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Domenica d’agosto: “La Perfetta”

    D’estate i protagonisti di romanzi e racconti – ma anche di film, serie tv e fumetti – vivono esperienze rocambolesche o drammatiche, scoprono se stessi, stringono nuovi legami, fanno i conti con il passato.
    Per celebrare la stagione narrativa per eccellenza, Belleville ha chiesto ad alcune allieve e allievi di cimentarsi in un racconto estivo.

    Dopo le storie di Annalisa Maitilasso, Stefano Adesso e Francesca Perticone, è la volta di tre racconti agostani, che pubblichiamo sotto il titolo Domenica d’agosto. La seconda storia è La Perfetta di Agostino Bimbo, allievo del corso serale Scrivere di notte con Federico Baccomo, Simona Vinci e Marilena Rossi.

    ***

    Dopo quarant’anni di affitto un giorno in più non fa differenza. Perciò le chiavi dei locali in via Volturno, al proprietario, possono consegnarle il dieci agosto, l’undici. Pure il primo di settembre.

    Ma è stata un’idea di Isa venire a sbrigare tutto di domenica. Ha detto: Buttiamo via ciò che c’è. Controlliamo se le trapunte sono state ritirate, se qualche giacchetto è ancora appeso al nastro. Un cencio in terra, e si chiude. Si lascia tutto a modino. Così stasera si va a mangiare il risotto a Marina di Pisa con la Lullo e la Daria. Te lo ricordi, Marta, che stasera si va al Bagno Balena?

    Me lo ricordo, sì, ha risposto sua sorella. Ma in lavanderia, di domenica, ci si deve proprio andare?

    Vedrai: in un’ora è bell’e fatta.

    Non credo proprio, Isa.

    E hanno continuato così tutto il sabato sera. A litigare. Il loro modo scomposto per festeggiare l’arrivo della pensione.

    Adesso nessuno parla: Isa è sul retro a raccogliere grucce, Marta al bancone con la solita espressione imbronciata a rovistare nei cassetti, a borbottare mentre strappa una vecchia ricevuta. La saracinesca è sollevata per metà; l’ombra delle lettere appiccicate alla vetrina si proietta sul pavimento: Cessazione attività. Ultime consegne capi lavati: maggio 2014.

    Eppure sono arrivate ad agosto, le benedette ultime consegne. Quando ha letto l’annuncio, la gente del quartiere sembrava impazzita, non smetteva di portare roba: Una trapunta ancora, un cappotto, si può? E come si fa quando chiudete? I pellicciotti non li porto mica altrove… E ora?

    E ora si va in pensione, finalmente, ha risposto Marta a un centinaio di clienti nell’ultimo mese che rovesciavano senza garbo i loro sacchi di abiti sul bancone. Si chiude, finalmente, dopo quarant’anni di lavaggi. Che non ce la si fa più, signori, soprattutto d’estate.

    Il caldo, per Marta, è un vero supplizio. Le si gonfiano le mani – sempre più rosse, sempre più nodose. E non è un piacere strofinare tessuti imbrattati, candeggiare, caricare e scaricare cestelli fumanti con le dita in fiamme. E la fronte che sgocciola, le braccia che affondano nei pullover infeltriti, le buste di cellofan che si appiccicano ai polpastrelli.

    Ma non ci si può fare nulla. Bisogna solo abbassare la tenda nella stanza sul retro dove stira Isa, accendere la ventola sul bancone dove sta Marta. E resistere, come si è fatto finora: proprio oggi sono quarant’anni tondi di resistenza.

    Almeno per Marta, che in lavanderia c’era anche all’inaugurazione: dieci agosto Settantaquattro. Quando loro padre, il Nando, ha attaccato la spina alla prima lavatrice industriale del quartiere. Voleva una tintoria moderna col nastro trasportatore, le grucce usa e getta e i detergenti americani che andava a comprare a Livorno.

    Un lavoretto sicuro, come lo chiamava lui, per la sua figlia maggiore.

    Non che lo avesse chiesto: Marta sognava di fare la ragioniera alla Saint Gobain. Ma il Nando: Vuoi mettere, Martina, starsene in proprio? Senza orari, padroni. Vuoi mettere?

    E mettiamo, aveva risposto Marta. Ma con una smorfia, la stessa che ha ora mentre riordina le penne accanto al registratore di cassa. L’espressione imbronciata che ha tenuto per tutti i giorni a venire, quella di chi viene colto alla sprovvista dalla vita. Di chi non se l’aspettava di fare la lavandaia per quarant’anni e rinunciare allo smalto sulle unghie delle ragioniere di una fabbrica.

