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Il giorno della memoria
>> racconto

    [three_fifth]

    Il giorno della memoria Copertina

     

    Il giorno della memoria

    di Giulia Lombezzi

     

    Svolgimento.
    Tutte le mattine, al mio ingresso in cucina, trovo ad aspettarmi una tazza. È sempre la stessa. C’è sopra Brontolo. È piena fino all’orlo di latte, se ne sente l’odore già dal corridoio. Una pelle sottilissima ricopre la parte liquida, se non lo sai non la vedi ma basta sfiorare il latte col cucchiaio per avvertire quell’increspatura, come una pelle coi brividi. La tiro via, posandola sul piattino, pensando alla placenta perché l’abbiamo studiata da poco, respirando a fondo per convincermi a bere. Il latte è bollente e io ho poco tempo, per cui tutte le mattine lo tiro giù a grandi boccate e subito dopo mi fiondo a scuola. Poche ore dopo mi sento male.

     

    Anche nel giorno della memoria mi sentivo poco bene. Eravamo tutta la scuola nel palazzetto dello sport, quel giorno lì. Nel palazzetto dello sport ci si va solo per le cose importanti, ho imparato. Eravamo lì ad aspettare da ore, c’era sempre più odore di scarpe e tra una mezz’ora sarebbero arrivati i genitori, gli assessori, i segretari, il vicesindaco e il sindaco e si sarebbero seduti tutti sui gradoni.
    Mi faceva strano immaginare gente in giacca, cravatta e pelliccia seduta sui gradoni di una palestra, in verità. C’è qualcosa che non c’entra, sarebbero più giusti in tuta. Però mi faceva strano anche immaginarmi un assessore o un vicesindaco in tuta. Il vicesindaco, il sindaco e il Papa sono persone che in tuta, in costume da bagno e in pigiama non me le immagino per niente. Anche il Presidente del Consiglio non è un tipo da pigiama, secondo me, ma questo come al solito non c’entra.

     

    Sul palcoscenico montato in mezzo al palazzetto i tecnici facevano il soundcheck, quel giorno lì, saltando su e giù dalle lastre nere come gorilla.
    Fuori c’era quel misto un po’ schifo, un po’ pioggia un po’ neve che è caratteristico del mese di gennaio e io avevo l’orlo della tuta fradicia.
    A noi di prima, la professoressa Franchi ci aveva messi sulla sinistra. Quelli di terza stavano a destra. Le femmine boh. A mano a mano che passavamo di fronte a lei, la professoressa Franchi scriveva a ognuno un numero sul braccio. Questo perché a noi di prima ci facevan fare gli ebrei. A quelli di terza eran toccati i nazisti. Alcuni di loro, tipo Alvise P., si eran dovuti imparare delle frasi in tedesco. Quello che dovevam fare in pratica era girare in tondo e metterci in ginocchio seguendo gli ordini dei nazisti, che avevano anche i fucili finti, i cappelli da militare e le piastrine cucite sulle magliette.

     

    La professoressa Franchi, dovete sapere, è una donna tozza e scura, una specie di panettone con un mento gelatinoso di tre piani e due occhi che supplicano sotto palpebre molli.
    Ogni giorno mi domando che tesori nasconda dentro quelle occhiaie e ricordo che quel giorno, mentre mi scriveva il numero 5782 sul braccio, io le guardavo un pochino l’inizio delle tette, ma non apposta, anche perché non erano belle e forse era proprio questo che in realtà mi incuriosiva.
    La Franchi respira sempre come se avesse appena fatto le scale. Quando si arrabbia emette un ululato basso, malinconico. Nella scala Mercalli delle Arrabbiature dei Prof che abbiamo inventato io e Alessandro C., l’arrabbiatura della Franchi non supera mai il tremilasettecentocinquanta.
    Quel pomeriggio lei sembrava sinceramente desolata del doverci marchiare a uno a uno con la matita per occhi nera, ma queste erano le direttive della professoressa Biffi. La professoressa Biffi era la coordinatrice scolastica, nonché l’ideatrice, regista e responsabile del nostro spettacolo teatrale sui nazisti e sugli ebrei.
    Le arrabbiature della Biffi possono sfiorare anche il settemilaseicentodue, se butta male. Alza la voce in picchi da valchiria, tira gessetti, trascina la cattedra malamente qua e là e dà certe manate ai banchi che sembran spari. Quando arrivano i genitori, sorride. A fauci spalancate, come i caimani.

     

    Alcuni dicevan che era figa la Biffi, perché è bionda, è magra anche se ha cinquant’anni, profuma parecchio e si mette spesso i maglioni con le paillettes, ma a me non è mai piaciuta più di tanto perché quando ride sembra un cane da caccia, ha un numero sovradimensionato di denti e sotto tutto quel profumo sento una roba strana.
    I tacchi giganti della Biffi picchiavano su e giù dai gradoni quel giorno, mentre sbraitava indicazioni ai tecnici-gorilla che ruminando sigarette spente si scambiavano sguardi lugubri. Eran tutti con la felpa, la barba e un sacco di roba appesa ai pantaloni. Sembravano una tribù dove è difficilissimo inserirsi. Sembrava anche che ci prendessero in giro, a noi bambini, ma forse era un’impressione mia perché mi faceva comunque un po’ strano starmene lì travestito.

