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Il racconto vincitore della borsa di studio “Scrivere di notte”

    Papà va in montagna” di Mario Zangrando è il racconto vincitore della borsa di studio per la nuova edizione del corso Scrivere di notte, in programma da ottobre.
    Come un origami, questo breve racconto condensa e dispiega in poche righe un microcosmo familiare e le sue dinamiche. Affetto e distanza, differenze e consonanze, perdita ed elaborazione del lutto: sono le coordinate emotive di un testo asciutto, lontano da compiacimenti formali e sentimentalismi. Capace di tratteggiare i personaggi attraverso pochi dettagli: i gesti (il sorriso ironico della madre); l’aspetto fisico e gli oggetti (l’abbronzatura montanara del padre, la lattina di birra, il panino al formaggio); i dialoghi intesi sia nella loro dimensione rivelatrice («E poi mi sembra di essere più vicino a lei») che in funzione di contrappunto ironico («Pensi di farcela?» «Se ce la fai tu…» «Ad alzarti, intendo»). 


    ***

    Papà va in montagna

    Molti venerdì, dopo cena, lo vedevo curvo a studiare il percorso per il giorno dopo su di una carta, grande come una tovaglia. Poi iniziava a preparare lo zaino. Nel fondo la mantella, calzini e maglietta di ricambio, in una tasca la carta ben ripiegata, borraccia con acqua, una lattina di birra da bere in cima. Mamma gli preparava due panini: col formaggio e col salame. Li avvolgeva nella stagnola e li metteva in un contenitore di plastica, ci aggiungeva due o tre strappi di carta assorbente, per pulirsi.
    La mattina dopo papà caricava lo zaino in auto. A volte andava a prendere un compagno di spedizione, più spesso s’avviava da solo.
    Tornava nel pomeriggio o in serata, stanco e sorridente. Disfaceva lo zaino, riponeva la carta, tirava fuori il contenitore con dentro un panino avanzato, di solito quello col formaggio, gettava la lattina vuota e la stagnola del panino mangiato, andava a lavarsi.
    A cena sfoggiava l’abbronzatura da muratore ottenuta dall’escursione: braccia e viso arrossati, pelle ancora chiara appena sotto la manica. A tavola, assieme al pane normale, c’era anche il panino col formaggio. «Mangialo tu» mi diceva «è più buono dopo una gita in montagna». Mamma sorrideva, ironica.
    Lei tollerava le sue gite solitarie. «Piuttosto che accompagnarlo…» mentre lui d’estate ci portava al mare. Traslocavamo casa in un appartamento vicino al lido e ci passavamo tre settimane. Brevissime per mamma che amava la sabbia, il sole, le giornate pigre. Gioiosamente eterne per me che ero bambino e avevo una percezione del tempo diversa. Eterne anche per papà ma in un altro senso: la gente, le zanzare, la linea piatta dell’orizzonte, erano l’antitesi perfetta delle sue escursioni.
    Stava sempre sotto all’ombrellone, seduto su una sdraio, un quotidiano aperto, gli occhiali da sole. Quando faceva il bagno era un evento: sfilava la polo e si avvicinava al mare, gambe torace e schiena candidi, collo e viso abbronzati, le braccia scure a metà. Mamma lo osservava approcciare i primi centimetri d’acqua con un sopracciglio alzato e appena le prime increspature gli sfioravano le parti basse facendolo sobbalzare, sorrideva ironica.
    Anni dopo io ero un adolescente con problemi da adolescente, papà un genitore di adolescente problematico, mamma continuava a sorridere, ironica, dalle foto. L’unica senza problemi era rimasta lei.
    La grande carta stesa sul tavolo era un po’ ingiallita e lungo le pieghe aveva iniziato a strapparsi. Papà, chino sotto la lampada, ogni tanto si aggiustava gli occhiali con l’indice, poi tornava a scrutarla: «Vieni con me domani?»
    Fu strano. Inatteso e prevedibile, come tutto ciò che prima o poi deve accadere e poi succede: «Dove?»
    Fece segno d’avvicinarmi. «Lasciamo l’auto qua. Saliamo da questa parte. C’è bosco all’inizio, usciamo qui, è esposto ma c’è la ferrata» smisi presto di ascoltarlo, spostai lo sguardo dal dito sulla carta al dorso della mano, le vene in rilievo, le macchie dell’età.
    «Pensi di farcela?»
    «Se ce la fai tu…»
    «Ad alzarti, intendo».
    Sabato mattina. Tra me e il signore con le tempie bianche che cammina davanti ballano quasi quarant’anni. Gli alberi si diradano, ormai siamo fuori dal bosco, l’ombra svanisce, il sole mi investe. Mi fermo a rifiatare con la scusa di togliere la giacca. Papà si volta, «Stanco?» Appallottolo la giacca, la schiaccio nello zaino di scuola. «Stavo per chiederti la stessa cosa». Si ferma, beve un sorso d’acqua. «Ora viene il difficile» si toglie la giacca, la ripiega con cura, la fa sparire nello zaino.
    Se ce la fa lui penso, mentre inizio ad avanzare, un passo alla volta, la montagna a sinistra, il vuoto a destra. Ci siamo agganciati con un moschettone al cordone d’acciaio che corre lungo il costone. Papà cammina avanti, provo a imitare il modo in cui appoggia i piedi, il suo adattarsi alla diagonale della parete. Sembrava un tratto breve, «Brevissimo» ma la mia percezione del tempo ora è diversa. Alcuni minuti eterni e siamo dall’altra parte.
    Saliamo ancora lungo una via strettissima, scolpita tra le rocce da non so chi in non so quanti secoli. «Pensa, ci facevano passare i muli». Anche io mi sento un mulo, con questo zaino sulle spalle, la faccia cotta, le tempie che pulsano. Che senso ha? Cosa ci trova?
    Arriviamo in cima. Sono annientato, ho il fiatone. Papà s’asciuga la fronte con un fazzoletto ed è già tornato nuovo. Si siede accanto a me che mi sono accasciato su una roccia. Guardiamo giù, è magnifico. «Le strade, le case, i campi, tutto è così piccolo quassù. Anche i problemi, i dispiaceri, visti da qui, non ti sembrano insignificanti?» Tira fuori la birra, se la rigira tra le mani. «E poi mi sembra di essere più vicino a lei».
    Non riesco a parlare, non è la stanchezza ma il nodo che mi si è aggrovigliato in gola.
    «Un sorso?»
    Faccio cenno di sì. Papà tira la spoletta della lattina, la birra sballottata per 800 metri di dislivello gli schizza in faccia. Io scoppio a ridere poi gli allungo due strappi di carta assorbente. Da qualche parte mamma sorride, ironica.

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