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Il Tibet che rideva forte
>> racconto

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    Laventicinquesimaora

    Terzo classificato >> “Laventicinquesimaora.” 2017

     

    Il Tibet che rideva forte

    di Lucia Perrucci

     

    Il Tibet non l’avevamo mai visto scendere dai marciapiedi, attraversare la strada, svoltare l’angolo, mangiare o bere. Quando ci passavamo vicini, in quel vicolo stretto sulla via della stazione, dava sempre le spalle alla ringhiera dell’ufficio postale, seduto come un monaco in preghiera e con lo sguardo da orientale, striminzito e sottile, stretto da due borse intorno agli occhi, gonfie e sporgenti, come quelle che i viandanti portano appese lungo i fianchi, traboccanti di fughe e di ritorni. Il Tibet non diceva una parola, non faceva rumore e non aveva l’odore né della solitudine, né della miseria. Forse profumava di tristezza, o di pace, oppure erano i gerani piantati oltre la ringhiera.

    Una sola cosa faceva, ed era pure parecchio strana. Rideva forte, e nessuno di noi si spiegava il perché. La sua era una risata improvvisa, violenta, sussultoria, difficile da decifrare, impossibile da prevedere. All’inizio credevamo che ridesse un po’ per caso, come se si prendesse beffa di noi, solleticato da qualche pensiero, da qualche gesto, da qualche cazzata nostra, o situazione. Ma se glielo chiedevi si ammutoliva, e se cercavi di fare lo scemo tornava statuario e serio, atarassico e immune a qualunque forma di emozione. Così ipotizzammo la teoria che la sua fosse un’impulsiva risata a innesco. E che l’innesco fosse un vocabolo, una parola.

     

    «Abaco, abate, abatino, abat-jour, abbacchiamento, abbacchiare, abbacchiato»,

    «Non finiremo mai».

    «Abbacchiatura, abbacchio, abbacinare»,

    «Non si muove nemmeno».

    «Abbagliamento, abbagliante»,

    «Devi dirle più lentamente».

    «Abbagliare, abbaglio, abbaiare, abbaino, abbaio»,

    «Più veloce, cazzo. Quante parole c’ha sto coso?»

     

    Il Tibet non rise per niente, neanche dopo la milleduecentocinquesima parola, pronunciata dopo tre incontri di fila. Ancora mi ricordo di noi quattro pellegrini col dizionario in mano, la curiosità famelica spalmata sulle fronti e la sigaretta tra le labbra di Aurora, che fingeva di fumare per non pronunciare l’unico termine in grado di far sbellicare quel vecchio pazzo vicino alla stazione.

    Ma lei non lo sapeva, e io lo intuii dopo quella sera, quando l’aspettai per il treno. Eravamo solo io e lei. Me lo disse in fretta, con circa una trentina di parole, neanche tante considerati gli articoli, gli avverbi, i pronomi e le preposizioni. Tra quelle ce ne fu una, emessa una volta sola, che arrivò fino alle orecchie del Tibet e lo fece scompisciare. Era pure una parola del cazzo, a cui non potevamo arrivarci neanche con quel dizionario grosso che il padre di Giulio ci aveva prestato controvoglia. Poi salì sul treno, accennando un saluto che in realtà era un addio, e io restai con il silenzio bloccato in gola. Sperai che la risata del Tibet fosse almeno contagiosa, così mi avvicinai, ma non lo era.

    Il Tibet rideva forte, piegato in due, come due placche che sfiorandosi sobbalzano in scosse sussultorie, sismi addominali, il cui ipocentro era un buco profondo nel petto.

    Non dissi mai agli altri quella parola, tanto non sarebbe stata la stessa per nessuno. Forse lui rideva del non detto, della parola giusta inconfessabile, o sbagliata perché fa male, come la verità. Rideva per spaventare la paura. Rideva e vibrava, e a ogni tremito una crepa si diramava in faglie profonde intorno agli occhi che poi stringeva forte strizzando lacrime, e non sapevo più se tutto quel ridere fosse in realtà un pianto occultato, magari il mio, come non capivo se profumasse di pace o di tristezza. Ma forse era l’odore dei gerani oltre la ringhiera.

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