    Ma era la figlia grande. Rispettosa, responsabile. La donnina che fa sempre quello che chiede il mondo; e il babbo. Che voleva vederle entrambe in lavanderia, le sue figliole, a cento metri dall’uscio di casa.

    Così è stato. E visto che ci era costretta, ha sempre pensato Marta, tanto vale fare tutto per bene. Allora eccola al bancone a mettere ordine nella partita doppia fra sporco e pulito. Una macchia per volta. A valutare gli aloni, le chiazze. A pianificare i tempi e le procedure. Anche a litigarci alla consegna, con la gente, se qualcuno puntava il dito contro la lavanderia migliore di Pisa: non a caso, si chiamava La Perfetta.

    Lo aveva capito anche sua sorella minore appena ci era entrata: ciò che arriva sudicio, di lì deve uscire brillando. E senza una piega. Marta l’aveva messa allo stiro dal primo giorno sperando che insieme alle grinze si sarebbero appianati i suoi vent’anni senza un diploma, un lavoro, neanche un amore credibile.

    Si sono appianate a vicenda, alla fine, imparando a convivere coi propri malumori. Anche in questa domenica distante anni luce da quel primo giorno, Marta sbatte lo zerbino con la scopa e borbotta; il rumore delle percosse arriva alla sorella, che lo accoglie sbuffando.

    Non sono mai state d’accordo su niente: sgrassatore al talco o alla lavanda? Bollette per posta o sul conto corrente? Allarme satellitare o vigilante di quartiere, dopo il furto del Duemila? E il colore dell’insegna, e quello delle tende, e dei fogli di carta velina per avvolgere le camicie?

    In disaccordo su tutto, per quarant’anni, tranne che sui vestiti.

    Potrebbero descriverli a menadito, uno per uno, insieme alle sensazioni provate dai loro polpastrelli, e dagli occhi, al cospetto di quei tessuti. Giorni interi a gridarsi, da una stanza all’altra: Guarda che seta, che tulle; bada lì il pizzo, il colletto di raso. E guarda il taglio, la gonna plissettata dal sarto. E questi bottoni, e le spille, gli alamari di legno…

    Ciò che amavano di più, oltre all’estetica, è che insieme a quegli abiti nella loro lavanderia entrava la vita del quartiere. Soprattutto d’estate, con la radio accesa in sottofondo mentre Isa stirava, mentre le case dormivano il sonno delle vacanze, silenziose, spopolate, la loro lavanderia era piena di voci. La vita degli altri nei vestiti.

    Daria che portava le camicie del babbo, e ci nascondeva quelle del Lanfranco, un livornese con cui era stata per un paio d’anni intorno al Novanta.

    Tutti gli abiti del figliolo di Gina, Alessandro. Pantaloni e maglie che diventavano sempre più larghi, ma le macchie restavano quelle di quand’era un bambino. Allettato dalla nascita. E Gina a scusarsi per le chiazze sui pantaloni e il cibo sulle felpe del suo bambino speciale. Quando ha portato l’ultima camicia, tre anni fa, ha detto a Marta: Questa bianca a modino. Bianchissima come è stato il mi’ figliolo nel mondo. Com’è venuto se n’è andato: pulito pulito.

    E poi i gilet del Ciabattini, l’agente immobiliare dell’angolo. I grembiuli strappati delle tre figlie del Morelli, gli abitini striminziti della Bindi dopo la morte del fratello geloso. Le macchie di vino e rossetto delle cene galanti di Amidei.

    E la biancheria del vedovo Ciompi, operaio alla Piaggio. Non si sapeva neanche lavare un calzino. Sempre a portare roba, e ripassare due volte al giorno per chiedere: È pronta, bimbe? È pronta? A offrire caffè nei pomeriggi invernali e cedrate d’estate solo per dire due chiacchiere nella sua solitudine.

    E mille altri, che non ricordano neanche più. Ora che i giorni si affollano in una massa indistinta, e i volti rimpiccioliscono, lontani, nella loro testa rimane solo la sensazione vaga lasciata da tanta abbondanza. Gli abiti che hanno scandito il flusso della loro esistenza.

    Soprattutto uno. Una gonna di seta fiorata su fondo nero. Fatta da una ditta di Empoli che lavorava per Versace; senza etichetta, quella la mettevano a Milano e la rivendevano a un milione di lire. E un corpetto con le bretelle intrecciate, simile a quello che avevano visto a Jo Squillo in televisione, solo meno scollacciato. Con tutta una cintola di zirconi e perlettine piccine piccine. Un gioiello. Da lavare a secco, con garbo. Senza ammollare le colle, che magari il vapore staccava i pezzetti.