     

    La Biffi aveva passato gli ultimi mesi a organizzarci in un caos di coreografie con la musica di Schindler’s List. Nei giorni scorsi il clima era stato terrificante. La Biffi continuava a delirare su quanto fossimo indietro e quando uno di noi incespicava lei saltava su dalla sedia come punta da un’ape e schizzava nello spazio per mostrare il passo al malcapitato in questione.
    Io non ho sbagliato mai. Avevo troppa paura. Anche la battuta l’ho sempre detta bene. Diceva che non eravamo abbastanza tristi e non ci concentravamo e questo perché a noi degli ebrei non ci fregava niente.
    Allora noi cercavamo di essere più tristi, concentrati e spaventati ma avevamo troppa paura di sbagliare per ricordarci di essere spaventati per finta.
    Non farò mai l’attore.
    Quando dopo cinque-sei volte la coreografia ci veniva, con la musica e tutto, alla Biffi spuntavano invariabilmente i lucciconi. Ma sempre, eh. Diceva che il sindaco sarebbe stato fiero del nostro lavoro. Diceva che stavamo facendo una cosa molto importante. Ci chiedeva se lo sapevamo. Dicevamo “sì”.

     

    Speravo venisse bene la coreografia anche perché alla Biffi il marito l’aveva lasciata mesi prima (non me l’aveva detto lei, lo avevo sentito da mamma) e mi sarebbe dispiaciuto darle un altro dispiacere. Dopo che l’ho saputo, del marito, ho provato a guardarla: si è rifatta i capelli, ha aumentato il numero complessivo di paillettes, parla a voce più alta, porta scaldamuscoli color evidenziatore e lascia certe scie di profumo lungo i corridoi che la si potrebbe trovare anche senza gps.
    Sembra che più che il marito la preoccupi seriamente questa storia del giorno della memoria. Non si ferma mai. Ha messo manifesti in tutto il paese.
    Mio zio Michelangelo, che da giovane ha fatto arte drammatica, dice che si è improvvisata regista.
    Io gli ho chiesto cosa vuol dire e lui ha risposto che è come se da un giorno all’altro io, che faccio che ne so, il tabaccaio e che non ho mai studiato chirurgia, mi improvvisassi chirurgo, prendessi cioè una pinzetta e due forbici e mi mettessi a operare un poveretto a cuore aperto.
    Io ho obiettato che però in quel modo ucciderei una persona, mentre a far la regia di uno spettacolo di solito non si ammazza nessuno. Lui ha detto non si sa mai.

     

    Comunque ce ne metteva, di energia, la Biffi. Ogni tanto immaginavo cosa sarebbe successo se in quel giorno fatidico ci fossimo dimenticati tutto. Cos’avrebbe fatto lei? Ci avrebbe fatti bocciare in branco? Ci avrebbe morso? Speravo non si suicidasse. Ero troppo piccolo per queste cose. Speravo anche che se avessi sbagliato la battuta, almeno la Biffi non avrebbe detto a mia mamma che non mi importava nulla degli ebrei, perché questo non era proprio per niente vero.

     

