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“Neve” di Chiara Saibene – Laventicinquesimaora 2018

    “Neve” di Chiara Saibene – Laventicinquesimaora 2018

    Uno dei racconti finalisti dell’ultima edizione de Laventicinquesimaora

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    Per l’ennesima volta volse lo sguardo verso l’esterno. Pigmenti di neve bianca vorticavano nel vuoto, a malapena distinguibili in quel manto densamente nero che era la notte. La praticità, virtù impostale dall’età adulta, la obbligava a giudicare la neve con irritazione, enumerando tutti i disagi che essa provocava: la guida difficile, le strade infangate, il ghiaccio. Segretamente, però, provava il desiderio che la neve continuasse a cadere, una cortina bianca che avrebbe avvolto il mondo e l’avrebbe nascosta in un bozzolo caldo, isolandola da ogni rimprovero. In fondo non era colpa sua se aveva nevicato per tutta la notte, se il vialetto di casa era nascosto sotto un cumulo di blocchi bianchi. Era come quando era bambina, quando sperava che la neve sarebbe stata abbastanza abbondante da permetterle di saltare la scuola. Suo marito era uscito ugualmente, un uomo come lui non si lascia fermare da un po’ di neve, no, voleva andare a bere, l’aveva fatto arrabbiare di nuovo, e così era uscito, nel pieno della notte, proprio quando l’orologio della cucina, quello a cucù che sua madre le aveva regalato a Natale, aveva scoccato la mezzanotte. Ora quello stesso orologio stava per scandire le undici. Del giorno seguente.
    Si rannicchiò sul divano, godendosi con un brivido colpevole la propria indulgenza. La luce ancora non funzionava, e i fiocchi all’esterno erano più grandi, brandelli di ghiaccio e acqua che ogni tanto rigavano il vetro. Erano quasi ventiquattro ore da quando suo marito se n’era andato, e quella giornata, un mosaico sospeso di buio e solitudine, era stata uno strappo, un momento rubato, un furto alla realtà. Ma era destinata a finire, lo sapeva. I lividi sulle braccia sarebbero tornati, insieme alle fitte alle costole, e quella sensazione di intima, fugace felicità si sarebbe spenta come un fiammifero esposto al vento.
    La corrente elettrica ricomparve con un bip sonoro del microonde, per poi svanire di nuovo qualche secondo dopo, ma a lei non importò. Il buio non la disturbava, non in quel momento. Se suo marito fosse stato a casa, allora sì, quel buio sarebbe stato denso di una tensione crescente, che alla fine si sarebbe trasformato in un altro livido sul corpo di lei. Mai sul viso, comunque.
    Guardò ancora al di fuori della finestra, i fiocchi di neve sempre più grandi e candidi. Seguendo il profilo dei mobili con le dita, andò in cucina e frugò in un cassetto fino a che non trovò una vecchia candela. L’accese utilizzando il gas dei fornelli e poi la inserì malamente in un bicchiere. Non avevano portacandele, in casa. Suo marito li giudicava suppellettili inutili.
    Con la fiamma che tremolava a ogni suo passo, si avvicinò alla libreria del salotto. Prese un libro qualsiasi e ritornò sul divano. Amava leggere, ma quella passione l’aveva relegata in un angolino, giù, sotto la gola e dietro al petto, insieme a molte altre cose, alle parole non dette, ai rimpianti e alla vergogna.
    La telefonata arrivò pochi minuti dopo la mezzanotte, in un momento in cui la corrente era ritornata. Suo marito aveva avuto un incidente. La sua macchina aveva slittato sul ghiaccio ed era finita contro un palo della luce. A causa del maltempo e delle strade deserte nessuno se n’era accorto fino a che uno spazzaneve non era passato di lì. Erano dispiaciuti di doverle comunicare quella notizia.
    Lei rispose con un tono estraniato. Una strana sensazione molto simile al sollievo le sbocciò nel petto. Quando depose la cornetta, guardò un’ultima volta fuori dalla finestra: proprio in quel momento sembrava che la tormenta fosse finita.

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