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Contro il doppiaggio. Il plurilinguismo nei dialoghi

    Nella celebre scena d’apertura di Inglorious Bastards, un colonnello delle SS fa irruzione in una fattoria normanna e ne interroga il proprietario utilizzando, prima, il francese, poi, sapendo che il suo interlocutore ha viaggiato e conosce altre lingue, l’inglese. Il passaggio da una lingua all’altra, ingiustificato, serve solo a porre un ironico accento sulla convenzione del doppiaggio: dato che in un film hollywoodiano i personaggi, a prescindere dalla loro nazionalità, devono esprimersi prevalentemente in inglese, viene trovato un artificio inverosimile (l’anglofonia di un contadino normanno degli anni ’40) per motivare, se così può dirsi, il dialogo in quella lingua tra un tedesco e un francese.
    Con una scelta paradossale la cui stupidità fa sorridere, in Italia questa scena del film di Tarantino è stata parzialmente doppiata. Dopo che il colonnello tedesco ha chiesto in francese al contadino normanno se possono cambiare lingua e passare all’inglese, i due iniziano a parlare, con altra voce, in italiano.
    Se dal cinema ci spostiamo alla letteratura, è pratica abituale “doppiare” nei dialoghi i personaggi la cui lingua è diversa da quella usata dal narratore. In un romanzo storico scritto in italiano ma la cui trama si svolge nella Germania nazista, nella Francia rivoluzionaria o nella Roma imperiale, i personaggi si esprimeranno in italiano. In un romanzo o in un memoir di ambientazione contemporanea i cui personaggi appartengano a paesi diversi, facilmente i dialoghi saranno tutti, e del tutto, in italiano. È una convenzione innocua, accettata dai lettori, ma che, appiattendo l’identità linguistica dei personaggi su un idioma standardizzato, incorre nel rischio di un più generale appiattimento letterario, oltre che della visione del mondo veicolata dalla narrazione.
    È quanto accade, per esempio, in Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya (Einaudi 2018) di Paolo Cognetti, scrittore peraltro consapevole degli aspetti tecnici inerenti alla scrittura. In questo racconto autobiografico di viaggio ambientato nella sperduta regione nepalese del Dolpo, Cognetti, a un certo punto del suo itinerario, si ferma a dormire insieme ai suoi compagni di avventura nell’abitazione di un «villaggio di polvere». Dal passaggio che segue ho espunto solo alcuni frammenti narrativi, tutto ciò che fa parte dei dialoghi è invece trascritto:

    La famigliola che ci ospitava passò la serata in una stanzetta dietro la tenda, forse una piccola cucina: un uomo, un bambino, una giovane donna che veniva ogni tanto a vedere se avevamo bisogno di qualcosa, parlando un buon inglese. Quando uscirono per andare a dormire altrove mi alzai a sgranchirmi le gambe, osservai i libri su uno scaffale, cedetti alla tentazione di affacciarmi di là: accanto alla stufa che si spegneva, alla pila di sterco secco, alla ciotola della tsampa, due lumini al burro traballavano davanti a una foto del Dalai Lama. Sopra la foto era appesa una bandiera del Tibet. (…)
    Di mattina la donna tornò da sola. Andò in cucina e poco dopo il fumo del ginepro ci avvolse. Io in Dolpo non ero mai riuscito a parlare con nessuno, pensai che difficilmente avrei avuto un’altra occasione: così, mentre i miei compagni bevevano il caffè, mi avvicinai alla tenda e bussai sullo stipite.
    – Posso?
    – Prego, – disse la donna.
    Entrai. Era inginocchiata davanti alla stufa e soffiava sul fuoco che stentava a prendere. Mi ricordai di avere letto che molti bambini della regione avevano problemi agli occhi e alla gola per via del fumo.
    – Hai bisogno di qualcosa, – mi chiese.
    – Solo parlare un po’, se vuoi.
    – Ma certo.
    (…)
    – Come mai parli così bene l’inglese?
    – Faccio la maestra, l’ho imparato a Katmandu.
    – Sei cresciuta lì?
    – Ci sono andata a scuola. Ancora adesso ci torno tutti gli inverni. Qui è troppo freddo, c’è troppa neve per restare. Ma questo è il mio paese, volevo insegnare ai bambini di qui.
    – È lontana Katmandu?
    Ci pensò, fece un conto con le dita. Disse: – Quattro giorni di cammino per Jomsom. Poi altri due o tre con l’autobus o con qualche passaggio. Una settimana.
    – E quando parti?
    – Tra poco. Entro dicembre vanno tutti via.
    (…) Indicai la foto e i lumini, e le chiesi se poteva spiegarmi il loro significato.
    – Noi siamo tibetani, – disse. – Per lingua, cultura, religione. Ma siamo cittadini nepalesi e molto grati al Nepal perché ci lascia vivere a modo nostro –. In questa risposta ricercata mi sembrò di sentire i discorsi che faceva ai bambini.

