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Il racconto vincitore della borsa “Cantiere romanzo”

    “Taranto” di Martina Renna è il testo vincitore della borsa di studio per il laboratorio “Cantiere romanzo”. L’incipit ci presenta un’ambientazione – la città di Taranto e il paese in cui la protagonista trascorre le estati – mescolando squallore e entusiasmo giovanile, la desolazione del borgo con i suoi vicoli “che si torcono come budella” e l’emozione dell’incontro con Sasà – l’estraneo, il forestiero – che prelude al percorso di (tras)formazione della protagonista.

    ***

    Taranto è una lingua di palazzi e cemento che si snoda fra i due mari con prepotenza.

    È una città sporca, rumorosa e strampalata; i tarantini nel borgo antico sono stipati in palazzi altissimi, umidi, senza acqua potabile, con cessi comuni nei cortili interni. Un nugolo di strade sinuose che si torcono come budella intorno ai palazzi abbandonati, case signorili in cui i vecchi proprietari, prima di fuggire dal borgo antico per rifugiarsi nella città nuova a inizio secolo, hanno lasciato mobili e letti e posate e poltrone, stanze che i vandali del quartiere usano per scopare o farsi di acidi nascosti dietro le finestre.

    Bottegucce luride spuntano ad ogni angolo, negozi stretti e lunghi che scambiano roba usata, statue della madonna addolorata, cartoline stinte dei Perdune, oggetti rotti trovati nei cassonetti. I commercianti sono tutti uguali, secchissimi, pelle tirata e ossa sporgenti, se ne stanno seduti sull’uscio della loro attività su sedie di plastica Sammontana, una sigaretta fra le dita flosce e lo sguardo vigile a controllare la loro strada.

    Nelle case che s’elevano altissime si agitano continuamente ombre, voci squillanti, puzza di fritto, di sigaretta, dagli usci sempre aperti scorre acqua sporca, rimasugli di pesce morto che si trasporta e uccide ad ogni angolo, un chilo di cozze una manciata di sardine ricci di mare che pescatori anziani puliscono in piedi in mezzo alla strada, con un coltellaccio sporco che poi usano per pulirsi le unghie marce.

    La luce non raggiunge mai i vicoli, perché le case altissime la annegano. Così tutto è costantemente sommerso da una tetra oscurità, e gli spiazzi sgombri di muri diventano il luogo di ritrovo delle persone del quartiere, che si riuniscono alla luce del sole per raccontarsi le giornate, sempre uguali, per aspettare i figli che escono da scuola – le scuole si trovano ai limiti del borgo, s’affacciano sulla città nuova per dare ai bambini l’idea che la città sia sempre la stessa, che vi sia solo il mar piccolo a separare loro dal resto del popolo tarantino e dai paesi della provincia, una distanza che facilmente si copre percorrendo il ponte girevole. Raramente, in realtà, la gente del borgo esce fuori dal quartiere, la sensazione è che fuori dai luoghi conosciuti, dai muri stretti e i palazzi alti, i contorni delle cose si sfumino, si confondano, si sfaldino in mille pezzi – è una sensazione che anche io ho avuto più volte, sebbene io nel borgo antico non ci sia stata che qualche volta e la vita di Taranto l’abbia attraversata per pochi istanti. Tutto ciò non mi apparteneva perché io le mie estati le passavo al paese, a pochi chilometri dalla città, dove i fumi della fabbrica si confondevano fra le nuvole bianchissime e le strade erano larghe abbastanza per attraversarle correndo in bicicletta.

    Ho conosciuto Sasà per la prima volta in una sera di luglio dell’estate del 1980 durante una partita a ciciru nella piazza del paese. Monteparano era all’epoca un nugolo di case ammassate sulla collina tarantina a pochi chilometri dalla città. Nelle giornate limpide di primavera lo sguardo dal paese arrivava fino al mare a sud e fino alla Murgia martinese a nord, allargando l’orizzonte della vita di tutti i giorni di qualche chilometro; i miei genitori mi scaricavano a casa della nonna tutte le estati, da giugno fino a settembre, solo una delle tante forestiere che ripopolavano il paese durante i giorni caldissimi d’agosto in cui la noia e il niente sibilavano nelle strade polverose di quell’angolo di mondo.

