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I commenti di Giacomo Raccis ai racconti di TYPEE/2

    Dal 14 maggio al 4 giugno Giacomo Raccis, “Il critico che legge”, commenta i racconti di TYPEE in quattro brevi pillole video, esaminando nei dettagli struttura, stile e tenuta narrativa, suggerendo parallelismi e offrendo consigli.

    Il capitolo precedente de “Il critico che legge” è qui.

    Capitolo 2

    > Il Dottorlorusso, tutto attaccato, di Elenì

    Il mio papà parla il pugliese e l’italiano.
    Poi anche il francese e l’inglese, ma queste in un modo tutto suo.
    C’è il francese. Quello di “Se né can debu, continon le combà”.
    Me la cantava sempre da piccola. Ho finito per impararla anch’io. “So il francese”, mi vantavo con le amiche alle elementari. “È la mia canzone preferita”, dicevo, il senso però non sapevo nemmeno quale fosse.
    Quello l’ho scoperto a 12 anni, a Cesenatico. Ho fatto amicizia con una bimba poco più piccola, francese, “Facciamole vedere che parlo come lei”, penso.
    La faccia del suo, di papà, me la ricordo ancora.
    “Come fai a sapere questa canzone?” mi chiede.
    “Il mio papà la canta sempre” dico.
    Quel giorno ho capito quella canzone era lo slogan del ’68 francese.
    La canzone di papà, la stessa che cantava in manifestazione.
    Lui, studente di Sociologia a Trento, la città che negli anni ‘70 era il centro del movimento studentesco italiano.
    Lui che si laureava a pieni voti nel ‘75, lavorando, con già un figlio, pochi giorni dopo la morte della nonna Teresa, che dispiacere per lui, l’ultimo dei Lorusso, emigrati tutti insieme dalla Puglia nel ‘60.
    “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”.
    Poi c’era l’inglese. Quello di “le canova lonli pipol”.
    Quella che il mio papà cantava con me il sabato mattina, quando la mamma era al lavoro e io potevo averlo tutto per me.
    Lui cantava e io dietro a lui “ahhh, le canova lonli pipol”.
    Ma arrivano le scuole medie e le prime lezioni di inglese. “Lorusso ma cosa canti?”. “La canzone del mio papà”.
    Quella era Eleanor Rigby, la canzone dei Beatles nel ‘66. La stessa che il mio papà ballava con la mamma la sera che si sono conosciuti, il 31 dicembre del ‘69. Lui era lì con un’altra, ma poi “Ho visto la mamma e allora non c’è stata storia più per nessuna.”
    “Ah, look at all the lonely people”
    Poi c’erano il pugliese e l’italiano
    Il pugliese era la lingua della sera. Quello dei proverbi. Come “Chiacchiere e tabacchiere ‘e legno, o’ Banc’e Npule non s’empegnano”. La lingua dei Lorusso. Quella dei vicoli di Andria che papà aveva lasciato a 9 anni e non si sa come conosceva ancora a occhi chiusi.
    L’italiano invece era la lingua del giorno.
    Quello senza inflessioni. Quello rigoroso delle riunioni che iniziavano alle sette del mattino, delle telefonate dalla macchina anche quando mi accompagnava a scuola, con il Corriere della Sera già sulle gambe. “Pronto Dottore, mi dica”.
    “Che esista un coprifuoco per le lingue”, pensavo io? E invece no.
    Le lingue si davano il cambio perché così succedeva anche alle vite del mio papà.
    La sera era tutto della sua famiglia, ma di giorno era il Dottorlorusso, pronunciato così, tutto attaccato. Un dirigente temutissimo di una azienda italiana di costruzioni.
    Dottore, però, il mio papà non lo è mai stato, o almeno non nel senso di laureato in medicina. Apparteneva però alla generazione successiva a quella dell’Avvocato Agnelli, quella in cui la carica scolastica diventava tutt’uno con il nome e si tramandava anche ai figli, ai nipoti. Io, per esempio, non ero Elena, ma la figliadeldottorlorusso, e guai a pronunciarlo staccato, perché il pathos faceva coppia anche con la mancanza di respiro tra le parole.
    E il coprifuoco delle lingue, ecco quello l’ha imparato a scuola.
    Perché nel ‘60, a Milano, il complimento più bello per un bambino meridionale era “sai che non sembri mica del sud?”. E allora lì impari a nasconderti, per forza, a tenere i ricordi, e la loro lingua, per la sera. Per la famiglia.
    Francese, inglese, pugliese italiano, il mio papà queste lingue le parla tutte, e una meglio dell’altra.


