Il 3 novembre partirà C’è come un dolore nella stanza, un laboratorio di scrittura dedicato agli autori che hanno saputo raccontare l’esperienza del lutto e della perdita in maniera più compiuta, basandosi spesso – ma non esclusivamente – sul loro vissuto. Nel corso dei sei incontri, ciascuno dei partecipanti avrà la possibilità di lavorare a un proprio testo, che verrà commentato durante la lezione finale a Milano.
In attesa della presentazione online del 13 ottobre, abbiamo chiesto al docente Yari Selvetella, autore televisivo e scrittore, di rispondere a qualche domanda.
1. Il tuo laboratorio C’è come un dolore nella stanza è incentrato sull’esperienza della perdita e su come essa può diventare «occasione narrativa». Tu stesso ti sei misurato con questa necessità in Le stanze dell’addio (Bompiani 2018) e nel tuo romanzo di prossima uscita Vite mie (Mondadori). Che percorso hai seguito? Cosa spinge (e come si arriva) a forgiare una storia universale partendo da quanto di più privato e personale possa esistere?
Una delle ambizioni più comuni nella letteratura, specie dal Novecento a qui, è proprio quella di rendere condivise – e talora, in rari casi, persino universali – le esperienze private. Il nucleo rovente dell’esperienza concreta o interiore, per chi scrive, è al centro perfetto di un foglio millimetrato: ogni minuscola tacca è un’occasione narrativa. Per prima cosa segniamo le coordinate, la distanza dai fatti, e da lì diamo l’abbrivio all’orbita del pianeta del nostro racconto, che ruoterà attorno al trauma, alla nostalgia o al rimpianto, alla gioia, alla malinconia, ai retaggi morali, ai nudi eventi. Ed ecco subito la scelta: vogliamo essere Mercurio, pianeti roventi, vicini al Sole il più possibile, vogliamo rinunciare al pudore, confrontarci apertamente col materiale vivissimo del dolore? Oppure vogliamo essere Nettuno, nella buia materia dell’assenza descrivere la nostra ellisse, nel luogo più lontano dalla stella, nel punto in cui essa pare quasi non esistere? Dobbiamo scegliere. Anche se Nettuno senza dubbio appartiene allo stesso sistema di Mercurio, si tratta di luoghi – di racconti – molto diversi.
Senza questa consapevolezza scrivere è solo una pulsione scomposta, che forse può soddisfare certe istanze interiori ma non dirsi compiuta. Vorrei che dalle conversazioni di questo laboratorio emergessero anzitutto degli strumenti appropriati per decidere la distanza più adatta alla sensibilità e alle qualità espressive di ciascuno.
Nel rapporto tra chi scrive e alcune esperienze dolorose, bisogna poi distinguere tra chi ha già l’abitudine di esprimersi attraverso la scrittura e chi inizia a maneggiarla proprio in queste occasioni, magari per liberarsi dalle ombre più insopportabili o per fissare indelebilmente un ricordo. Cercheremo di fornire a tutti delle indicazioni, soprattutto esaminando pagine, celebri o meno conosciute, di grandi autori classici e contemporanei.
Per quanto mi riguarda, quando ho vissuto certe esperienze, già scrivevo e avevo pubblicato libri, alcuni anche con un certo successo. Mi è parso di sentire, vedere, sapere qualcosa di importante che non potevo tenere solo per me. Ho avuto la sindrome di Gennaro Jovine, il protagonista della commedia Napoli milionaria di Eduardo De Filippo. Torna a casa e vuole raccontare a tutti le sue disavventure di guerra ma parenti e amici, dopo un iniziale interesse, si scocciano. Nonostante lui tenti di riprendere il discorso, gli altri non vogliono più saperne. Ecco, quello è il momento in cui, se si dispone degli strumenti giusti, bisogna scrivere. Anche per chi non vuole ascoltare: compresi noi stessi, ovviamente.
2. Chi scrive oggi ha a disposizione un ampio ventaglio di generi e medium: non solo narrativa (romanzo, racconto, poesia, memoir, saggio…) ma anche cinema, serie tv, fumetti, podcast. C’è un’opera contemporanea che ti ha colpito particolarmente per la sua capacità di raccontare il lutto?
È stata la mano di Dio, di Sorrentino. È la prima che mi viene in mente. La luce del film, il mare, l’assenza della città così presente, ogni fotogramma e dunque ogni parola, racconta una verità che è tutta lì, nelle apparenze e dietro di esse.
Mi pare poi che il tema sia diventato via via più presente nella letteratura italiana. Penso a romanzi come L’invenzione della madre di Peano, o La metà del cielo di Ferracuti o, a suo modo, Addio fantasmi di Terranova. Ci sono stati anche toccanti memoir di successo come Mi vivi dentro di Milan o recentemente Tuamore di Dentello, e molti altri, sempre di più. Dobbiamo stare attenti, come già ho avuto occasione di scrivere alcuni anni fa, a non codificare generi commerciali sulle malattie e sul lutto; spero che anzitutto gli editori si sottraggano a un tale sacrilegio ma è necessario anche che chi scrive sappia districare il materiale inerte dal minerale: la pappa della lagna, dell’autocompatimento, della retorica dai tratti più utili al racconto – se così vogliamo esprimerci.
3. Nell’affrontare il racconto di esperienze dolorose come il lutto, la malattia o la perdita che spazio c’è per l’invenzione?
L’immaginazione – e la memoria non è che una delle sue forme – definisce lo spazio della nostra attività di scrittori. E questa è anzitutto una responsabilità. Chiunque scriva ne ha sostanzialmente due: decidere quando comincia la storia e il punto di vista da assumere. Su queste fondamenta, costruiamo: i ricordi sono sabbia, le idee armano il cemento, le paure ci fanno da tetto. I nostri materiali ineffabili precipitano sulla pagina, solidificano.
Certo in letteratura tutto si può inventare, ma funziona solo se si è molto bravi a scrivere. I grandi scrittori maneggiano i sentimenti umani senza esserne necessariamente partecipi. O forse ci riescono proprio perché sono partecipi di tutto, almeno nel momento in cui scrivono. La vera sfida è collegare questi ambienti: la cava dell’esperienza e il cantiere della storia.