    All’improvviso mi arriva accanto Giorgia M. di prima effe e mi chiede di controllare che la stella sul suo braccio sia cucita bene. Ne approfitto per annusarle i capelli.
    Giorgia M. ha questo odore che è un misto di shampoo, Big Babol e crackers che a me mi tira matto, se proprio ve lo devo dire, e poi non si lamenta mai ed è molto esperta di Clash Royale e niente, mentre son lì che beato le sniffo la testa la Biffi inizia a sbracciarsi.
    Le entrate. Dobbiamo provare le entrate, strilla per attirare la nostra attenzione in un fuoco d’artificio di paillettes. Se non sapete da dove si entra come cavolo (non sono certo che abbia detto cavolo, ma quell’altra parola preferisco non scriverla) ci arrivate al palco!? Muoversi! Entrate e battute a memoria! Forza!!
    Le vene del collo le pulsano in rilievo, la Franchi le uggiola dietro con devozione. La Biffi non ha quasi più voce, i tacchi pestano in terra come scariche di mitra.
    Giorgia M. scivola via da me, perché i nazisti dividevano maschi e femmine subito, appena arrivavano nei campi di concentramento, così ci ha spiegato la Mauri che è quella di storia, quindi io e lei reciteremo tutto il tempo lontani.
    Il latte nel mio intestino fa una capriolona storica. Vorrei andare in bagno. Odio l’inverno.
    Quando ci mettiamo in posizione per queste stramaledette entrate e i nazisti vengono posizionati dalla stessa parte delle femmine, vedo Manuel G. di terza che si avvicina a Giorgia M., si bulla col fucile e le sbraita le battute in tedesco, si è anche messo il gel quel babbo di minchia, si è proprio impegnato nella parte, se così si può dire, strano comunque visto che quello non si impegna mai in niente. Comunque Giorgia ride e scuote i capelli e io sento lo stomaco ripiegarsi come una tenda da campeggio e penso che i nazisti io li avrei direttamente tolti dallo spettacolo.
    Devo proprio dirgliela a mamma questa cosa del latte, non deve prepararmelo più, ora la pancia mi esplode e me la faccio nei pantaloni come il fratellino di Gianni B., così pensavo.
    Volevo parlarne anche quella mattina a colazione, del latte, ma avevo litigato con mia sorella Petra, che ha quasi diciotto anni, fa il liceo artistico e mi aveva chiesto se nello spettacolo almeno accennassimo alla questione palestinese.
    Io ho detto che non sapevo cosa fosse la questione palestinese e lei ha detto che è assurdo che i professori non ci parlino già alle medie dello schifo perpetrato negli ultimi quarant’anni da Israele e io ho detto che ci han detto che ricordare è importante e lei ha detto che è immorale che la giornata della memoria si faccia solo per gli ebrei e che non ce ne sia un’altra analoga per i palestinesi e mi ha chiesto se almeno nello spettacolo accennassimo a zingari, omosessuali e disabili come parte integrante della Shoah e io le ho detto che non capivo proprio cosa c’entrassero gli zingari con questa storia e lei ha detto che ero già un piccolo figlio del sistema oscurantistico capitalistico (credo si dica così) e io le ho tirato in faccia un sottopentola e lei mi ha lanciato la scatola dei cheerios e ha detto che comunque la Biffi era di destra e che se avevo le palle quel giorno avrei dovuto non dire la mia battuta per protesta, per sciopero contro la strumentalizzazione del giorno della memoria e io le ho detto di andarsene a fare nel brodo (in realtà non ho detto affatto “brodo”, ho detto “culo”) e che la Biffi mi faceva un mazzo tanto se non dicevo la battuta e poi è arrivato papà, ha alzato gli occhi al cielo e finalmente ci siamo stati zitti e io ho bevuto il latte che era diventata la cosa migliore di quella mattinata del cavolo.
    Sono così concentrato a ricordare il litigio con quella cessa che non mi accorgo del gregge che mi ha spinto sul palco. È tutto altissimo qui, le luci mi accecano, mi sento come quegli animali che in autostrada si ghiacciano di fronte agli abbaglianti, non sono molto felice. Massimiliano F. continua a ripetere la sua battuta come se stesse pregando perché per lui le cose a memoria sono peggio della tortura cinese, io nella mia testa sto ancora rispondendo a quella down di Petra e così metto un piede fuori dal palco, annaspo con le braccia, mi appendo a Massimiliano F. che tira giù una parolaccia orrenda e se Marco P. non ci riacciuffasse per il bavero franeremmo tutti e due giù dal proscenio come zucchine. La voce della Biffi spacca in due l’aria.
    SACCHI!
    Sacchi è il mio cognome. Sento la pelle scivolar giù dalle ossa. Sacchi, vogliamo guardare dove mettiamo i piedi o vogliamo tirar giù dal palcoscenico l’intera classe?
    Si scapicolla paonazza verso di me, è un velociraptor di paillettes la Biffi, voglio morire.
    Vuoi rovinarci lo spettacolo, Sacchi? TI VUOI SVEGLIARE O NO!? EH? VUOI SVEGLIARTI O NO!? O PREFERISCI FARE UNA FIGURA DI CACCA (disse proprio “cacca”DI FRONTE ALL’INTERA CITTA’? EH SACCHI? CHE NE DICI? L’HAI CAPITO O NO CHE QUI SI STA FACENDO UNA COSA SERIA!? L’HAI CAPITO O NO IL SENSO DEL GIORNO DELLA MEMORIA, SACCHI!?
    Questa, nella scala Mercalli delle arrabbiature, è evidentemente un 9500. Giorgia M. ridacchia di me annidata fra le sue amiche. Gli altri mi maledicono tra i denti per aver attirato le attenzioni della brontosaura. Tutto il palazzetto dello sport ha gli occhi fissi sul sottoscritto, mi sembra che anche i tecnici si diano di gomito. Deglutisco lacrime di vergogna. Quando tocca a me a malapena riesco a dire la battuta, è terribile dover apparire quando vuoi sparire.
    Finita la scena mi piazzo sotto il palco a farmi gli affari miei. Odio quando mi viene da piangere.
    Da un buco nei panneggi del sipario vedo la Biffi che soffia raccomandazioni a tutte le classi perché è arrivata la signora deportata. La chiama proprio così, la signora deportata. Mi ero dimenticato che doveva arrivare. La Biffi ha insistito moltissimo perché ci fosse, mi han detto. Vedo due ragazze di seconda che scortano una vecchina microscopica, sarà lei, penso, ha i capelli bianchissimi, le mani lunghe e un golfino di lana scura. La Biffi le galoppa incontro.
    L’immagine del loro saluto viene interrotta dal passaggio di uno stormo di ragazze di terza, quelle che fanno la coreografia di danza. Anche attraverso il buco nella stoffa ne sento l’odore. Borotalco, soprattutto. Conto ventisei tette, otto code di cavallo, ventisei chiappe, cinque chignon, tredici tutù. Non mi piacciono granché quelle di terza, sempre a ridere, sempre agitate. Non ci lasciano mai tranquilli e non capisco in generale cos’abbiano da sghignazzare. Le ragazze sarebbe meglio non crescessero più di tanto, mi sa. Spero che Giorgia M. rimanga simpatica anche da grande.
    Sto quasi per abbioccarmi quando sento macello, vento e grida. Ci siamo. Entra il pubblico. Madonna mia.
    Sento una zaffata di pellicce di mamme, dopobarba di papà, gel di fratellini, lucidalabbra di sorelline lambirmi da lontano. Vedo mamma spettinata, zio Michelangelo col sigaro, quella demente di mia sorella con le cuffie e poco dietro papà che chiacchiera col segretario provinciale. La massa si sguscia dai cappotti fradici e si spalma sui gradoni in una nube malvagia. Mammamia il pubblico.

