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Il poeta che legge di Francesco Targhetta/1

    Francesco Targhetta, scrittore e poeta italiano, dall’8 al 29 ottobre sarà il “Poeta che legge” su TYPEE: ogni appuntamento video, della durata di cinque minuti, sarà dedicato alla lettura e al commento di tre poesie, sulle quali Targhetta offrirà consigli, suggerimenti, spunti e approfondimenti di lettura.


    Capitolo 1


    Monologo, di Arthur Yorg

    Nella Bibbia scrisse che si sarebbe ucciso col gas. La Bibbia era nel quarto cassetto di casa mia. Il tipo morì in quel modo per davvero.
    Non ho mai capito
    perché avessimo noi quel libro.
    Poi sparì la Fiat Croma.
    Io sognavo gli Incappucciati con la pistola. Poi sparì mio padre.
    Mia madre non aveva un lavoro. Pianse tante volte. E l’aria di casa pesava come la neve quando si accumula sui rami
    finché non si spezzano.

    L’ho vista con questi occhi la fine, tante volte. Un punto di non ritorno.
    Il terrore di restare per terra e non rialzarsi più.

    Mio nonno tentò due volte di suicidarsi,
    una volta da bambino accoltellandosi
    e una volta da anziano: tentò di buttarsi di sotto, dal balcone di casa sua. Mio nonno parlava alle piante, le accarezzava e loro rinascevano.
    Mio nonno sollevava macigni nella cava
    a mani nude. Non l’ho amato abbastanza. Non so amare gli altri.
    Ma ricordo tutto, le espressioni del viso, ogni parola, il suo odore e tutti gli incredibili racconti.

    L’ho letta tutta quella Bibbia alla fine
    ma Yahweh non mi piacque neanche un po’. Ha fatto ammazzare troppa gente.
    Poi strappai le pagine del suicida
    e regalai la Bibbia al benzinaio
    che lavorava vicino alla mia libreria.
    Quando chiesi alla prof di religione
    cosa pensasse dell’Anticristo di Nietzsche
    mi rispose che certi libri
    non andavano nemmeno nominati.
    Fu così che mi innamorai di Nietzsche,
    da lui finii a Pound e D’Annunzio,
    poi scoprii Bukowski e con lui Dostoevskij e i russi
    poi Fante e i Beat, Miller, Hemingway.
    La poesia migliore mai letta è italiana.
    Ungaretti non ha eguali.
    Dickens è un gigante.
    E mi fa ridere chi pensa di insegnare a scrivere poesie.

    “Tu sei buono”, mi disse.
    “Ah, non mi conosci bene” risposi.
    “Gli occhi sono buoni, gli occhi non mentono mai. E poi gli animali ti saltano addosso e i bambini pure. Sono segnali evidenti” rise.

    Imparare ad amarsi è complicato,
    di solito si riduce tutto a una messinscena
    per non ferire
    per non creare disagio
    per evitare
    per accontentare/accontentarsi
    per paura di sé
    per non perdere cose;

    nella Bibbia scrisse che si sarebbe ucciso col gas (e lo fece),
    mio nonno vinse la sua guerra
    e tornò a piedi dal Piemonte
    sopravvivendo col piscio dei cavalli:

    “Il trucco fu rendersi invisibile – mi disse – essere ombra nell’ombra,
    stare come i fili d’erba
    al passo del vento”



    Questa sola dolorosa cosa, di Cecibraci

    In vent’anni una sola volta
    una volta sola
    ti sono venuta a trovare.
    Ti ho cercato nella scacchiera fiorita
    di una città immobile, senza curve,
    contando a uno a uno i piani,
    la toponomastica stravolta,
    ceduta a lettere e numeri romani
    Ho provato un affetto immediato
    per tuoi sconosciuti vicini
    sorteggio di uno slow-date casuale
    nell’eterno condominio per età
    variegato, per benevolenza
    o meno, di mai scelti destini,
    mentre mi guardavi
    dall’ovale incredulo
    come ci fossi finito per caso,
    fra quei bianco e nero sbiaditi
    per un errore di appello,
    una distrazione, uno scherzo malevolo.
    Scusami è che in vent’anni
    ho avuto così tanto da fare,
    resistere alle rapide dei pianti,
    la diga del dolore da presidiare.
    E già la camera stagna trasuda
    mentre percorro con le dita il braille
    delle tue poche vocali in bronzo
    le montagne russe delle tante consonanti.
    Quanto è concreto, disarmante
    il proprio cognome anticipato
    su un marmo, non ci avevo pensato,
    in quel giorno ovattato e sfiancante
    quando il venditore di posti riservati
    per l’ultimo viaggio ci disse
    scegliete questo
    ci batte il sole tutto il giorno
    e noi come idioti
    quanto ridemmo piangendo
    per quell’assurda frase pietosa.
    In vent’anni sono riuscita a portarti
    una rosa sola
    questa sola rosa.



    La misura del tempo, di Roberta

    La misura del tempo sotto i piedi sospesi
    quando siedi nel tuo altalenare
    di ciabatte, alle sette per cenare
    e dici ho fame, in quell’aria smossa
    sotto la sedia profumata di shampoo
    e di fiori, nella distanza tra l’adesso e il pavimento
    sta questo momento imperlato di pane
    statuine di mollica e parole nuove, sta
    il futuro.

    Francesco Targhetta
    Francesco Targhetta

    È nato a Treviso nel 1980 e insegna lettere alle scuole superiori. Nel 2014 ha vinto il Premio Delfini e il Premio Ciampi (da cui la plaquette "Le cose sono due", Valigie Rosse, 2014). Il suo libro in versi "Perciò veniamo bene nelle fotografie" (2011 e 2019) è stato fra i tre finalisti del Premio Internazionale Flaiano per la narrativa opera prima e fra i cinque finalisti del Premio Carducci. Curatore della riedizione de "Gli aborti" di Corrado Govoni (2008) e autore della raccolta di versi "Fiaschi" (2009 e 2020), nel 2018 ha pubblicato la sua prima opera romanzesca tout court ("Le vite potenziali"), aggiudicandosi il Premio Selezione Campiello nello stesso anno.