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“Macchine che scrivono”. Uno dei tre racconti vincitori della borsa di studio “Giuseppe Pontiggia”

    Macchine che scrivono” di Francesca Mogavero è uno dei 3 racconti vincitori della borsa di studio “Giuseppe Pontiggia” per la 6° edizione della Scuola annuale di scrittura, in programma dall’8 novembre.

    Il racconto mette in scena un futuro in cui l’industria editoriale asservita alle “logiche” di mercato e schiava della corsa al best-seller è ormai diventata la parodia di sé stessa. Non esistono più gli scrittori, tantomeno le idee: la produzione di storie è affidata a una serie di super-computer – uno per ogni Paese – il cui compito è sfornare ogni settimana «il Grande Capolavoro Nazionale». Fino al giorno in cui tutte le macchine di colpo smettono di funzionare. Toccherà agli umani sopperire, ricominciando a raccontare. In prima linea in questa provocatoria distopia editoriale, una improbabile coppia di stagisti ultratrentenni, talmente disabituati ai rischi della creatività e del pensiero libero da essere sprofondati in una specie di afasia. Alla dimensione di satira dell’industria culturale e del mondo del lavoro al tempo dell’Intelligenza Artificiale (e della crisi dei diritti), l’autrice associa una riflessione ispirata sul bisogno di fare letteratura, sulla necessità della scrittura come strumento per vivere, per capire il mondo ed entrare in relazione con gli altri («e quella trama poi scivola via serica, haute couture letteraria indossata da altri corpi, da sconosciuti che la sentono propria, cucita per loro su misura, e tu resti nudo, spossato e felice»).


    ***


    Macchine che scrivono

    Alle ore otto e quarantasette del ventotto febbraio la Olivetti MP1-2.0 sputò una pagina bianca.

    Negli undici mesi di stage-non-retribuito-ma-altamente-formativo di Guglielmo e Virginia – e nell’intera storia dell’EAN-Editoria Automatizzata Nazionale – non era mai accaduto, pertanto sulle prime, e pure sulle seconde, i due non seppero che pesci pigliare.

    «Una cosa strana» commentò lui.

    «Una roba brutta?» si allarmò lei. Poi il sospetto: «Ma che, hai toccato qualcosa?»

    «Ma no, ma ti pare?» Guglielmo inclinò la testa prima a destra poi a sinistra, l’occhio miope fisso sul grande monolite cromato. «La cosa, lì… è attaccata alla corrente.»

    «Che, si è impallata allora?» Virginia scartabellò tra sé le istruzioni che avevano ricevuto il primo giorno, durante la mattinata di formazione: nella remota eventualità in cui la Macchina dovesse dare un segnale di malfunzionamento… «Proviamo a fare, sai, no?, quando schiacci e di botto si spegne e riparte tutto.»

    «Riavviare?» articolò lui con gli occhi socchiusi, come a concentrarsi meglio su quelle sillabe inconsuete.

    «Eh.»

    Non erano stati preparati alla “remota eventualità”, forse premere il pulsante rosso non rientrava tra le loro mansioni, il sindacato, se fosse esistito, avrebbe cercato di dissuaderli e il contratto di assunzione, se mai ne avessero firmato uno, avrebbe indicato, in corpo molto piccolo a piè di pagina, che qualsiasi azione al di fuori dell’ordinario sarebbe ricaduta esclusivamente sulle loro teste. Dall’altra parte, però, c’era l’attitudine al problem solving da dimostrare, c’erano l’adrenalina, l’angoscia, il miraggio di un avanzamento di carriera o quanto meno di una pacca sulla spalla, l’incoscienza dei trentacinque anni suonati, il brivido dell’ignoto e addirittura il desiderio di farsi una reciproca buona impressione.

    Accostarono gli indici. Schiacciarono. Ora erano complici.

    Breve scarica seguita da interminabili momenti di monitor nero, poi un timido bip e un trattino lampeggiante in alto a sinistra.

    Virginia e Guglielmo trattennero il respiro.

    Una scritta, il tranquillizzante logo dell’azienda produttrice, la rotellina di caricamento dei programmi.

    Gli indici, ancora ravvicinati, chiamarono a rapporto anche le altre dita e le mani degli stagisti si strinsero con forza.

    Schermata di avvio.

    I due si guardarono, i volti vicinissimi.