     

    Abbandono il mio angolo di pace e mi reinserisco in società. Dietro le quinte alcuni compagni guardano i rigori nell’Iphone di Arturo G. mentre altri si dondolano annoiati. Leonardo M. ha dimenticato di togliersi l’orecchino. Massimiliano F. ripete la battuta a bocca chiusa, come una maledizione. Sembrano essersi scordati del mio scivolone di prima, forse sono salvo.
    Si comincia, guaisce una professoressa Franchi che ormai procede per inerzia. Non facciamo figuracce, ansima implorante. Non sono affatto salvo, penso mentre il latte nel mio intestino si ripropone in fitte perfide.
    – Professoressa Franchi, posso usufruire dei servizi?
    La Franchi mi guarda come se le avessi appena rivelato di essere uno dell’Isis.
    – Ma sei completamente impazzito, Sacchi? Dovete andare in scena!
    – Ma prima c’è la recita dei piccoli, prof…
    – Non mi interessa niente. Te la tieni, Sacchi. Te la tieni.

     

    Me la tengo. Per distrarmi guardo la Biffi che presenta lo spettacolo lanciando sorrisi tipo frisbee a un pubblico infreddolito. Ha un tono commosso, da programma televisivo. La signora deportata, (che comunque mi sento molto a disagio a chiamare così) la guarda impassibile dalla prima fila. Quando viene fatto il suo nome, si alza e saluta la sala con un cenno conciso.
    Aprono lo show i piccoli di prima elementare. Dopo aver eseguito un girotondo con musica di Ludovico Einaudi, vengono disposti in fila su fondo del palco e a uno a uno avanzano e pigolano una frase sulla pace nel microfono posto in proscenio. Molti vengono accompagnati per mano dalle maestre, due scoppiano a piangere, sei fan scena muta. Ogni volta che un nanerottolo raggiunge il microfono e ci pasticcia dentro una frase, una selva di tablet, smartphone, fotocamere e droni si erige prepotente dalle file degli adulti. Manco dovesse arrivare Trump.
    Ogni volta che l’omuncolo trotterella via si scatena un applauso. È facile quando sei molto piccolo, basta che esisti ed è già una festa. Mai che qualcuno nei mezzi pubblici si avvicini, per dire, a un vecchio per dirgli quanto è carino. E magari al vecchio piacerebbe. Invece no. Privilegi da carrozzina. Torno a osservare i bimbi. Uno di loro rimane girato per tutto il tempo verso i camerini. Secondo me fa benissimo.

     

    Dall’altra parte delle quinte vedo le femmine e i nazisti bisbigliare irrequieti. Manuel G. e Giorgia M. sono ancora vicini, mannaggia alla miseriaccia ladra. Lui parla e lei ride scuotendo i capelli con quel profumo che vorrei imbottigliare e portarmi via. Secondo me da grande sarà famosa come Jennifer Lawrence, ma adesso la odio perché ha tutta quell’allegria in comune con quell’invertebrato puzzone. Lui le sta facendo vedere un video nel cellulare. Guardo meglio. Lui si accorge che li osservo e gira lo schermo verso di me.
    Non posso crederci. Quella merda ha ripreso il mio scivolone dal palco di pochi minuti prima. Come cacchio ha fatto. Come diavolo fa a girare sempre col telefono in mano, quel bastardo. Conoscendolo, sarò già su Youtube. Manuel G. si rigira verso Giorgia M. con espressione trionfante.
    Mentre i bambini di seconda raccontano al pubblico una storia di semini e di fiori, attiro la sua attenzione sbracciandomi da una quinta all’altra e una volta che mi guarda gli alzo un decisissimo dito medio.
    Lui mi risponde con un gestaccio da b-movie mentre Giorgia M. si copre la bocca, impressionata.
    Io gli faccio capire che gliele darò di brutto. Lui, dall’ombra della tela nera, annuisce e mima un collo che si spezza. Alcuni dicono che Manuel G. abbia un tatuaggio, ma io non ho paura. Cioè, certo che ne ho, ma questo non cambia niente.
    Mentre le seconde elementari lasciano spazio alle terze al suono della canzone de La vita è bella mi chiedo quando e come ci affronteremo. Non mi sono mai menato con gente più grande. Mi assale la solita sensazione dell’animale di fronte ai fari. Forse era meglio farmi i fatti miei. E se oltre al tatuaggio Manuel G. avesse un coltello? Basta che non mi becchi il cuore.
    A questo pensiero il latte nel mio stomaco mette in atto una specie di tzunami. Fanculo la Franchi, penso, e senza farmi vedere scivolo via. Sgomito nel sudore di centinaia di marmocchi travestiti e sbuco nel silenzio dei corridoi. Raggiungo il bagno maschile, dove finalmente trovo pace.

