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Come si acquisisce uno stile personale, o almeno ci si prova

    All’inizio non sai di avere uno stile, cerchi solo di non assomigliare a nessuno. Sono pochi quelli che cominciano imitando: in genere sono i fan di uno scrittore fortemente caratterizzato, che sia Hemingway o Gadda o Bernhard. Meglio, in quel caso, se di scrittori ne hai letti pochi, io ero danneggiato dal mio mestiere. Poi ci sono gli snob insicuri, che cominciano parodiando lo stile degli altri per prenderne le distanze (per esempio Proust o, parecchi piani sotto, Umberto Eco). Non tengo conto di quegli scriventi che si mettono quasi automaticamente nella scia dello stile che “va per la maggiore” tra i libri che hanno avuto successo negli ultimi due o tre anni, e che sembra un italiano da traduzione cosmopolita, una specie di lingua giornalistica arricchita dai fiori del bello scrivere; per loro lo stile non è niente, è solo un mezzo per arrivare. (“Alla folla piace che le si parli con frasi sciatte”, diceva Thomas Mann e non aveva visto i social). Brancolare di fronte al tuo stile quando cominci, insomma fartene un problema, è un ottimo segno.

    Il tuo stile maturo non lo conosci ancora; senti però di avere un ritmo, senza quella musica lì che ti martella dentro non ci avresti nemmeno pensato di fare lo scrittore. Il tuo ritmo è l’angolo da cui guardi la realtà, è il passo con cui le vai incontro o cerchi di defilartene, è la montagnola su cui ti installi per predicare (come sto facendo ora, con questa definizione anaforica trimembre). Non devi permettere che la tua musica interna comandi da sola trasformandosi in una cantilena; devi venirci a patti, negoziare tra inconscio e società, non entusiasmarti della tua stessa voce se no ti carichi da solo e finisci in retorica – è la cosa peggiore se stai cominciando. Lo stile personale è sempre una trattativa col mondo e pure con se stessi. “Non si può attraversare la strada/ senza calpestare l’universo”, scrive Pasternak in una delle sue poesie.

    Per costruire il mio stile io sono partito dai versi: per molti narratori è così, sanno di essere dei poeti falliti. (I grandi romanzieri che siano anche grandi poeti si contano sulle dita di una mano). Quando facevo il critico mi sono occupato soprattutto di poesia, sicché avevo in testa molti più versi che frasi di romanzi; e i versi si infilavano dentro la mia prosa quasi senza che io lo volessi, lottavo contro i visitors endecasillabi. Qualche volta i versi che avevo in testa mi hanno aiutato a trovare una struttura architettonica per un racconto su commissione che non avevo molta voglia di scrivere (è successo con Addio della Morante per un racconto che dovevo leggere a Massenzio). Però una cosa la sapevo: quei versi erano blocchi erratici di provenienza non umana, potevo includerli come si include una pietra preziosa in una corona di ferro ma non potevo renderli padroni del mio ritmo, che era, e in fondo voleva esserlo, servile. Il mio ritmo, fin dall’inizio, è stato il rifiuto della tranquillità padronale. Invidio quelli che sanno scrivere con la pacatezza regolare e la pazienza di un fiume che scorre lento, con una mano “che sembra non avere nervi” come diceva Ascoli di Manzoni; ma non sono di quella razza.