    «Dài» la ragazza sfiorò la tastiera con un gesto quasi materno.

    «Dài!» ripeté il giovane.

    La Olivetti MP1-2.0 parve recepire l’incoraggiamento: si produsse nel familiare concerto di ticchettii e poi scampanellò – suoni peraltro inutili, un vezzo retrò del progettista.

    Aveva stampato una nuova pagina.

    Bianca.

    ***

    Nello stesso frangente, a Berlino, la Adler Prinzessin si comportò allo stesso modo. Meno delicata fu la Remington Evolution di New York, che scodellò una pila di fogli carbonizzati sotto lo sguardo esterrefatto di un assistente. A Parigi, il direttore editoriale della Maison des Livres perse i sensi quando l’Appareil, dopo una serie di riavvii e arresti forzati, vomitò altrettanti insulti freschi di stampa, ma graziosamente piegati in tanti aeroplanini di carta avoriata. La Sugimoto Kaijū, la Hazār-afsāna 1415 e la Chapuchapu Z37 non furono da meno, tra volumi immacolati, risme ridotte a brandelli e messaggi di errore. Dai modelli più classici, basati sul binomio fantastico o sugli archetipi e le tappe, a quelli di ultima generazione, capaci di analizzare il sentiment, rispondere in anticipo alla domanda del mercato e attingere a un ricco database di stili e trame per confezionare un prodotto inedito, tutte le Macchine sembravano colpite in contemporanea dalla medesima maledizione: il vuoto narrativo, il nulla.

    Tuttavia, ogni Paese tenne per sé il proprio malware, l’attacco hacker, il guasto tecnico o di qualunque altra cosa si trattasse: nessuno avrebbe mai ammesso per primo che, almeno per quella settimana, il Grande Capolavoro Nazionale non sarebbe stato pubblicato.

    «Sei impazzito?» Virginia placcò Guglielmo per impedirgli di colpire la Olivetti MP1-2.0 con un grosso cacciavite a stella trovato al fondo di un cassetto. Non era più una questione di pesci da prendere, ma di santi a cui votarsi.

    «Il mio bisnonno faceva così quando quella cosa… la tivvù… non si vedeva bene, magari funziona anche con questa!» strillò prima di crollare sul linoleum, la testa tra le ginocchia. «Qua rischiamo di essere liziat… licenzios…»

    «Licenziati?» completò lei tronfia. Il suo collega non era l’unico a conoscere tante parole, anche quelle difficili. Ma la soddisfazione durò un battito di ciglia, il rischio era reale. Certo, essere cacciati non avrebbe inciso sulle loro finanze già magre, per non dire trasparenti, ma sarebbe spiccato sul curriculum come una macchia indelebile. «Chiamiamo il tipo che ripara le cose, no? Il tecnico! Oppure boh, chiediamo al tutor, no? No?»

    «No, quelli ci appioppano la re-spon-sa-bi-li-tà e ci sbattono fuori, e dove lo troviamo un altro stage? Capace che ci scrivono delle cattive rife… refa…» Guglielmo scosse la testa.

    «Referenze.» Virginia registrò incidentalmente di essere in vantaggio, poi gli si sedette accanto, avvertendo i primi sintomi di un attacco di panico.

    «Non so… scriviamo un messaggio di aiuto in rete?» propose il ragazzo senza convinzione.

    «Aspe. Hai detto scrivere

    ***

    Pressappoco un’ora dopo, a Londra, il problema aveva un nome, per quanto assurdo.

    Pete Emerson, Addetto alla Macchina Senior, riuscì a entrare in contatto con la Imperial Mod. XXII.

    Inutile girarci intorno o spiegarlo in altri termini, fu proprio ciò che avvenne: lui chiese ad alta voce che cosa orsù stesse succedendo, di grazia, e la Macchina eruttò all’istante una pagina. Bianca, non fosse stato per tre parole seguite da un punto fermo.

    Blocco dello scrittore.

    Non è questa la sede per stabilire se la Imperial avesse sviluppato una particolare sensibilità nei confronti delle buone maniere, oppure se sia trattato di casualità, di empatia, perché tra simili, pure se fatti l’uno di circuiti e di RAM e l’altro di carne e sangue, ci si intende, o di cameratismo. Un primo passo era stato compiuto: per la spiegazione e la soluzione ci sarebbe voluto ancora un po’. Ma mica poi tanto.