    > La foto, di SteCo15

    Le cose sono andate più o meno così.
    C’era questa ragazza su di un terrazzo dell’Hotel. Appoggiata al parapetto, non sembrava seguire il movimento, lento e scostante, del poco traffico che si muoveva lungo la strada sottostante.
    Il giovane era lì, seduto su una panchina del piccolo parco di fronte al lussuoso albergo, e si guardava intorno alla ricerca di qualcosa di interessante da fotografare. Giocherellava con la ghiera dei diaframmi, impostava differenti tempi di posa, inquadrava, ma sembrava non essere mai soddisfatto.
    Volgendo lo sguardo a destra e sinistra, in alto e in basso, finì per incappare nella figura assorta della ragazza affacciata da quel terrazzo dell’Hotel Museum.
    La figura esile di lei, così immobile e definita nel contesto grigio e geometrico dell’edificio, lo attrasse.
    L’immagine aveva una sua bellezza. La serie di terrazze, vuote e anonime, costituiva un’infinita cornice intorno alla giovane. Lei, una piccola macchia rossa. Come un petalo di rosa sul fianco di un pachiderma.
    Innescò lo zoom al corpo macchina e creò l’inquadratura. Prima colse una panoramica completa della facciata con, in risalto, la screziatura rossa costituita dalla ragazza. Poi, incuriosito, puntò il teleobiettivo su di lei. Il maglioncino che indossava lasciava intuire delle forme acerbe; il viso tradiva noia; lo sguardo denunciava una mente persa altrove.
    Il giovane scattò in sequenza, cogliendo anche il movimento dei capelli leggeri di lei mossi da una lieve brezza serale.
    Nell’ultima foto cercò i suoi occhi. Ora sembravano fissare l’obiettivo. Poi, nella luce che andava svanendo, decise che poteva bastare. Era ora di rincasare e si apprestò a smontare lo zoom dal corpo macchina, riponendo tutta l’attrezzatura nella capiente borsa.
    Ancora prima della mano di lei, avvertì un profumo di fresco. Gelsomino? Si chiese. E quando si voltò si ritrovò a fissare gli stessi occhi che aveva fotografato poco prima. Ora, però, lo sguardo era duro. La ragazza non disse una parola. I capelli stavano ancora assecondando gli sbuffi intermittenti di uno Scirocco leggero e una mano aperta era tesa sotto la faccia di lui a chiara richiesta di qualcosa.
    Il giovane non fece in tempo a fare due più due che un’altra mano, ben più pesante e meno elegante di quella della ragazza, lo strinse all’altezza della spalla facendolo piegare dal dolore. C’era attaccato un energumeno comparso dal nulla e seguito da altri due che si affrettarono ad afferrare la ragazza e, guardandosi attorno con preoccupazione, la riportarono rapidi all’interno dell’hotel.
    Anche il ragazzo, sotto la stretta del primo uomo, fu costretto a seguirli nello stabile. Poi in un ascensore fino al terzo piano, lungo i corridoi e, infine, si ritrovò lanciato a sedere su una piccola poltrona all’interno di una camera.
    In mezzo al letto si era acciambellata la ragazza, il viso imbronciato, lo stava fissando con astio. Intorno a loro un gran movimento.
    Lui non si era nemmeno reso conto di quando qualcuno di quegli uomini gli aveva sfilato il borsone con dentro l’apparecchiatura fotografica. Li vide sparire nel locale adiacente alla stanza da letto e li sentì parlottare in una lingua a lui sconosciuta. Capì che stavano armeggiando con la fotocamera.
