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Intervista a
Luciano Funetta

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    Intervista a

    Luciano Funetta

    di Francesco Spiedo

     

    Parole in libertà su / attorno / dentro / fuori / accanto / sotto la scrittura, lo scrivere e l’essere scrittori con autori rappresentativi del mondo della letteratura italiana oggi. Proveremo a smentire una serie di luoghi comuni: essere scrittore significa vivere di parole, bisogna pubblicare solo con le grandi case editrici, se non mi pubblicano non mi capiscono, se non mi pubblicano meglio smettere, per scrivere basta sedersi davanti a un pc… e potremmo continuare. Iniziamo con Luciano Funetta, nato nel 1986 a Gioia del Colle, ma romano d’adozione. A Roma è entrato a far parte di TerraNullius e della direzione artistica del Flep! – Festival delle letterature popolari. Dalle rovine, il suo primo romanzo, è uscito a novembre per Tunué.

    Cosa facevi prima di pubblicare? E cosa fai adesso?

    Prima di pubblicare Dalle rovine scrivevo, soprattutto per TerraNullius, la rivista legata all’omonimo gruppo di artisti di cui sono entrato a far parte quando mi sono trasferito a Roma. Di tanto in tanto qualcun altro mi chiedeva di scrivere. Erano riviste disgraziate e animate dal coraggio e dalla volontà di fare qualcosa di bello. Scrivevo anche per loro. Per un periodo ho lavorato in un albergo vicino a piazza Barberini, in cui per qualche tempo pare avesse vissuto Ibsen. Poi, dopo essermi licenziato, ho tirato avanti con le lezioni private. In seguito ho trovato lavoro come libraio, che è il mestiere dei miei genitori. Adesso continuo a fare il libraio, a scrivere per TerraNullius e per me stesso. Cerco di dimenticare Dalle rovine, ma la natura dei fantasmi è ostinata e persecutoria.

    Cos’è per te la scrittura e cosa significa essere scrittori?

    Essere scrittori non significa niente. Questa è la ragione per cui credo si debba desiderare di esserlo. Quella dello scrittore non è una posizione all’interno di un sistema di interessi o in una gerarchia. Conosco scrittori fantastici che non sono nessuno, nel mondo editoriale e neanche nel mondo dei vivi. La questione è molto più privata e spaventosa di quanto sembri. Scrivere, al contrario, è lo strumento, l’atto, per dare vita a un’anomalia. Questo naturalmente riguarda in particolar modo la scrittura letteraria. Per anomalia intendo una cosa che vaga per le strade mentre tutti dormono. Allo stesso tempo succede che un certo numero di anomalie, nel loro vagare, si incontrino e si riconoscano. Questo a volte dà vita a dialoghi spettrali; altre volte il riconoscimento si manifesta solo con un timido cenno del capo. Dopodiché le anomalie se ne vanno per il loro cammino. Quando è disperata – al massimo del delirio – l’anomalia si mette a cercare un editore. Va a svegliarlo nel cuore della notte. L’editore, ancora mezzo addormentato, in canotta e mutande, accoglie l’anomalia nel suo soggiorno. All’alba l’anomalia lascia l’appartamento, con una strana sensazione nel cuore, e l’editore si rimette a dormire. Tutto questo per dire una cosa molto semplice: la scrittura letteraria è una rivolta nel regno del linguaggio.

    Il tuo incontro con la scrittura? Quando e come è spuntata l’idea di un romanzo?

    Non ricordo quando ho iniziato a scrivere. Da bambino ogni tanto iniziavo un diario, ma mi mancava la costanza, così ho sempre scritto diari molto brevi, tre o quattro giorni al massimo. Se li ritrovassi adesso credo che mi metterebbero i brividi, tutti quei bambini fantasma che iniziano ad annotare le loro giornate e all’improvviso si interrompono. Il primo romanzo l’ho scritto a diciotto anni, per ragioni amorose e ormonali: una terrificante marmellata sentimentale. A venti o ventuno anni ne ho scritto un altro, ancora peggiore del primo. Il terzo, tra quelli compiuti, era più che altro una lettera d’amore piena di alcol, di libri, di ispettori di polizia con la faccia di Burroughs, di ragazze sfuggenti che guardavano film di Bunuel, senza dimenticare i pellerossa letterati che a un certo punto facevano la loro comparsa, e un numero piuttosto alto di omicidi. A quel romanzetto, che giustamente non interessava a nessuno, sono ancora molto affezionato. Il successivo è stato Dalle rovine (o Giungla di uomini, come si è chiamato per molto tempo).

    I tuoi amici e la tua famiglia erano a conoscenza del tuo creare anomalie? Come hanno reagito quando il tuo romanzo è stato candidato allo Strega? E tu, come l’hai presa?

