“La casa della giovinezza” di Francesca Mogavero è il racconto vincitore della borsa di studio per il laboratorio online Storie mostruose con Loredana Lipperini, in programma dal 13 aprile al 15 giugno 2023.
Ispirandosi a uno dei topos più classici del genere gotico-horror, il racconto ha per protagonista un uomo che trae giovinezza e vigore dal sacrificio di vite umane all’appetito insaziabile della propria casa stregata. Nel finale, il destino dell’uomo si compie nel segno della casa-madre e di una regressione tanto assoluta quanto irreversibile.
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La casa della giovinezza
Dalle finestre drappeggiate di ragnatele, la casa gli lanciava uno sguardo dolce e stupito, come la moglie di un marinaio dopo la burrasca.
Il cancello, l’intonaco scrostato, il giardino con la sua selvaggia bellezza erano sempre gli stessi; la corrente andava e veniva, solo una stradicciola si inerpicava su per la collina, ma bisognava conoscerla. Non era cambiato nulla, era Giovanni a essere più vecchio e stanco. Eppure la casa lo aveva riconosciuto.
“C’è parecchio da fare” fece l’impresario edile.
Annuì. Case come quella tollerano le assenze, ma si lasciano andare: non per ripicca, ma perché non c’è nessuno che le guardi. Proprio come le donne di una volta, che si agghindavano, esistevano, solo in funzione degli altri. Le donne dei marinai non stendevano il belletto sulle guance asciugate dal sole e dal sale: scrutavano il mare, già rassegnate all’idea che i cavalloni si fossero mangiati i loro uomini e nessuno le avrebbe più viste.
“L’impianto, i tubi… si farebbe prima a sventrare tutto e ricostruire” proseguì l’altro. Lo squadrò dal capo canuto alle gambe che si perdevano nei pantaloni. “Sicuro di volersi stabilire qua?”
“La pensione è quella che è, in paese la vita costa meno.”
Includere la casa nel paese era spararla grossa: dalla borgata al centro c’erano almeno otto chilometri di asfalto dissestato, con le erbacce che rosicchiavano i bordi.
In città, davvero, vivere era diventato oneroso, mentre la dimora di famiglia era lì, ignorarla pareva uno spreco. Ed era la casa della giovinezza, delle notti di luna e dei giorni afosi, mossi appena dal frinire delle cicale. Non ci tornava da quando era ragazzino, ora di anni ne aveva quasi ottanta, ma si sa che gli edifici vecchi hanno fondamenta solide.
“La vedi, questa?” Il nonno aveva appoggiato la mano forte, senza nemmeno una macchia, sulla colonna accanto all’ingresso. “C’è amore qui dentro. Per questo sta su”. Da sotto la porta doveva essersi infilato un alito di vento, perché echeggiava un suono come di fusa di gatto.
“Lo vedi perché mamma se n’è andata?” gli aveva fatto il verso il padre di Giovanni. “Hai sempre amato questo posto più di lei, più delle persone.”
Il vecchio, che vecchio sembrava poco, non gli aveva dato retta. “La vita, Giuanin. Scorre tutta qui. Un po’ per lei e un po’ per te, senza esagerare.”
Giovannino aveva annuito, poi suo padre lo aveva trascinato via. “Quello se ne frega” aveva ringhiato. “A farsi i fatti propri si campa cent’anni.”
Il nonno, però, era morto poco dopo, non era riuscito nemmeno a salutarlo. Prima la moglie, poi i vicini, perfino la cagna da pastore se n’erano andati, chi per sorte, chi per natura. Il peso dell’età gli era precipitato sulle spalle di colpo, il postino lo aveva trovato in cortile, un braccio teso verso il cancello serrato.
Il resto era storia scontata: l’eredità rimpallata, i cugini che passavano lì i fine settimana, infine il disuso, la dimenticanza. Giovanni era l’ultimo. Aveva imparato in fretta che gli amori vanno e vengono, più spesso vanno, e che ad appoggiarsi agli altri ci si ritrova zoppi.
“Quando vuole, scegliamo i materiali e incominciamo” riprese l’impresario, con quella tendenza a rendere tutto comunitario solo in apparenza: scegliamo, facciamo, mentre era solo lui, Giovanni, a farsi carico. L’uomo, un cinquantenne robusto, se ne stava appoggiato alla colonna col fianco, poi impallidì, vacillò.
“Vuole dell’acqua?” si premurò Giovanni.
L’altro si rimise dritto: “No, è la pressione… Quando vuole mi chiami, definiamo tutto” e salutò in fretta; fuori, incamerò aria a pieni polmoni, come se per tutto quel tempo avesse trattenuto il fiato.