    Cercò di riprendersi dalla sorpresa di ritrovarsi in quella stanza. Osservò l’arredamento elegante, constatando la comodità della poltroncina di velluto ocra sulla quale era seduto. Insieme a una sua gemella e a un piccolo sofà, creava all’interno della stanza una sorta di salottino. Le pareti, tappezzate di una stoffa verde salvia, erano arricchite da stampe fin de siècle. L’unica cosa che stonava per disordine, era il letto dove stava la ragazza: lenzuola buttate all’indietro e cuscini ammassati uno sull’altro. Nella testa del giovane si confermava l’impressione avuta in precedenza: noia e insofferenza. Pensò che forse era stanca di rimanere lì dentro. Da quanto tempo sarà qui? Si chiese.
    Non ebbe il tempo di ipotizzare una risposta che una donna si sedette nella poltroncina di fronte a lui. Capelli castani trattenuti in uno chignon stretto sulla nuca, figura slanciata, dimostrava una quarantina d’anni. L’aspetto algido, distaccato e l’abbigliamento sobrio, non ne oscuravano di certo il fascino.
    Rimasero a fissarsi per qualche secondo.
    La donna sembrava serena e sicura di sé, con le braccia distese lungo i braccioli di legno che le mani stringevano delicatamente.
    “Sono qui per spiegarle.” Disse lei.
    Lui rimase in attesa.
    “Questa gente non parla la sua lingua.” Disse la donna con un particolare accento straniero.
    Il viso era marcato nelle linee di contorno e nel disegno di occhi e bocca. Al primo sguardo appariva duro e spigoloso, ma al ragazzo sembrò di scorgere un accenno di sorriso. Forse era solo di circostanza e cortesia, ma ne rimase affascinato.
    La donna si volse a guardare la ragazza sul letto. Se ne stava seduta con la schiena appoggiata alla testiera e guardava oltre le tende, fuori dalla finestra, nella luce sempre più tenue di fine giornata. Tutta un’altra bellezza, pensò lui, attratto dall’espressione acerba e corrucciata della giovane. I capelli biondo cenere le ricadevano disordinati sulle spalle e la fronte era nascosta da una frangetta spettinata.
    “Sa chi è?” Chiese la donna rimanendo con lo sguardo fisso sulla ragazza.
    “No.” Rispose. Lei si volse a guardarlo e accennò nuovamente il sorriso intravisto prima. Fece un leggero movimento del capo come a considerare positivamente la risposta e non disse una parola.
    “E non me lo dice?” Chiese lui.
    “Non ce n’è bisogno.” E ancora fece un mezzo sorriso come a voler intendere che non voleva essere scortese. Poi riprese: “E’ una persona che è meglio non fotografare, che non dovrebbe essere qui e che lei dimenticherà di aver visto. Qualcuno potrebbe approfittare della sua presenza in modo, diciamo, sconveniente. E questo è quanto posso dirle.”
    Uno dei tre uomini gli restituì la macchina fotografica mentre un altro consegnò alla donna delle schede.
    “Bene. Queste le abbiamo ripulite dalle immagini della signorina. Gliele restituiamo affinché non perda gli altri suoi ricordi signor… Fröer.” Disse lei aprendo un documento che poi allungò al giovane insieme al resto.
    “Come?” Si sorprese lui. E in quel momento il terzo elemento gli rese cellulare, portafoglio e documenti. Lui li prese e con stizza se li rimise in tasca.
