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La membrana
>> racconto

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    La membrana

    di anna siccardi

    L’abito scuro mi slancia, ma la cravatta è un po’ troppo nera e le scarpe sono davvero brutte, con la suola spessa e le cuciture grosse. Le scarpe a bara, le chiama mia moglie. Mia moglie ha il dono dell’ironia.

    Il mio nuovo impiego non le va giù e non perde occasione per ribadirlo.

    Si vergogna con le amiche, dice. Forse non le è chiarissimo che l’unico impiego alternativo, per me, è la disoccupazione. Non è stato nemmeno facile, non prendono certo il primo che passa. Devi essere di bella presenza, avere bei modi, ispirare fiducia. Io non lo sapevo, ma sono quel tipo di uomo.

    Mi trovo benone, alla GEA. Ho una divisa elegante e incontro persone eleganti, perché è una delle imprese più esclusive e opera soprattutto in centro.

    Se la morte è uguale per tutti, le onoranze no.

    Nelle case dei ricchi ti accolgono famiglie composte, generose, disposte a spendere qualsiasi cifra per il loro morto. Pagano in anticipo e hanno una segretaria che gestisce i necrologi. Ai loro funerali c’è sempre molta gente e molti fiori. Nonostante tutto questo, hanno bisogno di te. Tu arrivi ed entri in queste case ovattate, dove i gesti sono più lenti e le voci più sommesse che fuori.

    Io la chiamo la membrana. E’ una consistenza dell’aria, un peso specifico che preme su tutto.

    Di solito mi offrono un caffè. Io sono molto gentile e delicato.

    Ieri ho visitato tre fratelli sui trenta, quarant’anni. Io le chiamo visite.

    La madre è morta due giorni fa – non chiedo mai di cosa – ed è nella camera ardente dell’ospedale. La casa è la sua, della madre, come le due domestiche che si aggirano in silenzio.

    Sono due fratelli e una sorella. Distinti, lei perfino bella. E’ vestita di nero, bionda, molto triste. Ho scoperto che le donne molto tristi possono essere sorprendentemente attraenti.

    Ci sediamo al lungo tavolo della sala da pranzo: tre paia di occhi azzurri mi guardano nel modo tipico degli esordienti, quelli al primo funerale, mi guardano come se potessi aiutarli davvero. E io li aiuto.

    Dopo il caffè inizio con gli orari disponibili per l’omelia, quasi tutti optano per la fascia della tarda mattinata. Poi sfogliamo il catalogo delle bare. Ha scelto la sorella, un modello delux senza cafonate. Copertura floreale completa, con rose bianche e gialle. Autocarro mercedes sec 4000 canna di fucile. Un classico.

    Tutto fila liscio, fino alla domanda che scuote le fondamenta: sepoltura o cremazione?

    I fratelli si guardano incerti. La sorella, a sorpesa, parte in quarta con la cremazione.

    Dice che ne avevano parlato spesso, lei e sua madre.

    La membrana è il luogo dei discorsi interrotti.

    Per me non fa differenza, sinceramente. Però quelli che scelgono la cremazione mi piacciono di più. L’idea di tutte le bare che abitano la terra mi da fastidio. Cioè, l’immagine di questa immensa cintura stipata di morti, tra i due e i quattro metri sotto il suolo, mi spaventa anche un po’.

    Tipo tettonica a zolle, ma di bare. Un grosso terremoto potrebbe rivoltare tutto e ributtarle fuori. Ci penso spesso. Con la cremazione, invece, è cenere alla cenere. Più igienico, più ecologico.

    Ma la questione è delicata. Ogni volta che mi è toccato di consegnare ai parenti le urne con le ceneri ho avuto la stessa impressione, l’impressione che per un attimo mi guardassero dietro le spalle, in cerca di qualcuno, come se mi portassi addosso i loro morti. Il fatto che non ci sia più nessun corpo da nessuna parte li spiazza, sempre. Il corpo ha questa potenza sinistra. Soprattutto il corpo morto.

    Era Antigone, quella che ha piantato giù un quarantotto per il corpo del fratello? Mi pare di sì. Io ho fatto il classico. Ed è uno dei motivi per cui, secondo mia moglie, non dovrei fare il becchino.

    Che parola stupida.

    A volte provo a parlarle della membrana e di tutto questo mondo nuovo, nuovo per me. Lei mi guarda come se fossi disturbato. Lei lavora nella moda e la morte le fa senso, dice, come se non la riguardasse.

    Comunque, il problema con i tre fratelli è stato che proprio ieri mattina in azienda era arrivata la notizia di un blocco al forno di Milano. Si è rotto il terzo impianto crematorio e quindi c’era una gran congestione di morti da smaltire. La situazione peggiorava velocemente e avevano deciso di deviare i nuovi arrivi al forno della Val Cuvia.

    Spiego la faccenda con la faccia di chi ha il controllo della situazione.

    I tre fratelli mi guardano come se fossi appena sbarcato dalla luna. Loro non lo sanno, ma sembrano tutti un po’ alienati. La membrana è un regime di follia temporanea.

    Semplifico, e dico loro che possono scegliere: mandare la mamma in Val Cuvia oppure aspettare quattro o cinque giorni per avere le ceneri. All’unanimità, scelgono di mandarla in Val Cuvia.

    C’è una strana fretta nella membrana, e molta unanimità.

    Io penso al viaggio solitario di questa signora con un autista sconosciuto e un po’ mi dispiace, ma non dico niente. Non è mica mia madre.

    Esaurite le formalità, incasso l’assegno e li ringrazio. Loro ringraziano me.

    La sorella mi accompagna alla porta in silenzio, assorta. E’ proprio bella. Chissà se suo marito la capisce o se è come mia moglie, che non capisce niente di niente.

    Non dice una parola per tutto il tragitto. Secondo me sta rimuginando sulla faccenda delle bare congestionate. Io seguo la scia bionda dei suoi capelli e mi preparo al congedo.

    Poi, aprendo la porta, mi rivolge un sorriso un po’ storto e mi dice:

    “La vedrò al funerale? Sa, per controllare che tutto vada bene.”

    “Ci conti. Andrà tutto benissimo, non si preoccupi.”

    Le stringo la mano e chiamo l’ascensore.

    Non le dico che di quella mattina si ricorderà poco o nulla e che magari, nella folla del sagrato, nemmeno mi riconoscerà. A volte succede. Non le dico che lei crede di essere qui, ma che invece è laggiù, nella membrana. E non posso nemmeno dirle che quando ne sarà uscita le mancherà un po’, la membrana. Questa strana scatola morbida. La seconda placenta che ci partorisce di nuovo, un po’ diversi. Non posso dirlo ma è così, io lo so. E’ il mio lavoro.

    L’ascensore non arriva, infilo le scale.

    Ho un’altra visita da fare, un’altra membrana da varcare, con le mie brutte scarpe.

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