferito. Sognò di entrare in un pub da solo e di ordinare una birra senza sentirsi a disagio. Sognò di visitare il deserto africano e le foreste umide del Sudamerica. Sognò una casa, una villetta in un quartiere tranquillo. La sognò alle cinque del pomeriggio, orario in cui i suoi figli sarebbero tornati da scuola. Avrebbero indossato magliette sgargianti e non sarebbero stati infelici come era stato lui. Sognò sua moglie. Era D, di qualche anno più vecchia. Sognò un’intera vita passata con lei, la vecchiaia condivisa, i disegni dei bambini appesi al frigo e l’odore del prato in agosto. Sognò i numeri della lotteria, tutti i cavalli vincenti dei prossimi cinquant’anni. Sognò di svegliarsi, ma era solo un sogno e non si svegliò più.

    Redazione Belleville