    Una delle prime cose che devi capire, mentre stai cercando di crearti uno stile, è che tipo di animale sei, come si sono organizzate nel tempo le tue nevrosi e come riesci a incunearti nella realtà. Io ho bisogno di emergenze, di spigoli, di parole che sembrerebbero non poter stare insieme, di scatti e di sorprese. Ho bisogno di provocare e di essere abbracciato. Il ritmo si incarna in sintassi narrativa, in prese di posizione etico-sociali. Trovi intollerabili certi modi di rappresentare la realtà: per me la cosa più insopportabile di tutte è il tono esortativo, una parenesi rivolta verso un futuro migliore del presente, incellofanata nella speranza. Anche nominando le cose più abiette, lo stile che odio non si lascia contagiare: mantiene su quelle la superiorità olimpica del giudice, di colui che sa quando condannare, quando compatire e quando indignarsi. È impermeabile, illeso, segnato da uno strano egocentrismo collettivo. Chi scrive così troverà il mio stile forzato, sussultorio, inutilmente maledetto e quindi ipocrita, disperato per non pagare dazio, esibizionista al limite dell’isteria. Fa niente: cercare il proprio stile vuol dire anche decidere a chi puoi voler bene e a chi no, quali sono le tue strategie per accreditarti agli occhi dei fratelli di missione. Ti scegli gli scrittori di riferimento, quelli da cui vorresti farti apprezzare o perdonare. I ‘maestri’ è meglio che vengano dopo, non prima.

    Devi decidere a chi vuoi consegnare la tua scrittura e che cosa c’è nei tuoi pacchetti regalo; non puoi rinnegare le tue ossessioni e le tue tare psichiche, ma non buttarle lì come se fossero spazzatura; sono la causa ma anche l’effetto di ciò in cui il tuo ritmo si è incarnato – le metafore che ti hanno aperto il cervello, le variazioni di livello lessicale, il non essere mai dove ti cercano. Lo stile non può essere autismo. Quando stavo in analisi Giuseppe Maffei mi diceva che per me, fin da bambino, la carenza era stata di non aver saputo “incrementare il mio ministero degli esteri”; ho bisogno di rubare pezzetti dal vero e di farli giostrare con l’assoluto. Per maturare il tuo stile devi indagare dentro di te se gli altri ti interessano davvero, se il loro modo di parlare ti chiede cittadinanza e insiste per penetrare nella tua fortezza. Se tu vuoi penetrare loro. I dialetti, la lingua oscura delle madri, i gerghi dei portatori di un corpo che ti disorienta, il vaniloquio del presente. Ascoltare ma non diventare ciò che ascolti (io ho trovato quel mio modo peculiare di compromesso, di descrivere un personaggio minore o lo stato d’animo di uno maggiore semplicemente sistemando tra parentesi una sua frase). Diffidare della bellezza esornativa, se ci caschi farne argomento, l’italiano letterario non è più un marmo (da un bel po’) ma una melma viscida; e comunque ricordarsi che la forma non consiste soltanto nel lessico e nel metro, nell’elocutio, ma anche in quel che i latini chiamavano inventio e dispositio – schierare i pezzi sulla scacchiera per propiziarsi lo scacco matto. Mai esser colti in fallo di ingenuità. Poi, da vecchi, quando ti pare che uno stile tuo te lo sei conquistato, si corre il rischio del manierismo. Allora devi smontare quel che puoi smontare, scoprire la soddisfazione del ‘togliere’; concederti finalmente la libertà di giocare con le tue (sedicenti) conquiste, ritrovarti ingenuo, improvvisare con le note e le divagazioni. Anche i personaggi ti ringrazieranno delle briglie lunghe. Fin dall’inizio però devi sapere che lo stile può diventare una camicia di forza; sii feroce coi paternalismi o maternalismi a fin di bene, ma mettiti da solo i bastoni tra le ruote – saggia i tuoi mattoni per tastare se il muro è solido. Non hai niente di più importante da dire che il come lo dici. Non devi ‘arrivare’ a nessuno, devi solo essere; non preoccuparti di scrivere corretto, la correttezza dovresti già averla digerita ed espulsa per le vie ordinarie. Il maggior contributo politico che uno scrittore possa dare alla sua nazione è il proprio stile. (Vedi Petrarca, che ha fatto crescere la stima dell’Italia in Europa insegnando che cosa si può fare con dei sonetti).

    Walter Siti

    Docente universitario in pensione, critico letterario e romanziere (e anche, come spesso si dice in tono d'accusa, intellettuale). Nato a Modena nel 1947, morirà probabilmente a Milano.