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La vita è un gioco
di Giulia Lombezzi
La mattina del sette agosto duemiladiciassette la mia proprietà è pervasa dal ciabattare.
A occhi chiusi, mi sembra che una cinquantina di femmine trafelate formicolino senza pace in ogni angolo della casa. In realtà sono due: mia moglie e la madre di mia moglie.
Poi c’è il bambino che piange. La radio che ride. Il cane che ticchetta. E da qualche parte, giù da basso, il bordone asfissiante dell’autostrada.
Aprendo gli occhi noto le dita dei piedi di mia moglie. Sono così aggressive mentre se ne stanno soffocate in quelle ciabatte gialle che cigolano avanti e indietro, sono così impudiche quelle dita dei piedi tutte compresse insieme, un giorno esploderanno, quelle dita, si spariglieranno fuori da quelle ciabatte strettissime e rotoleranno scomposte sotto i mobili. Va bene. Devo alzarmi. Dovevo alzarmi ore fa. Non dovevo neanche dormire. Bisognava esser pronti da giorni a questo momento. La casa è violentata, ingombra di valigie, sacchetti, tupperware, zaini, borsefrigo, buste, tracolle e beauty case, un esercito di contenitori ubriachi ha invaso senza garbo la mia abitazione e due donne ansanti strizzano, ripartiscono e spingono beni materiali all’interno del suddetto esercito, senza requie.
Mia suocera claudica per il corridoio scostandomi con l’ostinazione di un toro, percepisco un velo di sudore fresco sulla sua pelle. Il vestito, un drappeggio semitrasparente a tinte pacchiane, le ondeggia intorno alle natiche con evidente apprensione. Lei non mi guarda nemmeno, ha la bocca a metà e gli occhi persi nel vuoto, rapita nel folle affanno del Confezionamento Bagagli per il Mare. Ogni tanto mi sembra che la vita di mia suocera consista prevalentemente in questo: riempire sacchetti, svuotare borse, riordinare scatole, avvolgere oggetti dentro materiali avvolgenti, mettere cose dentro altre cose e tirare fuori cose più piccole da cose più grandi, il tutto con la trepidazione che un generale dell’esercito immagino avverta prima di sganciare un ordigno. Mentre la macchina del caffè mi si sveglia amichevole sotto le mani, mia moglie mi scivola accanto a denti stretti, intenta a inseguire Pierluigi, mio figlio, che ulula una solitaria protesta contro l’obbligo sociale di indossare i pantaloni.
Mentre si rotola per terra vibrando di rabbia come una sega elettrica, mi domando da chi l’avrà ereditato tutto quel livore, Pierluigi. Forse gli si sono incanalate dentro le bestie represse di intere generazioni. Ogni tanto mi chiedo, non con apprensione ma con remoto desiderio, se questo fagotto ostile sia veramente frutto del mio seme. Se un giorno Marzia, mia moglie, mi confessasse di averlo concepito con un altro, mi sentirei finalmente affrancato dal quotidiano peso del doverlo applaudire quando accende la luce, quando mangia qualcosa che non siano Cheerios o quando al ritmo di qualche hit dell’estate si mette a traballare davanti alla tivù. Marzia e Cinzia, mia suocera, hanno instaurato questo vezzo di lodare Pierluigi per ogni manifestazione della sua esistenza, è tutto un fiorire di Hai dormito bene? Bravo! Hai mangiato la pappa? Bravo! Hai disegnato un cane? Veramente!? Bravissimo! Per cui mio figlio si sente autorizzato a dare inizio in qualsiasi contesto a qualsivoglia genere di show, aspettandosi un’attenzione delirante che io non ho mai saputo esprimere, ma neanche da giovane.
Marzia, terrorizzata, blandisce Pierluigi promettendogli dei premi se accetta di farsi infilare i pantaloni. Lui cede, in cambio di tre cartoni animati, due lecca lecca e un pacchetto di mostriciattoli da comprare all’edicola. Marzia gli lascia scegliere i pantaloni, glieli abbottona e si trascina a riempire altre borse mentre lui tira fuori da una valigia un pacco di pennarelli, li rovescia a terra e li prende a calci.