    “Senta…” Cercò di obiettare Fröer, ma la donna alzò una mano e frenò la sua rimostranza. Prese un lungo respiro e il giovane sbirciò la pienezza dei seni sotto la lana del dolcevita color senape, poi si concentrò sul rossetto bordeaux che ne disegnava le labbra. Lei le mosse appena, come se volesse dire qualcosa, poi rinunciò. Rifletté ancora qualche secondo, poi lo invitò a lasciare la stanza dimenticandosi quanto accaduto.
    “Ma…” ritentò lui.
    “Simon, due di questi signori la scorteranno con discrezione. Solo per sincerarsi che faccia quanto detto. Sappiamo chi è e dove trovarla.”
    Ma Simon Fröer non sembrava avere voglia di andarsene. Sentiva lo sguardo della donna che lo fissava. Si voltò a guardare ancora la ragazza che, invece, sembrava ignorare tutto quanto le accadeva intorno.
    “È molto bella!” Disse.
    “Lo è.” Confermò la donna voltando lo sguardo alla giovane.
    Simon sentì salire il battito del suo cuore all’altezza del collo, poi una leggera pressione alle tempie.
    “È molto bella!” Ripeté.
    La donna fece solo un leggero cenno con il capo, come a ribadire che era d’accordo e che non c’era altro da aggiungere.
    “Lei, intendevo dire.” Sussurrò invece Simon Fröer, voltandosi a guardare negli occhi la donna. “Lei è molto bella.”
    Questa volta il sorriso che si aprì sul volto di lei era sincero e inequivocabile. Il complimento le aveva fatto piacere.
    “Grazie.” Rispose calma, inclinando il capo in un accenno di inchino. “Ora se vuole…”
    “No, un momento.” La inter ruppe lui prendendo coraggio. “Potrei farle almeno una foto? Poi le lascio la scheda e la verrò a riprendere quando ve ne sarete andati. Me la può lasciare alla reception o…”
    “Signor Fröer!” Lo interruppe lei, lo sguardo a chiedersi dove volesse andare a parare il giovane. “Per cortesia, le ho già spiegato che quella ragazza non…”
    “Ma io non voglio fotografare lei, – disse Simon indicando la ragazza. – Ma lei, lei…” concluse rivolgendo le mani a palmi aperti verso la donna.
    Restarono un altro minuto in silenzio. La donna, benché sorpresa, non mostrava impazienza. Desiderava solo che quell’intruso se ne andasse al più presto.
    Le guardie del corpo sembravano parte dell’arredamento della camera, disposti in angoli diversi e assolutamente immobili nella classica posizione in cui ci si aspetterebbe di vederli.
    Il giovane pensò che un’altra occasione non gli sarebbe certo capitata e volle rischiare: “Non so chi siete. Non conosco il suo nome. Mi lasci almeno un suo ricordo. La trovo davvero affascinante. Che problema ci può essere? L’ha detto prima che mi potete trovare quando volete. Deve solo assecondare un desiderio bizzarro di uno…”
    “Signor Fröer, – lo interruppe ancora lei apparentemente contrariata per l’improvvisa loquacità del giovane. – Io non credo che…” Ma poi si zittì. Guardò negli occhi Simon e, dopo qualche attimo, i lineamenti del suo volto si distesero.
    Fece uno strano sbuffo di rassegnazione mordendosi le labbra e disse: “D’accordo.”
    Simon Fröer non se lo fece ripetere e non perse tempo. Rapido montò sul corpo macchina un obiettivo. Armeggiò con ghiere e pulsanti della fotocamera, si guardò un po’ intorno, muovendosi nella stanza e aprendo le tende per far entrare più luce. Poi chiese alla donna di fare un paio di movimenti col capo, si giri di qua, guardi di là, e si rese conto che l’attenzione delle tre guardie del corpo ora era concentrata sulla donna, come se la vedessero per la prima volta. Solo la ragazza continuava ad ignorare tutti restando impassibile a guardare oltre la finestra dal centro del letto.
