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di massimo.vignati
Quanti anni andai per mare. La vita mi sembrò scandita dallo stillicidio di gocce d’oceano, non più dal respiro. Ero ancora giovane il giorno che fui messo al comando dell’Ápeiron, uno splendido vascello a tre alberi costruito in solida quercia, lungo centotrentacinque metri e centonovantacinque tonnellate di stazza.
Ordinai di far vela verso l’India, poi verso l’Arbia e i deserti etiopici, e persino di seguire la rotta di Zerifo agli antipodi dell’aurora. L’entusiasmo dei primi anni svanì insieme a molti dei miei uomini più fidati. La nostra ricerca solitaria non portò a nulla. Vagavamo in tutto il globo, le provviste scarseggiavano, e non avevamo più contatti con altri umani. La nostra terra cigolava e scricchiolava sbattendo contro il vuoto creato dalle onde che si infrangevano a prua. Una tempesta perenne ci seguiva da lontano e circondava il veliero mantenendolo al centro dell’occhio. Le nubi mi privavano dello sguardo, sbarrando il confine tra il nostro mondo e quello reale.
Ricordo quel giorno, ero di fianco al timoniere e lo fissai senza dir nulla. Aveva gli occhi neri e vecchi, di chi si è arreso all’impossibilità di poter raggiungere una verità, e allora smette di cercarla. Le sue mani si mantenevano salde sul timone, ma io sapevo che era la corrente fredda a condurci, senza che il vento gonfiasse le nostre vele. Cercavo di mostrarmi sicuro, per l’equipaggio; se avessi vacillato loro lo avrebbero avvertito. Raggiungere la destinazione mi paralizzava, ma in quel momento non ebbi più paura. Fui consapevole della mia fine imminente, e allora l’oceano cominciò a incresparsi e agitarsi. L’acqua non veniva più squarciata dallo scafo, vi scivolava sotto, senza attrito, senza contatto, creava una rampa inclinata verso un fuoco. Il colore del mare cambiò e il suo odore di conseguenza. Bolle dense di mercurio si infrangevano mantenendo la loro forma globulare, trascinandosi dietro gli uomini che non credevano alla tenacia delle funi. Le onde nebulizzavano vapori scuri allagando il ponte. Un vento gelido mi lacerava il viso.
Quella era la direzione, gli avvoltoi che volteggiavano sulle nostre teste lo sapevano; io l’avevo capito. Il Sole, affiancato da Saturno, si stagliava poco sopra l’orizzonte e il veliero puntava verso di esso continuando a solcare il mare di metallo liquido. Molti dei marinai si rifugiarono sottocoperta, altri si abbandonarono tra gli artigli dei saprofagi non riuscendo a sostenere la vista dei due corpi luminosi.
La sentinella dall’albero maestro non disse nulla, ma tutti la videro: l’isola sconosciuta era grande quanto l’Ápeiron.
Lo scafo sbatteva e si graffiava serpeggiando tra il fondale e gli scogli che emergevano dagli abissi, contro i quali l’acqua creava aerosol di cinabro color sangue. La prua affondò nella dura sabbia fino ad arrestarsi, crepitando mentre scavava il solco. L’impatto fece sobbalzare la nave, cadere molti uomini, ma io fui saldo e mantenni l’equilibrio. Fui il primo a scendere calandomi con una fune. Le suole dei miei stivali di pelle conciata si irrigidirono al contatto con la superficie di zolfo caldo.
Pochi ebbero l’audacia di essere curiosi.
Imboccammo l’unico sentiero che conduceva all’interno, verso la montagna vulcanica al centro. Mi guardai intorno: l’isola era un deserto giallo, disseminato di fiori con grappoli purpurei dall’indole velenosa, ed era irrigata da fiumi neri che dalla costa si immergevano nel terreno e ne fuoriuscivano attraverso geyser sulfurei dai pennacchi rossi. Continuando a camminare mi voltai e osservai gli uomini proteggersi la vista, coprirsi le orecchie, calciare e sputare per terra.
Due serpenti ci oltrepassarono avviluppandoci in un vortice ermetico. Alcuni uomini spaventati tentarono di fuggire e vennero inghiottiti. Io allora aumentai il passo, mi misi a correre senza riuscire a respirare, lo sguardo velato dai fumi. Giunsi al centro dell’isola ai piedi della montagna dalla forma di clessidra, dal cuore bruciante di fuoco eterno, la cui sommità si fondeva con gli astri. Una fenice volava roteando intorno alla strozzatura di pietra.
Capii di essere rimasto solo.
Un uomo uscì dalla brace, indossava una tonaca ignea e tre corone in testa, una sopra l’altra. Rimasi in silenzio. Si avvicinò con il volto lucido come uno specchio. Sul palmo della mano esibiva una pepita d’oro.
<<Vuoi possedere questo oro, per ottenere il semplice e tacito consenso dei miseri mortali?>>
Le parole trascendevano il movimento delle sue labbra. Mi sembrò di parlare con me stesso.
<<Il valore dell’oro non dipende dal prestigio di chi lo porta. In molti, accecati dalla sua lucentezza, si sono persi nell’ombra. In molti hanno creduto di poterlo mangiare, ma l’oro non viene digerito, non si trasmuta in carne e in sangue. L’oro è l’apice incandescente di tutta la materia minerale e vivente, è la misura di tutte le cose.>>
Persi la vista, il senso del gusto, la percezione dello spazio.
<<L’oro mantiene il suo colore, il suo peso, non ha sapore e non emana alcun odore. Il suo valore risiede solo in coloro che ne distribuiscono la sostanzialità. Non lo si possiede. Solo accettando la sua natura transitoria ci si unisce a lui.>>
Bruciai e vaporizzai, divenni polvere fermentativa, sperma minerale, mischiandomi con acqua e terra trasmutai in oro.
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