Marzia ha smesso da anni di indossare quei vestitini a fiori che le evidenziavano il seno. Ora passa estate e inverno insaccata in una collezione di tute da ginnastica sformate. Ne possiede a vagoni, se le mette anche per fare la spesa e io me ne vergogno. Così stai bella comoda, asserisce mia suocera sotto il mio sguardo invelenito. Ogni tanto mi sembra che Cinzia goda a vedere come la bellezza di Marzia si sia scolorita in fretta dopo il parto.
Mia suocera, mentre arraffa i surgelati dal freezer e li schiaffa nella borsafrigo, parla. Credo che ascoltare la propria voce riempire l’aria di dissertazioni pratiche le dia la certezza di non poter finire inghiottita da nessuna parte. Finché parlo, penserà Cinzia, finché parlo non muoio. In salotto pigola la sirena del camion dei pompieri che Cinzia ha regalato a Pierluigi per Natale. Lui fu deluso da tutti i regali quella sera, ricordo le sue manine che laceravano rapaci la carta e lanciavano via il contenuto di un pacchetto buttandosi subito sul successivo, fino all’ultimo, che conteneva il camion con la sirena. Volle che questa gli fosse accesa e cominciò a girare per il salotto a volume altissimo, sordo a qualsiasi richiamo. Cinzia gongolava. Si è pure presa un bacio, la stronza. Pierluigi si divincola dai nostri abbracci, non ama tenerci per mano, ci nasconde il viso. Sembra capitato qui per caso. Marzia aveva la lacrime agli occhi. Il bavaglino che gli aveva cucito a punto croce era rimasto nel mucchio dei regali privi di interesse.
Mi chiudo in bagno, vorrei almeno un quarto d’ora per masturbarmi in pace ma Marzia entra senza chiedere permesso per fare pipì così almeno non perdiamo tempo. Mentre mia moglie urina fissando il vuoto, il corpo rilassato di fronte a me senza mistero, penso che i tempi in cui si blindava in bagno con l’acqua aperta sono così lontani che mi pare il liceo. Marzia una volta si vergognava persino a mangiare, di fronte a me. Ascoltava i miei resoconti sulla vendita di ricambi per auto concentrata come davanti a un medico, rideva di gusto alle mie battute sui meridionali e mi si abbarbicava di notte come un’edera, felice quasi più del potermi dormire addosso che non del sesso che c’era stato prima. Mi trovava brillante, e non le importava che non fossi bello. Io l’ho accolta, consapevole del fatto che molto di meglio uno come me non poteva trovare. Era un pubblico solerte, Marzia, si specchiava in ogni vetrina per vedere se era all’altezza e fissava fiera le donne più belle di lei, combattiva come un’ape. Non so chi sia questa bestia opaca che di notte mi rifiuta perché stremata da Pierluigi, questa creatura che si addormenta al cinema e gira con un perenne bagliore di smarrimento negli occhi, questa pallida ragazza che teme in modo reverenziale la creatura fragile e tirannica che ha partorito.
Dobbiamo serrare le tapparelle, bloccare i vetri, staccare il frigo, buttare l’umido, chiudere l’acqua, staccare i cavi, a poco a poco la casa sprofonda in una quiete bruna, sento il sole premere a piene mani contro gli scuri mentre la penombra pervade ogni angolo. Immagino un’estate qui, immobile, blandito dal ventilatore, ungendomi i vestiti di cinese da asporto, guardando porno e basket, immerso nel mio masticare, senza alcuna voce umana che non sia contenuta in uno schermo, quindi spegnibile.