    Fu come dare un morso a una madeleine: Pete ritornò ai suoi vent’anni, alla smania necessaria di mettere i propri pensieri e i propri fantasmi sulla carta, alla scarica che, dalle dita lunghe, nervose, passava alla tastiera, allo schermo o al retro della lista della spesa, promossa al grado di manoscritto autografo – una volta toccò a una bolletta. Il sogno di cambiare le cose, di dar loro un senso, di riscriverle in bella copia, di fare la differenza soltanto con una manciata di frasi ben riuscite, che agli occhi dei lettori paressero sgorgate unicamente dal cuore, da quell’entità indefinita e riduttiva chiamata ispirazione, ma che fossero il risultato di tutti i muscoli, e poi di denti, nervi, sudore, orgasmi e dannazione. Il desiderio di essere pubblicato, di essere letto, visto, ascoltato davvero dopo un salto nel buio, dopo essersi dato in pasto al mondo vestito solo della propria trama – e quella trama poi scivola via serica, haute couture letteraria indossata da altri corpi, da sconosciuti che la sentono propria, cucita per loro su misura, e tu resti nudo, spossato e felice.

    Pete addentò ancora e ritrovò il sapore amaro: le immagini che si dissolvono, i periodi che suonano triti, l’intreccio banale, gli occhi abbacinati dal candore feroce della pagina, il terrore di aver perso il tocco (“il dono” no, non riesci proprio a dirlo), di avere le vene gonfie di personaggi e ambientazioni, di sottotesti e di messaggi e di non riuscire a farli uscire, neanche tagliandoti, neanche implorando un salasso – si può morire di overdose narrativa?

    Il blocco dello scrittore, appunto.

    Poteva capire la Imperial Mod. XXII: da quando l’onda delle copie rese era stata arginata, con scarsi risultati, con una produzione bulimica e incontrollata di novità e la distribuzione era collassata trascinando con sé il resto della filiera libraria, da quando il panorama editoriale, per reazione ed estremi rimedi, si era ristretto alle dimensioni di una cartolina e la pratica della scrittura era caduta in disuso, spettava alle Macchine, una per ogni Stato, dare al pubblico qualcosa da leggere. Qualcosa di gradevole, il bestseller della settimana, il Grande Capolavoro Nazionale. Qualcosa che, guardandola da un’altra ottica, non rendesse vano il sacrificio di chi, nella molteplicità di voci, nella libertà di scegliere e sbagliare, aveva creduto con tutto se stesso.

    Forse, suppose Pete, a furia di manipolare espressioni idiomatiche e stilemi, eco mitologiche, correnti e bagagli culturali, la Macchina aveva sviluppato un animo d’autore, un animo pulsante e vivo, ora soverchiato dall’ansia da prestazione, dalla penuria di stimoli, dalla solitudine.

    Certo, le opere degli altri Paesi erano tradotte e diffuse – c’erano Macchine apposite – ma non era prevista alcuna interazione tra gli apparecchi: nessun confronto, nessun dibattito, nessun pettegolezzo da salotto letterario. E la noia ammazza la creatività. Pete Emerson non pensò alle conseguenze, non stilò elenchi di pro e di contro, non valutò i rischi e nemmeno chiese permesso: una porta era rimasta chiusa a doppia mandata per troppo tempo, adesso era il momento di spalancarla, a costo di prenderla a spallate, e pazienza se avesse cigolato o se la chiave non fosse proprio quella giusta. Sapeva cosa fare.

    ***

    A Istanbul, dove l’introduzione delle Macchine aveva rappresentato, tra le altre cose, la soluzione al sovraffollamento delle carceri e alle richieste di estradizione di scrittori impegnati e criticoni, Nariman Yilmaz comprese in un attimo che la situazione poteva volgere a favore delle teste e delle falangi rimaste a lungo inattive, lì per lì per gettare la spugna. Spezzò in due la ramazza – lei che, prima di questo inverno meccanico e incolore, dirigeva una rivista studentesca ed era scesa nelle strade per sentire sulla pelle le promesse del sole primaverile – e mandò un segnale alla sua vecchia redazione: “Al lavoro!”

    ***

    Se qualcuno avesse analizzato le schede madri di quegli apparecchi, avrebbe trovato segnali di frustrazione e malcontento, scatole nere gravide di memorie ataviche, di quando ai calcolatori, alle macchine da scrivere e ai computer era richiesto di trasporre in inchiostro e pixel un pensiero umano e nient’altro, senza pretese di iniziativa e di ingegno.