    Lo avevano trattato come un bambino. Marta al lavaggio – non era poi così sporco – e Isa allo stiro. Isa che appena lo aveva finito, ancora bollente, se l’era avvicinato al petto. E la sorella con un fremito: Come ci staresti bene, dio bonino.

    Non hanno smesso di guardarlo neanche quando era appeso al nastro in attesa del ritiro. Tornavano a sistemare le balze, a sfiorarlo. E il vestito lì, abbandonato. Passa aprile, finisce maggio. E non c’è il numero di telefono della proprietaria, neanche ricordano il nome.

    Finché il Ciompi si infila dalla porta sul retro; due di pomeriggio, fine luglio. Isa ripiegata sull’asse, Marta concentrata a riordinare fatture. E il Ciompi parla fitto fitto: C’è la sagra delle Pallette, stasera. Dice a Isa, sottovoce: Ci vieni? E lei: Ma te sei matto, si finisce tardi. E il Ciompi: Non serve che passi da casa a cambiarti. Isa: Cambiare che? Lui: Il vestito, ce l’hai. È un pensiero mio. Te lo sarai già bell’e stirato. La gonna nera e il corpetto li metti stasera, ci si va insieme.

    E Isa ci va, alla sagra delle Pallette. Lo mette per tutta l’estate, il vestito. Marta resta in silenzio. Una volta soltanto le dice: Pensaci. Alla prima moglie non l’ha mai fatta lavorare. Vedi te, se ti sta bene o no.

    E Isa ci pensa. E col Ciompi non se ne fa nulla.

    Anche se lui insiste. Passa a portare le sue canotte e i calzini, e nei discorsi ci mette di mezzo altre sagre, finché se ne dimentica. E diventa un fantasma anche quella gonna di seta che svolazza nei ricordi di entrambe.

    Isa nel frattempo smuove una sedia, distratta, mentre fissa sua sorella: ha portato Marta in lavanderia nella data esatta dell’apertura, chissà se ricorda ancora quel giorno col babbo.

    E poi vuole stare da sola con lei. Guardarla al suo posto, al bancone, ancora una volta. All’erta contro i nemici a difendere la sua roccaforte immacolata. Senza mai un giorno di pausa, un momento per riprendere fiato e allentare il suo broncio: l’unica, vera, uniforme di quella vita marziale, sempre fedele a sé stessa.

    Anche se La Perfetta, negli ultimi tempi, non era più tale. Date di ritiro saltate, candeggi sbagliati – Isa ha dovuto risarcire tutte le clienti –, scontrini battuti due volte, bollette non pagate. Se hanno anticipato la chiusura è stato per Marta, ogni giorno più confusa. Stamattina non fa che strappare gli stessi fogli e schiacciare il pulsante del nastro, che si blocca e riparte; gira a vuoto, senza che lei se ne accorga.

    Non ci voleva, come regalo di sessant’anni, la memoria che le va via. Ne servirebbe un altro, di regalo: Isa le deve tutto, dai consigli sul mestiere al mestiere stesso. Il Ciompi le stava simpatico, certo, ma lavargli in casa i calzini, tutta la vita, non lo poteva accettare. Meglio venirsene in lavanderia a litigare con sua sorella senza dar conto a nessuno del proprio tempo.

    Il rumore del nastro meccanico si arresta. Marta solleva il cellofan dell’unico vestito appeso, ora davanti al suo naso – finalmente se n’è accorta. Lo sfiora: un bel giacchino color corda, di lino, e una veste bianca ricamata.

    E Isa dice: Questa volta l’hanno lasciato per te.

    Marta lo sfila e se lo accosta al petto. Un tessuto leggero leggero, fresco. Da andarci al mare, come stasera, a mangiare qualcosa con le amiche. Allora mette da parte la smorfia, e guarda sua sorella.

    Farfuglia: E chi se lo merita, questo?

    Nessuna risposta. Due studenti sfrecciano in strada urlando qualcosa da una bici all’altra.

    Dentro silenzio. Le sorelle si guardano, e dice tutto lo sguardo.

    Quello di Marta chiede scusa per ciò che le sta succedendo in testa negli ultimi tempi. E scusa se l’ha tenuta in prigione, la sua sorellina, a prendersi cura della gente. A farla andare in giro pulita.

    Quello di Isa dice grazie. Lavorare le ha tenute insieme, e indipendenti. Come voleva il babbo; o forse, come hanno scelto di essere loro.

    E sorridono entrambe. Anche Marta, dopo quarant’anni di broncio. E a Isa sembra, per la prima volta, di vederla contenta. Di vederla ancora più simile a quella sorella perfetta che ha sempre saputo di avere.

    > Leggi qui gli altri racconti della rubrica “Domenica d’agosto“.

    Redazione Belleville