Io e mia suocera con gli ultimi bagagli ci chiudiamo nell’ascensore. Siamo immersi nelle cose del bambino, lo specchio riflette la nuca sudata di Cinzia, ci sono il seggiolone, il passeggino, i pupazzi gonfiabili, la piscina gonfiabile, le formine, le pistole ad acqua, i pannoloni, le pomate, il salvagente, i braccioli, il cane che ansima perduto. Mia suocera, verde della luce dell’ascensore, mi guarda a spizzichi. Cinzia è un Bassethound, una cascata di pieghe tremolanti, una frana ferma con due occhioni supplichevoli. Parla. Della pizza che mangeremo stasera. Che ha prenotato suo marito. Che quella pizzeria è proprio buona perché è quella dell’anno scorso ma speriamo ci mettano al tavolo in fondo alla sala che altrimenti c’è aria. Parla per sei piani di ascensore, con brevissimi intervalli in cui mi appende addosso uno sguardo canino, assicurandosi che io non dica nulla di inatteso. Mi chiedo cosa succederebbe se facessi a Cinzia una domanda completamente fuori luogo. Se le chiedessi Cinzia, ma tu hai paura della morte? Cinzia, hai mai picchiato qualcuno? Cinzia, tu sei felice? La macchina arde sotto i raggi di agosto, pronta a esplodere. Ci aspettano sei ore di autostrada. Dall’edicola all’angolo Marzia esce sola. La mamma se ne va, Pierluigi, eh. Adesso la mamma ti lascia qui. Ciao, ciaociao. Pierluigi stride accanto all’espositore dei giocattoli, immagino ne abbia pretesi più di quanti non fossero nei patti. Batte i piedi a terra, paonazzo. A volte immagino di riempirgli la stanza di giochi, senza smettere mai di cedere alle sue richieste. Giorni interi di caramelle, cartoni, aeroplanini, lego, supereroi e spade. Solo per vedere se a un certo punto si fermerebbe. Pierluigi la mamma se ne va.
Adesso vengo lì, ti porto via, ti trucco, ti vesto decentemente, ti faccio bere come un portuale e poi provo ad amarti di nuovo, penso io guardando quella goffa creatura ch’era mia moglie. Non ti chiedo neanche di collaborare. Faccio tutto io. Ma lei cede, torna a tutta birra dal dittatore in pannolone ed esce dall’edicola piena di bustine fluorescenti che lui arraffa famelico. Il bolide bollente di marca Fiat si prepara a inghiottirci. Vorrei accanto Marzia, ma la vuole anche Pierluigi, quindi mia moglie si accoccola sul sedile dietro con in braccio una borsa frigo e i piedi in uno zaino mentre il monarca quattrenne viene impacchettato nel seggiolino. Accanto a me crolla Cinzia, che tira fuori un ventaglio delle dimensioni di una vela e comincia a sventolarlo melodrammatica. Appena accenna a parlare accendo il giornale radio. Mi dispiace per i siriani. Mi dispiace per il cantante suicida. Mi dispiace per Amatrice. Mi dispiace per il Partito Democratico. Mi dispiace per Donald Trump. Un po’ di musica. Radio Deejay, Radio Italia, M2o, Radio 105, Virgin Radio. Spengo la radio con un pugno. Ogni canzone parla di fughe, tramonti e scopate. Se ne vadano a fanculo Jovanotti, i Negramaro e soprattutto i Negrita, la vita è un gioco, questo cantano, certo, facile se passi l’estate a torso nudo a bere birra su un furgone nel Salento, facile parlare di libertà, caro mio. Lo conosco bene il mare che aspetta me, è lo stesso di sempre, la spiaggia retrattile di Cogoleto, il pavimento impiastricciato dei bagni Beatrice, la casa stretta dei suoceri e un’amara transumanza di giornate identiche. Essere svegliati alle otto dal bambino. Convincerlo a fare colazione. Vestire il bambino. Convincerlo a uscire. Aprire la macchina. Inserirvi il bambino. Trovare parcheggio. Pagare il parcheggio. Raggiungere i bagni. Spogliare il bambino. Convincerlo a mettere la crema. Spiegargli che se si rotola nella sabbia, la sabbia si appiccica alla crema. Portarlo a lavarsi perché ci si è rotolato comunque e ora piange. Lavarlo alla doccia, dove piange perché è troppo calda, poi troppo fredda, poi gli è entrata l’acqua negli occhi. Tornare all’ombrellone. Provare a leggere. Sentirlo urlare. Tirar fuori tutti i suoi giocattoli. Non perderlo. Convincerlo a non usare le formine altrui. In cambio gli compro un gelato. Gli cade nella sabbia. Gli compro un altro gelato. Lo compro anche a me. Vuole il mio. Scambiamo i gelati. Gli cade il mio gelato nella sabbia. Piange. Sale sul mio asciugamano col corpo completamente ricoperto di sabbia, che mi finisce nel libro, nel costume e nel caffè. Propongo un castello di sabbia. Lo prende a calci. Odio la sabbia. La odio. Voglio un mare senza sabbia, senza acqua e senza sole. Mia suocera fa foto al bambino con una furia cannibale, perché poi è un attimo che cresce e questi ricordi non ce li hai più.