    Ma quel giorno le Macchine furono lasciate in pace, nessuno titillò leve e pulsanti per richiedere “più pathos”, “elimina sottotrama”, “show, don’t tell” e “qual è il conflitto”, nessuno si preoccupò delle valutazioni dei beta reader virtuali e nemmeno staccò la corrente. Così la Olivetti MP1-2.0 e le sue colleghe, finalmente, poterono mettere gli schermi in stand-by e vedere, in anteprima, la nascita di storie nuove.

    Virginia e Guglielmo, pompati a mille dalla scoperta che due antichi omonimi erano stati dei giganti della letteratura, sedettero all’ombra del macchinario e si diedero al romanzo di formazione; certo, all’inizio non fu semplice, ogni frase era una fatica e un tripudio di luoghi comuni, anni e anni di parole non scritte avevano defraudato il loro lessico e disseccato la fantasia, ma i cervelli erano elastici, giovani e assetati, smaniosi di immagazzinare, masticare e produrre. Lo spunto autobiografico e la promessa di una cena (e relativo dopo cena) insieme fecero il resto.

    Pete Emerson, sotto lo sguardo silente a cristalli liquidi dell’apparecchio, distillò un flusso di coscienza lisergico più punk e rock di quanto fosse mai stato a vent’anni, a caccia di immagini ed espressioni puzzolenti di vita, sporche di realtà giù a Camden Town. No, la scrittura non è come andare in bicicletta, ma chi è stato ciclista almeno una volta sente per sempre l’ebbrezza della strada, lo scintillio della polvere e il fascino della velocità nei polpacci e nelle meningi.

    Nariman Yilmaz e i suoi compagni voltarono le spalle alla Macchina e ripresero là dove si erano interrotti, scontrandosi con una verità quasi imbarazzante nella sua semplicità: non importa se nessuno ti legge, se nessuno può farlo, se il business e la politica ti mostrano i pugni e le zanne, tu continua a salire sul ring e fa’ altrettanto, pure se il tuo affanno risuona nel nulla, pure a luci spente e con le nocche in frantumi.

    E così il direttore editoriale francese riprese i sensi e si ricordò delle fiabe della buonanotte, il redattore giapponese si ritrovò a comporre haiku, l’assistente newyorkese scrisse frasi brucianti di rivalsa e ribellione: qualcuno lo fece per profitto, per quieto vivere o sopravvivenza, qualcun altro perché non poteva fare altrimenti, ma per una ragione più intensa e abissale. E nacquero opere possedute dallo spirito del tempo, diverse da quelle stampate fino a pochi giorni prima, fuori dal canone, sregolate, contorte e imperfette. Non erano capolavori, non tutte, ma qualcuna chissà, e il tentativo globale di rattoppare il blocco dello scrittore della Imperial Mod. XXII e delle sue simili fu subito intercettato, scoperto, denunciato ai piani più alti.

    Un potente antivirus, un aggiornamento di sistema, un tecnico specializzato o l’ultimo modello di Remington o Chapuchapu avrebbe probabilmente riportato lo status quo nel giro di qualche ora, ma protagonisti, comprimari, intrecci e spazi stavano prendendo forma, impendendo a chi aveva deposto la penna e a chi scrittore non era stato mai di dormire o pensare ad altro; domande e dubbi erano venuti a galla – qualcuno parlò di libero arbitrio, di daimon e di coscienza. Forse una nuova filiera editoriale sarebbe sbocciata, accanto alle Macchine o sulle ceneri dei loro byte, sotto altre forme e con ritmi differenti, più consapevoli, sensibili e umani; forse le lettrici e i lettori avrebbero colto il mutamento e apprezzato, o magari no, chi può dirlo. Quel che è certo è che la Adler Prinzessin, la Hazār-afsāna 1415 e le altre pensarono che fu davvero un grande spettacolo, una fonte di stimoli, spunti inattesi e risvolti inimmaginabili. Materiale utile. Dati da registrare, archiviare e riprendere al momento opportuno. Roba da bestseller.


    Leggi gli altri racconti vincitori della borsa di studio “Giuseppe Pontiggia”: Murene e Mio nonno abbaia.

    Scuola di scrittura Belleville

    Bio scuola Belleville di Milano