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«Laventicinquesimaora.» 2018 – Primo classificato

    «Laventicinquesimaora.» 2018 – Primo classificato

    Pescatori notturni

    di Luca Leone

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    Questa notte, come tutte le notti, mio marito esce di casa alle 23 in punto. Tira su tutte le cerniere del gilet sul petto molle, si calca sugli occhi piccoli il cappello da pe-sca, mi dà un bacio e sparisce oltre la porta. Rimango sola, a letto, ad attendere il tin-tinnio che annuncia il suo ritorno.
    Il sabato inizia il suo giro dai parcheggi dello stadio: qui aspetta che gli ultimi spettatori ritrovino la strada per l’auto, si assicura che i fanali dei fast-food siano spenti e si mette all’opera. Quando una delle sue tasche è completamente colma, sale per un pelo sull’ultimo treno, più vuoto che pieno, e lo accompagna in tutto il suo percorso fino al capolinea. Quindi, con l’altra tasca rigonfia e tintinnante, si dirige in centro. Le piazze che percorre sono svuotate di vita, fatta eccezione per qualche cane randagio. Non c’è angolo che i suoi occhi non esplorino: perlustra gli spiazzi esterni dei bar e le scalinate delle chiese. Non si lascia sfuggire nessuno tra gli incavi tra un sampietrino e l’altro; è espertissimo nello scandagliare il fondo delle conche asciutte delle fontane. Abbandona il centro nell’esatto momento in cui sente la parte interna dei suoi boxer pressargli sufficientemente sull’inguine. Raggiunge come ultima tap-pa la periferia, alla volta dei più frequentati locali notturni. Una volta lì, controlla con perizia i marciapiedi di fronte agli ingressi, scrutando persino sotto i tappeti rossi, dove sono ancora impresse le impronte della gente in fila per entrare nei locali. A questo punto, sentendo che anche le tasche del gilet hanno raggiunto il limite di ca-pienza massimo, riprende la strada di casa. Raccoglie quanto basta perché possiamo campare dignitosamente, io e lui, per tutto il giorno successivo.
    A quest’ora dovrei sentire nitidamente il suono delle monetine che ha raccolto un po’ dai cigli delle strade, un po’ dagli sportelletti delle macchinette automatiche, un po’ dai pavimenti appiccicosi dei treni… ma non lo sento. Mio marito esce sempre alla stessa ora, alle 23 in punto, e rincasa con eguale puntualità, esattamente alle 5 del mattino. Temo che gli sia successo qualcosa di terribile: la schiena gli si sta con-sumando a furia di stare piegato al freddo, e quando dorme sento il suo cuore che si prende lunghissime pause, tra un battito e l’altro…
    Lo attendo fino a mezzogiorno; a mezzogiorno e trenta sono già fuori dallo sta-dio. Salgo sulla metro e in un’ora sono in centro: mi faccio di corsa tutte le piazze, e poi via verso i locali di periferia. Sento che mio marito è stato in ognuno di questi posti, ma non capisco per quale motivo, alla fine del lavoro, non sia tornato sano e salvo da dove è partito, a due millimetri dalla mia guancia.
    Quando sono di nuovo nella nostra stanza, invece, me lo ritrovo ficcato nel letto. Ha la faccia gonfia, tipica di chi ha pianto tanto. Mi dice, in un sussurro, che l’ultima moneta raccolta, gli era parsa rarissima e pesante come l’oro. Sicuro che valesse molto, aveva impiegato tutte le altre che aveva raccolto, per farla valutare dal massi-mo esperto in materia. Questi, in quattro e quattro otto, aveva decretato la sua falsità. Mentre mi racconta questo, disperato, già si veste per la prossima pesca notturna: si sono fatte le 23. Io lo fermo toccandogli il braccio. Lo accompagno sotto le coperte. Gli dico che per stanotte preferisco che stia steso, invece che piegato. Quando si ad-dormenta, mi vesto con i suoi stessi abiti. Mi calo il cappello sugli occhi e tiro tutte le cerniere del gilet. Alle 24, sono già nel parcheggio dello stadio.

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