     

    Mentre mi tiro su i pantaloni e lascio che le fitte al ventre lentamente si estinguano, un’esalazione sbagliata mi pizzica i sensi. È un odore che non dovrebbe essere qui: sigaretta. Viene da uno dei gabinetti accanto al mio. Per un attimo lo sottovaluto, poi capisco una cosa e una mano gelida mi strizza le viscere.
    È Manuel G.
    Mi ha seguito e mi ha aspettato.
    Lo sanno tutti che fuma. Mi ha aspettato qui scenerando tranquillamente sul pavimento per darmi una lezione con quel suo coltello da spacciatore e quel suo costume da nazista. Sono finito. Forse si è anche portato il suo fratello pazzo di quarta superiore, quello che ruba gli sgabelli dalla mensa scolastica per tirarli sulla ferrovia. Magari hanno una pistola. Come cacchio mi è venuto in mente di mettermi contro uno di terza. E tutto per una ragazza che forse non è neanche così carina, a pensarci ora, a pochi secondi dalla morte. Non oso fuggire né parlare. Sento dei movimenti, è tutto amplificato, anche il mozzicone che cade a terra e il piede che lo calpesta con uno scatto secco.
    – Va bene, sono qui, esalo cercando di fare una voce da Narcos.
    Nessun movimento.
    – Vieni a prendermi, pigolo senza virilità.
    Ancora niente.
    Dopo qualche minuto da coniglio, la curiosità vince e felpatissimo avanzo fino al gabinetto da cui arriva il fumo. Mi sporgo dentro.

     

    Siede a gambe divaricate sul cesso chiuso. La mano che reggeva la sigaretta abbandonata su un ginocchio, l’altra rattrappita contro il petto, la pelliccia buttata a terra, gli scaldamuscoli tutti scesi, lo sguardo contratto nel vuoto. Il trucco le è colato giù come acquarello, sembra un misto tra il Joker e l’Urlo di Munch che abbiamo fatto a storia dell’arte, ha la pelle stropicciata e le smoccola il naso. L’odore che avevo sempre sentito sotto il suo profumo ora è fortissimo, mi assale come un grido. Non lo so definire.
    La professoressa Biffi, la cannibale, fantascientifica, terrorizzante professoressa Biffi ha le spalle ancora scosse dall’eco di un pianto disperato.
    Io, Sacchi Diego di prima B, sono di fronte a lei. E vorrei essere in qualsiasi altra parte del mondo.

     