    Simon scattò due, tre volte, non di più. Non voleva abusare della concessione forzata della donna. Quindi smontò tutta l’attrezzatura e la ripose nella borsa che lasciò sul tavolino basso tra le poltrone e il sofà.
    “Allora verrò a ritirare tutto fra qualche giorno? O forse sarete ancora qua?” Chiese restando in piedi di fronte alla donna.
    “Le faremo sapere noi Simon. Lei stia tranquillo.”
    “D’accordo. Ma mi prometta di non cancellare le foto che le ho fatto.”
    “Promesso.” Sorrise chinando appena il capo.
    “Bene, a questo punto non credo serva che i suoi “amici” si disturbino ad accompagnarmi. Resta tutto a voi…”
    “Vero. È libero di andarsene.”
    Il giovane attraversò la camera, ne uscì senza fretta e, quando fu in strada, allungò il passo nel modo più naturale possibile. Svoltò all’angolo con la prima traversa e, appena trovò un cestino dei rifiuti, vi lasciò cadere cellulare e portafogli con i documenti di Simon Fröer.
    Di lì a poco un furgoncino della nettezza urbana si fermò all’altezza dello stesso cestino. L’uomo che scese dal retro del furgone prelevò, sigillandolo, il sacchetto dei rifiuti e lo sostituì con uno nuovo. Poi risalì sul mezzo che ripartì senza fretta. Però, stranamente, non si fermò al cestino successivo, e nemmeno a quello dopo ancora, e così lungo tutta la via. Proseguì fino a sparire in fondo alla strada.
    Nella camera d’albergo la donna, appena rimasta sola con la ragazza che ora sembrava essersi appisolata, non resistette alla curiosità. Avvicinatasi alla borsa di Simon Fröer ne estrasse la macchina fotografica. Si sorprese di trovarla ancora accesa. Sullo schermo lampeggiava la scritta: “Dispositivo mobile disconnesso”.
    La donna ebbe un attimo di perplessità poi, con un moto d’ansia, armeggiò freneticamente con l’apparecchio per estrarne la scheda digitale. Entrò come una furia nel locale annesso alla camera dove i tre energumeni la guardarono sedersi al computer.
    Dopo qualche secondo, aperto l’unico file della scheda, si ritrovò davanti a una schermata luminosa e completamente bianca. Si lasciò scappare un’imprecazione a mezza voce, abbandonandosi allo schienale della sedia.
    Qualcosa non quadrava.
    Il ragazzo le aveva chiesto di fotografarla. Di fotografare lei! Sulla scheda non c’era nulla. Perché allora aveva anche insistito?
    “Dispositivo non connesso”, provò a riflettere sull’avviso lampeggiante. Le sue foto erano state scaricate direttamente sul cellulare del giovane? Ma a che pro? Non era lei la persona di cui tenere segreta la presenza.
    Tornò nella camera, frugò nel borsone ed estrasse qualche obiettivo. Cercò di ricordare quale il ragazzo avesse montato. Trovatolo lo guardò, lo prese in mano, rigirandolo, fino a che, muovendo inavvertitamente una ghiera, notò lateralmente una sorta di foro, una minuscola lente.
    La donna montò sul corpo macchina l’obiettivo e guardò nel mirino inquadrando la poltroncina dov’era seduta poco prima, quando si sentiva lusingata dell’attenzione del fotografo.
    Rimase di sasso quando, invece del velluto ocra della poltrona, si rese conto che nella fotocamera vedeva la ragazza che si stava risvegliando nel letto.