E intorno ecco gli altri, che gravitano in un nirvana cristallino: il signore settantenne che ha tempo di leggersi tutto, ma proprio tutto il giornale, il bagnino che spadroneggia sulla sua palafitta ascoltando reggaetton, la madre e la figlia che sonnecchiano al sole, i ragazzi che giocano a beach volley godendo delle cadute sulla sabbia e dei bikini delle ragazze che si slacciano nella febbre del gioco, il barista, la coppia senza figli, la coppia con quella bambina bionda che non piange mai, la signora obesa che si olia felice sul bagnasciuga. Tutti sembrano approfittare in pace dei pochi metri di sabbia e litri di mare a noi concessi dalla tirchia topografia di Cogoleto. Marzia ogni anno lambisce con la coda dell’occhio la bambina bionda che pasticcia silenziosa la sua barbie. Lei e Pierluigi hanno la stessa età. Sua madre dev’essere scandinava, o giù di lì. Ha dei bikini di maglina chiara e un sorriso incoraggiante che mi fa venir voglia di darle un pugno. Sebbene sia chiavabile, mi suscita la stessa insofferenza delle stanze prefabbricate che vendono da Ikea. Abbinate, assemblate, confortevoli. Le farei a pezzi. Sulla boa, un branco di dodicenni si massacra di tuffi. Penso che vorrei lanciare una moneta, scegliere una di queste persone a caso e scambiarmi con lei. Sono quattro anni che lo penso. Sparire in una vita qualsiasi. Possibilmente appena iniziata. Guardo continuamente i culi, gli inaccessibili culi altrui. La mia vita è finita. Non mi capiterà mai più il piacere di un flirt. Ci sarà la figlia del proprietario dei bagni anche quest’anno, arriverà fresca di parrucchiere a servire cocacole ai tavoli. Penso a quel culo bronzeo sotto le mie dita, a spostarle dolcemente i triangoli del bikini. Ogni anno ci penso. Mi chiudo in cabina, mi abbasso il costume. Mia moglie bussa isterica, serve un cerotto per Pierluigi, apri per favore, resta un attimo qui, dài sono piena di sabbia, cosa facevi qui, ma niente, vieni un attimo, il bambino si è fatto male e tu pensi a scopare in cabina, tu non stai bene, mi dice lei, arrivo, bofonchio io, ed esco di lì teso come una corda elastica. Queste sono le mie vacanze, da quattro anni.
Nel frattempo abbiamo raggiunto l’autostrada. Il carico umano che porto con me è drogato da un sonno sbilenco. Hanno la bocca spalancata dal caldo, sembra che cantino in coro.
Sbircio gli abitacoli altrui. A sinistra c’è un settantenne in una Cinquecento. Osserva il carico della mia auto. Il volto gli si illumina di gioia vizza alla vista di mio figlio. Annuisce più volte, con evidente approvazione. Solo allora mi accorgo che sto lacrimando. Che vorrei fosse mio padre. Che vorrei mi spiegasse come si fa. Ora glielo chiedo, penso. Ora apro il finestrino e glielo chiedo, come si fa. Ma la coda si sblocca, e quando mi rigiro verso di lui, è già scomparso in uno svincolo. Riaccendo la radio. Siamo tessere di un mosaico geniale, cantano i Negrita. Continuando a piangere, canto anch’io.
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