Dal 4 al 5 dicembre 2021 si è svolta la settima edizione del premio letterario “Laventicinquesimaora.” dedicato ai racconti brevi. Ciascuno dei partecipanti – più di 650 – si è cimentato nella scrittura di un racconto di massimo 3.600 battute ispirandosi alla traccia: «La fine è nota. Scrivete un racconto che cominci dalla fine e finisca con l’inizio.»
La giuria composta da Giulia Caminito, Francesca Cristoffanini, Giacomo Raccis e Michele Turazzi ha scelto i tre racconti vincitori.
Il terzo classificato è Quando fuma la campagna di Emmanuela Dell’Osso: il racconto ruota attorno a un fatto di sangue avvenuto nelle campagne calabresi nei primi anni Ottanta, procedendo a ritroso per ricostruire non solo la dinamica ma anche l’ambiente del delitto – una campagna contrastata, luminosa e oscura al tempo stesso. Con poche pennellate l’autrice tratteggia la personalità delle vittime e dell’assassino, di cui descrive le azioni con lo sguardo del testimone esterno svelando solo nel finale il movente del delitto. Grazie alla sapiente messa in scena e al nitore della lingua, il delitto – raccontato al narratore da suo nonno – supera i confini della cronaca acquistando un’aura mitica, leggendaria.
Questi i finalisti selezionati dalla redazione di Belleville:
Laky di Francesco Beneggi
Il campanile di Preloka di Joshua Evangelista
Come ti volevano di Francesco Ferlisi
Nove mesi di Elisabetta Foresti
La testa di Giovanni Frigione
Andare per fossi di Maria Laura Martelli
Noe è morto e anche io non mi sento tanto bene di Giovanna Pesci
A mali estremi di Fabio Pisano
Uno sopra di Yannick Pozzo
Di crepacuore di Fabio Reato
Muore annegata di Anita Sorrentino
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Quando fuma la campagna
Il nonno diceva che la campagna fuma solo in agosto, col solleone. Ma non era vero, anche la mattina del sei luglio del 1982 fumò. Gli spari esplosero che ancora dormivo.
Ci aveva messo solo un paio di minuti, Michele. Era ritornato indietro, scusandosi con Mario e le due donne per aver dimenticato qualcosa nel motocarro, parcheggiato una ventina di metri prima. Aveva spostato il telo azzurro, aveva cercato sotto gli attrezzi, cercato ancora, poi aveva afferrato il fucile da caccia. Si era diretto verso gli altri pestando il passo. Aveva imbracciato e aveva sparato due colpi.
A Paola mancò il fiato per qualche secondo. Rimase immobile, forse per la prima volta in tutta la vita. Spezzi pure l’aria, le diceva sempre suo marito Mario osservando i movimenti rapidi e nervosi con cui stirava, passava la salsa di pomodoro, cuciva, si sistemava la gonna, amava.
Il fumo saliva dalla canna del fucile. Paola si guardò le scarpe impolverate. Donna Lisa era lì a terra, gli occhi sbarrati, i capelli castani legati sotto il fazzoletto e i palmi rivolti in su. Era la prima volta che una parte del suo corpo guardava verso l’alto. Era nata blu, si era sposata non più giovane con Michele Vicita e nell’Ape occupava uno spazio esiguo. Si stringeva sul sedile, si stringeva sotto il tettuccio, tra la portiera e il volante. Le altre donne accennavano il buongiorno alzando il mento, lei lo abbassava.
Accanto a donna Lisa, anche Mario era a terra, senza vita. Il viso abbronzato di muratore, le spalle larghe. Mario svegliati, gli aveva detto Paola quella mattina, ché dobbiamo andare a Cosenza dai miei genitori. Erano usciti che il sole brillava sul tettuccio della loro Simca. Saranno state le sei e mezza. Nella piazza del paese c’erano due galline e tre signore in fila, dirette al mercato di San Francesco. Era lì che la Simca aveva incrociato l’autocarro di Michele Vicita.
«E proprio a voi cercavo, don Mario».
«Buongiorno! A me cercavate?».
«Eh! Venite, vi voglio portare al terreno, tengo bisogno di nu riggett».
Il riggett, mi spiegò il nonno, era una piccola costruzione in mattoni, un riparo. Dall’orto se ne potevano contare sei o sette in tutta la campagna. Cosa o da cosa riparasse, non era sempre chiaro.
«E va bene, don Miche’! Vi seguiamo!», rispose Mario.
«Veramente, a Cosenza dobbiamo andare…», sussurrò Paola al marito.
Attraversarono il paese, svoltarono alle Poste, presero la salita del lavatoio e proseguirono verso la campagna, dove la collina si ingrossava, pronunciando i fianchi.
Arrivarono all’appezzamento. Scesero. La polvere si alzava dai cumuli dorati. La polvere a volte sporca a volte lava, diceva il nonno.
«Di qua, venite, venite!», incitò Michele a passo svelto.
Mario teneva la mano alzata per ripararsi dal sole. Dietro, l’agile moglie Paola e a fianco, donna Lisa, la testa bassa e le guance strette nel fazzoletto.
«E non ci vuole molto, signora mia», disse Michele sorridendo a Paola «portate pazienza».
Porta pazienza, Paola, che ti voglio bene, le aveva detto un giorno a scuola. Erano nella stessa classe. Lo stesso sorriso, pieno e fin troppo insistente, la aspettava fuori dal portone per accompagnarla a casa, le recapitava lunghe lettere senza punteggiatura e cercava spesso di abbracciarla.
Aveva sorriso anche dopo aver sparato, prima di piegarsi sulle ginocchia e lasciar rotolare l’arma. Nessun riparo venne mai costruito su quel terreno e se in paese si parlò di quel fatto, lo si fece sottovoce.
La campagna di campi d’oro e di sabbia quando fumava prendeva il colore del buio.