    Sì, lo erano, chi più chi meno. Non è una cosa facilissima da nascondere. Quando Dalle rovine è stato annunciato tra i candidati al Premio i commenti sono stati per la maggior parte benevoli. I migliori, però, non posso ripeterli. Io sapevo che Tunué, dopo l’esperienza dell’anno precedente con Barison, aveva intenzione di provare a candidare il romanzo allo Strega. Non avevo nulla in contrario. Ovvio che non avremmo potuto vincere. Siamo andati a caccia di qualcosa di insperato, ovvero la dozzina, che è arrivata. A quel punto, visto che mi aspettavano alcuni mesi di eventi legati al premio, ho pensato che avevo bisogno di una camicia e di un paio di pantaloni decenti. Inoltre gli eventi di cui sopra mi avrebbero dato la possibilità di incontrare Antonio Moresco, un autore, per la mia formazione letteraria, decisivo. Ne ero contento.

    Ma com’è che Dalle rovine, da file nascosto nei meandri del tuo hard disk, è diventato un romanzo?

    Lo era già, spero. Se poi è diventato un libro pubblicato da una casa editrice rispettabile e non truffaldina, il merito è sicuramente di Leonardo Luccone e dell’agenzia Oblique, che mi leggono da quando avevo ventitré anni. A un certo punto, quando si pensava che la pubblicazione fosse ormai improbabile, visto che molti editori avevano trovato il manoscritto inadatto, se ne sono fatti avanti alcuni, in extremis. Tra loro c’era Tunué, nella persona di Vanni Santoni. Il libro è uscito sette o otto mesi dopo.

    Hai citato Oblique. Com’è che ti sei affidato a un’agenzia?

    A ventidue anni non sapevo niente. Mandavo manoscritti a destra e a sinistra. Un giorno una persona fece leggere alcune mie pagine a questo signore di Roma che non avevo mai sentito nominare. Questo signore, che era Leonardo Luccone, mi scrisse una mail e mi invitò a incontrarlo. Da allora il mio rapporto con Oblique non si è mai interrotto. È un accordo discreto, con poche regole che si sono imposte negli anni. A volte sembra il tipo di relazione che c’è tra un tizio che chiede a un amico di leggere le sue pagine e poi ne ascolta le impressioni e i consigli. Solo che quell’amico ha centinaia di occhi che gli permettono di accedere a dettagli invisibili.

    Cosa ti ha spinto ad accettare la proposta di Tunuè, quella che era all’epoca una piccola casa editrice specializzata quasi esclusivamente in graphic novel e fumetti?

    La collana Romanzi aveva già proposto scritture interessanti. In particolare penso a Dettato di Sergio Peter, uno dei migliori libri italiani degli ultimi anni. C’era una portentosa sensazione di coraggio e di disponibilità che aleggiava intorno al progetto, unita alla determinazione di portare quei libri strani, spesso imperfetti, all’attenzione di chiunque fosse in cerca di qualcosa di nuovo. Questo insieme di concretezza e di azzardo credo sia stato il motivo per cui ho deciso che il romanzo sarebbe uscito per Tunué.

    Il tuo romanzo porta le tracce di quello che, per semplificare, spesso viene definito realismo magico. Lo confermano alcune citazioni e riferimenti, ma con delle tonalità più cupe e grigie. Tu come definiresti la tua voce?

    Non amo quasi nulla del cosiddetto realismo magico sudamericano. In generale la trovo una corrente piuttosto subdola, la cui etichetta è stata applicata anche a scrittori che, se avessero potuto, ne avrebbero riso. Del Sudamerica letterario preferisco altre strade. Un certo realismo argentino, per esempio, quello che per intenderci inizia da Roberto Arlt e arriva a Carlos Busqued. La connotazione “magica” della letteratura latinoamericana è un una semplificazione da cartolina. C’è invece una vena più interessante, meno conosciuta perché meno vendibile agli affamati di esotismo da quattro soldi, una vena nera, una letteratura dell’ossessione la cui sorgente è Gombrowicz. Detto questo, l’unica cosa che mi sento di poter sperare è che la mia voce sia davvero una voce, o l’allucinazione di una voce.

    Per salutarci. Una cosa che un aspirante scrittore dovrebbe assolutamente fare e una che non dovrebbe assolutamente fare.

    Con sia ossessionato dalla pubblicazione, non sia ossessionato dall’editoria, non cerchi di farsi amicizie interessate tra gli addetti ai lavori, parli di tanto in tanto con i morti e pensi a leggere e a scrivere. Come dice un personaggio di Saer: “Non scrivere cattiva letteratura e tutto andrà bene”.

    Capito, ragazzi?

     

    Intervista a Luciano Funetta

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