    Ciciru era un gioco a squadre in cui quattro saltatori, prendendo una grande rincorsa, dovevano saltare sulle spalle dei compagni piegati a catena sulle spalle, con il primo poggiato ad un muro con le braccia larghe. La squadra che riusciva a mantenere più saltatori sulle spalle degli avversarsi senza rovinose cadute e ossa rotte, vinceva. Noi ragazze non eravamo ammesse al gioco – il peso di tutti quei ragazzotti pieni di ormoni adolescenziali sarebbe stato troppo per le nostre gambette molli – così io me ne stavo seduta per terra ad osservare i ragazzi che si spaccavano la schiena ridendo, fra tutti mio cugino Nico che era il primo della fila e teneva la testa nascosta fra le braccia tese per non far vedere quanto soffriva.

    Sasà era uno dei saltatori dell’altra squadra e planava con grazia sulle spalle di Nico, ridendo prepotentemente con le gambe a penzoloni sul suo corpo; era altissimo e secco come un chiodo e agitava i capelli chiari su e giù per non farseli ricadere sulla faccia. Non lo avevo mai visto, nelle quindici estati che avevo trascorso al paese a casa di mia nonna, e la mia attenzione fu subito catturata da lui, dalla sua figura slanciata che male si adattava a quella degli altri ragazzini del paese, Nico compreso.

    Alla fine della partita – la squadra di mio cugino aveva miseramente perso per tre round a zero – gli atleti stramazzarono sulla pietra liscia della piazza del paese, campo di battaglia preferito perché favoriva lo scivolamento e le contusioni da guerra, e si misero tutti a guardare il cielo scuro, discorrendo nel loro dialetto magico. Mi sentivo, come mi capitava spesso nelle mie estati pugliesi, una spettatrice solitaria di quella vita del paese che vivevo tutti gli anni ma che non riuscivo a comprendere appieno, e con fatica cercavo di afferrare le loro parole, alzavo la testa verso il cielo e seguivo la traiettoria dei loro sguardi, le stelle che indicavano con le dita insanguinate e la torre sdentata del castello che svettava di fronte alla piazza del paese, separato solo dall’asfalto malconcio della strada statale che univa Taranto a Lecce. Poi Sasà scivolò verso di me fresco come una rosa, come se non avesse passato un’intera serata a saltare sulle spalle dei suoi amici, aveva un neo solitario sulla guancia destra e i capelli lunghi sugli occhi scuri.

    “Guarda, dietro al castello, riesci a vederlo?”

    Sentii uno strano formicolio del corpo perché lui mi stava parlando, lanciai uno sguardo a Nico stramazzato sulle pietre bianche ad occhi chiusi e scossi la testa.

    “No,” borbottai, già dispiaciuta di averlo deluso: “non vedo niente.”

    Sasà mi venne più vicino, indicò con un dito un punto proprio dietro alla torre sdentata, girò lo sguardo verso di me: “Lo vedi?”

    Strizzai gli occhi, puntai gli occhi sul punto che m’indicava, annuii: “Lo vedo.”

    “Cosa vedi?”

    “Fumo.” mormorai, i ragazzi stesi per terra ritornavano lentamente alla vita e volevano andarsene a zonzo per il paese addormentato.

    “È il fumo della fabbrica,” mi disse Sasà scattando in piedi e porgendomi una mano: “arriva fino a qui, ci credi? Sono più di venti chilometri ma si vede lo stesso, pensa quelli che ci abitano di fronte cosa vedono tutte le sere, nuvoloni bianchi che s’alzano sulle case ed entrano dalle finestre, nell’aria che respirano tutti i giorni.”

    Sofia Zanderighi