    In quel momento realizzo che in realtà io mi sento semprecome una bestia di fronte ai fari. La vita, per me, sono degli abbaglianti che mi impediscono di muovermi. E ho solo undici anni. Intanto lei si è accorta di me. Mi lancia un’occhiata esasperata e farfuglia porca puttana (disse proprio così) nascondendo il viso in una mano.
    Non l’avevo mai visto così da vicino il dolore dei grandi.
    Fa paura.
    Restiamo fermi un tempo infinito, lei con la faccia raccolta in una mano, io ammutolito sulla soglia del cesso. A un certo punto mi dirigo verso il distributore di carta asciugamano, ne srotolo una tonnellata, la bagno con acqua tiepida e torno da lei.
    – Tenga prof, le bisbiglio.
    Lei mi guarda per un attimo, è un animale diffidente.
    – Forza, che tra poco tocca a noi.
    È gelida la mano che afferra i tovaglioli, cerco ostinatamente di non toccarla. Lei inizia a passarsi lentamente la carta sul viso lasciando bricioline bianche sparse sulla pelle. Poi si blocca di nuovo. Fa no con la testa.
    – Forza, prof. Senza di lei non lo possiamo fare.
    Contro ogni mia volontà le porgo la mano. Lei la prende senza guardarmi e si alza, è un’automobile spaccata. Beccheggia sui tacchi come se da un momento all’altro dovesse cadere. Io penso ora svengo. La scorto al lavandino dove finisce di pulirsi. Mentre si trucca le recupero un bicchiere d’acqua dal distributore del corridoio. Aspetto che beva, a piccoli sorsi, che si spruzzi dell’altro profumo, che si accenda un’altra sigaretta, che il suo respiro si calmi. Aspetto, sentendo una cosa rattrappita in fondo allo stomaco. Oggi non so dare un nome a niente.
    Quando ha finito mi guarda, io le faccio un cenno di approvazione perché si è pulita e truccata benissimo, a parte il rossetto che le faccio rimettere perché lo ha sbavato. Spero che non mi abbracci. Non lo fa.
    Quando si è rimessa a posto con tutte quelle paillettes penso che bastava ricordarmi del regno animale per capire come stava. Gli animali esibiscono le voci più acute e i colori più sgargianti in due occasioni: corteggiamento e pericolo. Insomma, è un modo per difendersi. Per spaventare, oltre che per attrarre. E in un certo senso, per gridare aiuto. Anche la risata, se ci pensi bene, è l’evoluzione del mostrare i denti. Era tutto lì.
    Traballiamo fuori dal bagno senza applausi, lei non mi ha guardato quasi mai per fortuna. Il velociraptor che ci ha terrorizzato per mesi ora si appoggia alla parete e respira a mezza bocca prima di rientrare nelle quinte.
    – Mi scusi se sono quasi caduto.
    Glielo soffio lì veloce veloce.
    – E…mi dispiace per…
    Ora mi guarda, quasi con curiosità.
    – …per quello che hanno fatto i nazisti. Cioè…
    Ho detto sicuramente una cretinata, ma volevo capisse che mi importava davvero di quella storia anche se ne sapevo ancora poco.
    – Va bene così, Sacchi.
    Sembra parli da sottoterra, poveraccia. Davvero, mi sorride il vecchio coccodrillo. Va bene così.
    – Prof, Lei è di destra?
    Non potevo non chiederglielo, ma per fortuna non mi ascolta.
    Vai a prepararti, Sacchi.
    Io annuisco, rituffandomi nel famigliare groviglio dei miei coetanei. Resto appoggiato a una quinta, a respirarmi l’odore del teatro, dei ragazzini, delle ballerine, delle scarpe da ginnastica e del borotalco e mi accorgo che la Biffi mi ha lasciato addosso un po’ del suo profumo. Torno dalla mia classe. Fra poco tocca a noi.

     

    Quando la musica di Schindler’s List riempie l’aria e la luce bluastra si muta in arancio entro in scena con gli altri. In controluce vedo fazzoletti salire ai nasi delle mamme e telecamere bippare nelle mani dei papà, sento quella comunista di mia sorella masticare la sua gomma fino all’ultima gradinata.
    La signora deportata è in prima fila. Assiste compassata alla messa in scena del proprio dramma. Ogni volta che la guardo spero che lo spettacolo finisca il prima possibile.
    La fila procede ordinata, sbircio nel sottopalco e la Biffi è lì, ci dirige tracciando in aria i nostri movimenti, dando le spalle al pubblico, pallida. Le battute in tedesco dei miei compagni riempiono più o meno bene lo spazio che ospita questa storia. Mi chiedo se appaio abbastanza triste, adesso. Mentre mi rallegro mentalmente per Massimiliano F. che ha detto la battuta giusta e penso per un nanosecondo alla pizza che ci aspetta post-spettacolo, qualcosa si ribalta. Il pubblico sussulta. Tutto ruota.
    Il pavimento mi schiaffeggia brutale una guancia.
    Ci metto un po’ a capire di essere caduto a terra inciampando nella gamba di qualcuno.
    Ci metto ancor di più a capire che non sono affatto inciampato ma che la gamba di qualcuno, cioè di Manuel G., mi ha volontariamente fatto inciampare. Quel nazista di merda mi ha fatto lo sgambetto. Mi guarda feroce mentre gli altri intorno a me si bloccano. Il ginocchio mi pulsa. La Biffi ci incenerisce dal basso e penso che se non si suicida oggi allora non lo farà mai più e che Manuel G. finirà ad Alcatraz. Riguardo Manuel G., che nel frattempo mi sorride sadico mentre alza il braccio in un lentissimo saluto romano assolutamente fuori copione.
    Mi si accappona la pelle quando realizzo cosa sta succedendo davvero dentro di lui.
    Gli piace.
    Non sta recitando, Manuel G. Fare il nazista gli piace davvero.
    Mi rialzo e gli tiro un ceffone.
    Il pubblico applaude deciso.
    Nessuno sa più come comportarsi, la scena prevedeva che ci facessero inginocchiare in cerchio, urlassero altre cose in tedesco e ci facessero uscire dicendo delle battute copiate più o meno dal libro di storia. Una cosa molto soft, insomma, proprio perché ci sono dei fratellini.
    Il pubblico è in apnea.
    Manuel G. mi fissa sconcertato mentre gli altri nazisti boccheggiano perplessi. Per quanto ottuso, il minchione avverte chiaramente che il pubblico tifa per me.
    Senza convinzione, mi tira uno spintone. Io glielo restituisco.
    Un altro nazista gli mormora qualcosa e lui dopo un attimo, ghignante, con un gesto quasi osceno tira fuori il fucile, fa cenno a tutti di inginocchiarsi e aspetta. Molti si abbassano subito, per amor di spettacolo, ma io no. Resto in piedi, mezzo accecato dai fari. Non mi inginocchierò davanti a questo stronzo. Lui fa un cenno. Io resisto. Gli altri cedono. Lui ripete il gesto. Io resisto. Ho le orecchie di fuoco.
    Penso che mi sospenderanno, che andrò il galera come il conte di Montecristo, ma resto lì. Lui va in crisi perché non è mai stato granché a improvvisare. Frigge di rabbia perchè non cedo. Guarda spaesato gli altri. Io butto un occhio alla Biffi che è più incuriosita che altro, ormai. Un nazista suggerisce sottovoce a Manuel G. di sparare. Manuel G. gli bisbiglia che pensa che però il fucile sia finto. L’altro precisa che infatti intendeva di sparare per finta. Io realizzo che se non sto al gioco tutta l’illusione che abbiamo messo in atto fino a quel momento crollerà. E non può succedere. Stiamo parlando di storia, non di supereroi.
    Lui mima di sparare. Io mimo di essere colpito, barcollo, non stacco gli occhi da lui. Ho le lacrime per la botta al ginocchio. Non cado. Lui mima di sparare ancora. Io prendo un altro colpo, resisto come Clint Eastwood quando muore nei film, che ci mette sempre una vita. Al terzo colpo crollo piegato, guardandolo fisso mentre ansima impaziente. Al quarto colpo sono a terra, ma ci metto ancora un bel po’ a morire. Quando finalmente mi lascio andare sento un moto di dolore nel pubblico e spero che qualcuno abbia la presenza di spirito di portarmi via, perché non è che adesso mi posso rialzare. E mentre sto lì, morto per finta, penso a che diavolo di paura dovevano aver avuto quelli veri, coi nazisti che li tenevano sotto tiro coi fucili veri e tutto il resto. Penso alla signora in prima fila e mi torna in fondo al ventre quella strana vergogna per aver finto la sua storia, come se per qualche motivo non ne avessi diritto.
    Poi mi portano via.