Giovanni lo vide andar via, distrattamente si appoggiò alla colonna, la parete aveva conservato una traccia di calore: socchiudendo le palpebre, si intravedeva una chiazza bislunga, rosata, come se il fianco dell’impresario vi avesse impresso la forma. Il tepore si trasmise alla mano, risalì lungo il braccio, raggiunse il petto e il cuore gli fu in gola. Forse aveva solo bisogno di sedersi. Ma no, le gambe lo sostenevano senza tremare, i muscoli pulsavano come dopo una marcia. Potere della campagna, si disse. Il giorno dopo toccò al gatto.
L’animale non voleva entrare. La diffidenza randagia, pensò Giovanni, quella timidezza che si traduce in denti e artigli che aggrediscono la mano che sfama. Se l’era portato dentro, sollevandolo senza sforzo. Si sarebbero fatti compagnia.
Lo depose davanti al piattino sbrecciato, pieno di tonno in scatola. Il gatto tirò indietro le orecchie, annusò, diede una breve lappata e si rintanò sotto la credenza; nella casa risuonò uno schiocco di labbra.
Giovanni prese le chiavi dell’auto e uscì per la spesa, al suo rientro la bestiola era morta lì dove l’aveva lasciata e la casa era calda, sebbene il fuoco, nel camino, non avesse attecchito. Tra le fughe delle piastrelle scorreva uno scintillio rosso, ricco e vibrante come sangue arterioso. Strani scherzi di luce. Di nuovo, Giovanni toccò.
La mattina dopo si svegliò pieno di energie, si grattò la testa e si stupì nel sentire la mano affondare in una chioma folta. Si guardò allo specchio: aveva i capelli brizzolati. Una fotografia di se stesso a cinquant’anni o poco più.
“C’è nessuno?” fece una voce dabbasso.
Scese in fretta, uscì in cortile.
“Grazie al cielo!” esordì il ciclista, vedendolo arrivare. “Stavo seguendo la strada panoramica, devo essermi perso.”
“E ha una ruota sgonfia” notò Giovanni. “Venga, ho una pompa in cantina. Intanto ci beviamo un caffè.”
Il ragazzo accettò, la casa lo accolse con piacere.
Dalla casa uscì un uomo di quarant’anni; inforcò la bici e senza fatica percorse la strada per il paese. Difficile non notare uno straniero tanto affascinante.
La ragazza del bar non andò per il sottile: gli servì il caffè, sorrise e soffiò un “Dove abiti?” interessato.
“Qui non devi portarci le fidanzate, capito?” gli risuonò in testa la raccomandazione del nonno, subito fugata dall’eccitazione.
Si caricò la ragazza sul telaio, risalirono la collina sbandando; oltrepassarono il cancello tenendosi per mano, ubriachi di risate e di ormoni; si rincorsero per la scala che portava in camera, levandosi i vestiti, mentre in corridoio una corrente fredda si insinuava tra le crepe mormorando, minacciando.
Giovanni affondò nella donna, raggiungendo vette di piacere inaudito; lei urlava, sempre più flebile… finché restò muta. Un cadavere, una cosa che secoli prima doveva essere stata umana. Si staccò da quel corpo prosciugato, e il suo era il grido di un uomo di trent’anni. Non l’aveva invitata per quella ragione, eppure…
L’alito freddo si quietò, ora si udiva solo un mugolio sommesso, come di una femmina che gioca a fare la bambina smorfiosa.
Lui tornò allo specchio: era bello, era giovane. Il punto più alto del suo splendore, però, lo aveva raggiunto attorno ai vent’anni.
Raccolse quel che restava della ragazza in un fagotto di lenzuola, lo portò in cantina. Lì non avrebbe patito la solitudine: sorrise a un vecchio teschio, a un bacino femminile. I segreti del nonno. Poi compose un numero.
“Sono il nipote del signor Giovanni” disse. “Vuole che i lavori inizino subito. I materiali? Solo il meglio per questa casa, i soldi non sono un problema.”
Gli operai si presentarono il pomeriggio stesso, la porta si chiuse dietro di loro.
Giovanni strizzò l’occhio al soffitto che incombeva sui nuovi venuti, ai pavimenti da cui parevano levarsi tentacoli che si avviluppavano attorno alle caviglie, spezzando, risucchiando il midollo.
L’edificio poppava e spartiva il pasto, Giovanni si sentiva invincibile, il suo corpo assorbiva linfa, tornava indietro… e rimpiccioliva.
Mentre i mobili si mostravano enormi al suo sguardo miope e neonato e lo spazio si dilatava, lasciandolo inerme, nudo e solo ai piedi della scala, in un ultimo barlume di consapevolezza – o forse nel primo di quella seconda, breve esistenza – avvertì su di sé lo sguardo amorevole della casa, che, da gelosa amante, era diventata madre.