    > Ritardi, di fedigloria

    La sua vita si è fermata alle diciassette e trentacinque. Lo sa perchè ha guardato l’orologio, e ha guardato l’orologio perché il medico di sua moglie ha detto: «Segni, Melania, ingresso diciassette e trentacinque».
    Seduto su un seggiolino girevole il dottore teneva una mano sulla coscia di Claudia e con l’altra porgeva all’infermiera il modulo dell’accettazione. Aveva ancora il camice bianco, aperto su una maglietta scura, e l’aria di chi è appena uscito dalle docce del tennis club. Più tardi, e per sempre, lo avrebbe visto vestito di verde, il verde lattice delle tre del mattino.
    Ma alle diciassette e trentacinque il medico di sua moglie era ancora un medico come migliaia di altri medici dentro migliaia di altri ospedali, un medico in camice bianco dal sorriso rassicurante, che può allungare moduli alle infermiere e disporre ricoveri e dimissioni come se ogni giorno fosse uguale all’altro, come se da un reparto ospedaliero si potesse entrare e uscire mentre il mondo, paziente, aspetta.
    Uscendo dalla stanza l’infermiera lo ha urtato e lui ha detto «Mi scusi», e lei ha risposto «Si figuri», e lui ha pensato che per carità, avrebbe preferito non figurarsi proprio niente e semmai, guardi, semmai dormire per una settimana. Anzi, potrebbe chiedere qualcosa di forte, già che c’è, ha pensato scansandosi.
    «Dopo se vuoi ti facciamo dormire» ha detto allora il medico di sua moglie, e lui si è girato di colpo e per un attimo ha temuto che sapesse guardare anche dentro la testa della gente, questo medico, oltre che nelle viscere.
    Ma poi Claudia ha rimesso tutto a posto: «Si, però dopo – ha detto – quando è tutto finito», e a lui è parso che avesse una farfalla nella gola, una specie di frullo d’ali in fondo alla voce. Gli è parso, ma chissà poi se era vero.
    «Ma certo – ha tagliato corto il medico di sua moglie – Gli anestesisti sono bravissimi, ti prometto che non sentirai niente»
    Lui invece non ha promesso. Per promettere devi essere bravo a prevedere le cose, si è detto, devi essere uno che è già lì prima che le cose si decidano ad accadere. Per esempio quel pomeriggio che in casa faceva un freddo bestia e Claudia è uscita dal bagno e aveva gli occhi lucidi, lui non ci ha mica pensato che le cose potessero decidere di accadere in quel preciso istante, e quando le ha chiesto «Hai la febbre?» e lei ha riso, era già in ritardo di mille anni. È stato sempre in ritardo, non ha dubbi. Da bambino, al liceo, al funerale di suo padre. È arrivato tardi anche adesso, in questo reparto di ospedale, e non ha potuto promettere niente ma solo seguirli in corridoio come uno che si è perso.
    Li ha raggiunti davanti alla porta a vetri del blocco operatorio. Sua moglie ha sorriso e gli ha allungato una mano, e lui ha fatto lo stesso pensando di stringergliela, come in chiesa tre anni prima. Invece Claudia ha aperto le dita e ha lasciato cadere la fede sul palmo di lui. Era tiepida. «Me la ridai dopo» gli ha detto. Così, senza punto interrogativo. Come avesse fatto a dimenticarsene, lei così fissata con la grammatica, non l’ha mai capito. Lo avrebbe chiesto anche al medico verde lattice, volendo, se solo non fosse stato così esperto di cisti e bisturi e complicazioni.
    I punti interrogativi sono importanti, invece. Anche arrivare in tempo, è importante, lo dice sempre a Martina. Glielo dice anche adesso, mentre lei succhia un chupa chups alla fragola davanti allo schermo e lui stringe l’estremità della sua treccia bionda nell’elastico rosa. 
    «Spegni, adesso – le dice – Spegni, amore, che siamo già in ritardo».

    111 commenti su “I commenti di Giacomo Raccis ai racconti di TYPEE/2”

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    Giacomo Raccis

    Ricercatore universitario. Si occupa prevalentemente di romanzo italiano contemporaneo, di racconto breve e di interazioni tra letteratura e arti visive. Ha studiato a lungo l’opera di Emilio Tadini, di cui ha curato la raccolta "Quando l’orologio si ferma. Scritti 1958-1970" (il Mulino 2017) e su cui ha pubblicato la monografia "Una nuova sintassi per il mondo. L’opera letteraria di Emilio Tadini" (Quodlibet 2018). Ha scritto anche "La trama" (Carocci 2018), breve manuale sull’evoluzione dell’intreccio nei romanzi occidentali. Tra i fondatori de La Balena Bianca, ha collaborato anche con Doppiozero, cheFare, L’indice dei libri del mese, Le parole e le cose e altre riviste cartacee e in rete.