     

    L’ultima parte di spettacolo è una coreografia di tutte le classi, sulle note di Imagine di John Lennon. È il pezzo di cui la Biffi va più fiera.
    La Biffi, al centro del palco, guida. Sembra che le piaccia molto stare sul palco, forse avrebbe dovuto recitare anche lei. È semplice come coreografia, si fanno gesti di amore con le braccia, salutare, abbracciare, cerchio, nuoto, cose così. Mamma lacrima. Mia sorella ride e dà di gomito a zio Michelangelo. La ucciderò.
    Sembra che la Biffi si sia ripresa, ma ormai non ci casco più. Gli adulti non sai mai cosa mettono in scena. Sul proscenio stanno due bambine piccole, una italiana e una africana, che montano per tutto il tempo una pila di sassi bianchi e neri, che la Biffi ci ha detto è un’immagine contro il razzismo. Anche la signora ebrea viene invitata sul palco, non le fanno dire niente, però le danno una sedia. Continuo a vergognarmi e a non sapere perché. Penso che forse era meglio far raccontare lei invece di travestire noi, ma questa è solo la mia opinione.

     

    Finiti gli applausi ognuno riconsegna sé stesso nelle braccia dei genitori. Mi guardo intorno alla ricerca della Biffi e la vedo gesticolare in mezzo a quelli del comune. Ride forte appoggiando la testa sulla spalla dell’assessore alla cultura.
    Manuel G., rinchiuso nel proprio bomber, ballonzola verso l’uscita assieme al fratello pazzo e al padre, un omone alto, con la testa rasata e uno strano, piccolo simbolo a croce tatuato sul collo.
    La signora ebrea, dall’altra parte della sala, siede in silenzio guardando il cellulare. Mi sembra stanca. Vorrei parlarle, ma non so cosa dire.

     

    – Sei stato bravissimo, dice zio Michelangelo rimettendosi il cappotto, molto intenso. Sembrava vera quella scena, così spontanea. Davvero eh, sei un talento. Avrai preso dallo zio?
    Non so cosa rispondere.
    – Dovresti pensarci, a fare l’attore.
    Mai nella vita, penso io, che voglio fare la guardia forestale perché mi han detto che è un posto fisso.
    – Ma quella, continua lo zio accennando alla Biffi, quella va reclusa a vita, sghignazza. Che razza di trashata, che oltraggio al concetto di teatro, che disgustosa manifestazione kitsch. Più che il giorno della memoria ‘sta roba sembrava un incrocio tra Lo Zecchino d’Oro e X – Factor, continua li zio sghignazzando compiaciuto. Io lo ascolto attentamente, parola per parola.
    – Il nazifascismo e la persecuzione degli ebrei sono questioni troppo delicate per usarle per farsi belli, Diego, per strumentalizzarle a scopo puramente egotico, per generalizzarle con questo meschino, disneyano ottimismo irenico (Non so cosa voglia dire irenico, ma lui disse così).
    Insomma, rimbomba lo zio, la gente non dovrebbe proprio per forza scaricare tutte le proprie frustrazioni sul teatro.
    Mamma ride a lungo. Mamma ride moltissimo alle battute di zio Michelangelo, quando c’è lui è sempre allegra. Lo zio Michelangelo, mi rendo conto solo ora dopo questa giornata carica di epifanie, si comporta con mamma come Manuel G. si comportava prima con Giorgia M.
    Confuso, li osservo parlare.
    – Non biasimarla troppo, Michi (Michi!?). Non è stato facile oggi per lei, povera Biffi, non hai visto chi c’era in prima fila, un po’ sulla destra?
    – Chi, cara? Steven Spielberg?
    – Ma no, scemo (Scemo!?). L’ex marito, con la nuova compagna. Incinta. Pare che fra le bimbe di terza media ci sia una cugina della ragazza, così non si son fatti scrupoli a venire.
    – Stai scherzando!?
    – Per niente. Non hai visto quant’era gonfia? Sarà minimo all’ottavo mese.
    – Ma avrà ventun anni, quella ragazza lì.
    – Ventun anni bastano a rimanere incinta, Michi (Michi. Sempre Michi. Ma dov’è papà?).
    – Poveraccia, sarà stata distrutta a vedersi lì davanti l’ex marito. Però, insomma, prendersela con la Shoah…
    – Sei inqualificabile, Michelangelo, annaspa mamma piegata in due dal ridere.

    Ma cosa c’è da ridere? Ma l’hanno capita la storia che abbiamo raccontato? L’hanno ascoltata, almeno? Boh. Mi viene da vomitare. Papà è da qualche parte col vicesindaco, mia sorella per fortuna sta al telefono. Gli adulti son tutti fuori. Fuori come mine. Ma io no. Io non starò più come un animale di fronte ai fari. Voglio chiarezza. Mi dirigo verso Giorgia M. che mangia un pacchetto di crackers.
    – Bella la tua scena, Sacchi, mi sorride stupendafascinosabellissima.
    – Lo so che…cioè. Annaspo. Non è facile.
    – Cosa?
    – Lo so che non ho nessun tatuaggio e nemmeno un gran senso dell’equilibrio, Giorgia, ma io non ti lascerei mai per una più giovane.
    – Cosa!?
    – Davvero. Per me vale. E varrà sempre, credo. Comunque… a lungo. Ecco.
    Lei mi osserva, muta, per un lasso di tempo paragonabile a un anno.
    – Non sei male Sacchi, dice alla fine, ma non posso farti promesse così a lungo termine. Non adesso, quantomeno. Nella vita bisogna fare molta esperienza prima di operare scelte definitive. Me l’ha detto mia madre. E comunque al momento mi vedo con qualcuno.
    – Manuel G., sospiro io, sconfitto.
    – Ma no, scemo (Scemo!?). Pierfrancesco L. Non lo conosci, va alla steineriana.

     

    L’ultima cosa che voglio dire sulla giornata della memoria è che dopo lo spettacolo eravamo tutti in macchina verso la pizza, quel giorno lì. Il papà aveva detto che era vera quella storia di zingari, omosessuali e disabili che aveva tirato fuori mia sorella. A noi non l’aveva detto nessuno, chissà perché. Lunedì devo ricordarmi di parlarne con la Biffi, pensavo.
    Mia sorella chattava con qualcuno a labbra strette. Mamma messaggiava con qualcuno che temevo proprio di sapere chi fosse, visto che ogni due per tre soffocava una risata. Io non messaggiavo con nessuno perché lo smartphone me lo comprano a tredici anni, han detto, quindi guardavo fuori dove era tutta pioggia scura e pensavo all’increspatura della pelle del latte.
    L’indomani, che era domenica, avrei dovuto scrivere un pensiero su questa giornata qui. Una riflessione personale, han detto. Vorrei dire la verità, cioè che mi è piaciuto studiarla ma non mi è piaciuto recitarla, questa storia. Questo lo vorrei dire. Soprattutto perché lì c’era una persona vera.
    Vorrei dire che è molto difficile fingere una cosa davanti a qualcuno che l’ha vissuta. Che esistono cose così grandi che come fai a dirle. Questo penso di poterlo scrivere. E poi vorrei dire che non ho ancora capito tutto di questa storia, quindi appena cresco la studierò meglio, perché una cosa è certa, le cose brutte vanno sapute, così la prossima volta si evitano. Queste sono le cose che scriverò.
    Il resto lo terrò per me.

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    110 commenti su “Il giorno della memoria
    >> racconto”

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