    Malgrado l’incongruenza “tarantiniana” di uno scambio che si autoenuncia in una lingua («Come mai parli così bene l’inglese?») ma è scritto in un’altra, Cognetti riesce, tramite un impiego sobrio dello stile, a creare una certa parvenza di naturalezza dialogica. Ma l’effetto involontario di questo uso del doppiaggio è un’accentuazione del paternalismo già insito nella scena (la maestra conta sulle dita come i bambini, e come loro risponde scolasticamente a una domanda del narratore, che non si capisce bene perché trovi «ricercata» la sua risposta). Se nel suo testo Cognetti avesse utilizzato l’inglese, questo effetto paternalistico sarebbe stato in parte smussato: quando ci si esprime in una lingua che non è la propria si è un po’ tutti ridotti a una condizione puerile, il narratore e il personaggio avrebbero condiviso questa retrocessione all’infanzia. Così, abbiamo invece il narratore che si esprime nella propria lingua, e il personaggio della donna in una lingua non sua, una lingua che è anche quella dei lettori, i quali non potranno che rilevare con maggior disagio l’infantilizzazione a cui è sottoposta in questa pagina la giovane maestra. Non a caso Cognetti, scrittore, come dicevo, esperto, chiude la scena con una nota se non proprio amara, un po’ agrodolce, quasi volesse dirci: non sono mica fesso, lo so che quanto avete appena letto non appartiene al registro di una comunicazione autentica:

    – Senti, – dissi, – posso farti un’altra domanda? È da quando siamo partiti che me lo chiedo. Vorrei sapere che cosa pensate di noi che passiamo?
    – Ci siete di grande aiuto! – rispose lei portandosi una mano al petto. Temeva di avermi offeso chissà come. Disse: – Tutti qui vorrebbero affittare una stanza a gente come voi. Tornate a trovarci. Tornate!
    La ringraziai. Le credevo, ma avevo troppi dubbi per prendere quella risposta così com’era. Le dissi che forse noi non saremmo tornati, però ero sicuro che tanti altri sarebbero venuti al posto nostro. Le sorrisi.
    – Quanti bambini hai nella tua scuola?
    – Quindici.
    – E sono bravi?
    – Sì, molto.
    Andai via da Charka, villaggio di polvere, sentendo di averlo soltanto sfiorato.

    *

    Per una falsa impressione di familiarità, e un sentimento ingannevole di essere rispettati nelle loro prerogative, i lettori tendono ad accettare l’uso dei dialetti nei dialoghi di un romanzo, quand’anche questi dialetti siano altrettanto ermetici di una lingua straniera a loro ignota. In realtà, un autore degno di questo nome, qualora decida di far parlare un personaggio nel suo idioma materno, differente da quello della voce narrante, se ne fregherà, almeno in parte, di ciò che il lettore potrà capire. Se farà parlare un personaggio in genovese e invece doppierà un personaggio la cui lingua nei dialoghi dovrebbe essere il francese, sarà innanzitutto perché conosce il genovese e ignora il francese, non certo perché consideri il genovese una lingua più accessibile del francese per un locutore a digiuno di entrambe (posso testimoniare che di fatto non è così). Certo, è inattuale accettare l’idea per cui il lettore debba essere trattato con questa sana sprezzatura. In un meraviglioso aforisma di Minima moralia, Adorno scriveva: «La cortesia di Proust sta tutta nel risparmiare al lettore la vergogna di credersi più intelligente dell’autore». Oggi la vergogna del lettore sembra aver cambiato segno, e consistere, stupidamente, nel sentirsi più stupido dell’autore. Ma chiunque voglia scrivere sul serio deve ambire alla cortesia di Proust. Far parlare i propri personaggi in una lingua poco comprensibile ai lettori può essere parte di questa cortesia.
    Apriamo Kaputt di Curzio Malaparte (1944, Adelphi 2014). Coerente con la propria “spregiosa” toscanità, forse una forma della cortesia proustiana secondo Adorno, Malaparte non risparmia al lettore innumerevoli frasi o parole pronunciate dai suoi personaggi in francese, tedesco, inglese o russo. Per quanto riguarda il francese, che, come quasi tutte le persone di cultura dell’epoca, padroneggiava, Malaparte non si perita di tradurlo. Quando invece si tratta di altre lingue, in particolare del tedesco e del russo, molto presenti nel romanzo, Malaparte, si preoccupa di renderle comprensibili grazie al contesto dei dialoghi o alla traduzione italiana che, con naturalezza, segue o precede certe espressioni, come se fossero gli stessi personaggi a esprimersi in due idiomi differenti. Ecco un esempio fra moltissimi altri:

    «Posso assicurarvi» disse Frank «che Hitler ha già risolto il problema da un pezzo, nicht war?», e si volse ridendo ai commensali.
    «Ja, ja, natürlich!» gridarono tutti.
    «Hitler è un uomo superiore. Non pensate anche voi che egli sia un uomo superiore?». E poiché io esitavo, mi guardò fisso, e aggiunse con un sorriso gentile: «Mi piacerebbe conoscere il vostro giudizio su Hitler».
    «È quasi un uomo» risposi.
    «Che cosa?».
    «Quasi un uomo. Voglio dire non un uomo vero e proprio».
    «Ach so!» disse Frank. «Volete dire che è un Uebermensch? Sì Hitler non è un uomo vero e proprio, è un Uebermensch».
    «Herr Malaparte» disse a questo punto uno dei commensali, che sedeva in fondo alla tavola «ha scritto in un suo libro che Hitler è una donna». Era il capo della Gestapo del Generalgouvernement di Polonia, l’uomo di Himmler. (…)
    «Infatti» dissi dopo qualche istante di silenzio «Hitler è una donna».
    «Una donna ?» esclamò Frank fissandomi con uno sguardo pieno d’inquieto stupore.
    Tutti tacevano, guardandomi.
    «Se non è un uomo vero e proprio,» dissi «perché non potrebbe essere una donna? che cosa ci sarebbe di male? Le donne meritano tutto il nostro rispetto, il nostro amore, la nostra ammirazione. Voi dite che Hitler è il padre del popolo del tedesco, nicht wahr? Perché non potrebbe esserne la madre?».
    «La madre?» esclamò Frank? «die Mutter?».
    «La madre» dissi.

    L’intento di Malaparte è, da un lato, evitare l’inverosimiglianza di dialoghi interamente in italiano tra personaggi di varie nazionalità che non conoscono la nostra lingua, dall’altro, non escludere il lettore dalla comprensione di quanto viene detto. Malaparte riesce così a conferire una dimensione di realismo dialogico al proprio romanzo mantenendo, al tempo stesso, l’uniformità linguistica del registro narrativo: lettore e narratore condividono una sola lingua, o forse due, contando il francese; l’uso di altri idiomi serve invece a rafforzare l’identità di personaggi che altrimenti, al momento di esprimersi, rischierebbero il livellamento mortificante inflitto dal doppiaggio.
    Insomma, siamo innanzitutto la lingua o le lingue che parliamo. Quanto Malaparte sia consapevole di questa verità è evidente in un magnifico, atroce intermezzo con sapore di apologo. Si tratta di un aneddoto raccontato dal narratore ai commensali della stessa cena durante la quale si svolgeva il dialogo citato sopra. Malaparte ricorda una sua visita in un kolchoz ucraino abbandonato, dov’erano rimasti solo un cavallo cieco e zoppo e un operaio, anch’egli zoppo. A un certo momento entrò nel kolchoz un ufficiale delle SS insieme ad alcuni soldati e ordinò all’operaio di avvicinarsi: («Du, komm, hier!»). Nel loro dialogo si succedono tedesco, russo e (così sembrerebbe) ancora tedesco, ma un tedesco ormai tradotto in italiano:

    «“Du bist Jude, nicht wahr ?”» gli domandò l’ufficiale.
    «“Nein, ich bin kein Jude” rispose l’operaio scotendo la testa
    «“Cto ? Ti niè Evriu? Ti Evriu! Tu sei ebreo!” gli ripeté in russo l’ufficiale.
    «“Da, ja Evriu, sì sono ebreo” gli rispose in russo l’operaio.
    «L’ufficiale lo guardò a lungo, in silenzio. Poi gli domandò lentamente: “E perché, un momento fa, mi hai risposto di no?”.
    «“Perché me lo hai domandato in tedesco” rispose l’operaio.
    «“Fucilatelo! disse l’ufficiale”».

    Restare fedele alla propria lingua significa difendere la propria identità. Ma la lingua salvata non permette di avere salva la vita. Il doppiaggio delle ultime repliche pone il proprio sigillo alla volontà di sterminio come desiderio di un’ecatombe anche linguistica.

    *

    Torinese, falso e cortese: Mario Soldati, of course. Scrittore e regista cosmopolita e poliglotta, ma al tempo stesso impareggiabile conoscitore della provincia italiana, nel suo romanzo più noto, Le lettere da Capri (1954, Bompiani 2018), Soldati ha optato per un’operazione di doppiaggio integrale: i protagonisti sono una coppia di inglesi che pagina dopo pagina si esprimono in un italiano standard. In un altro suo libro, La sposa americana (1977, Bompiani 2021), ha invece praticato un uso intensivo e variegato del plurilinguismo nei dialoghi.
    Il narratore, Edoardo, giovane studioso di letteratura americana, conosce negli Stati Uniti Edith, una giovane cameriera insieme alla quale tornerà in Italia, per sposarsi. Il bisticcio di lingue cui s’impronta la loro storia sentimentale all’insegna del tradimento si rivela già nel momento del fatidico sì: «Le labbra semiaperte di Edith tremavano leggermente forse soltanto per il timore di una pronuncia ridicola: infatti disse un Sì esageratamente lungo, come see o sea, come “vedere” o come “mare”». Subito dopo, il sacerdote che officia il matrimonio pronuncia un sermone sulla «comprensione reciproca». Per il sollievo del narratore, la predica è di breve durata: «Ero contento che il fervorino finisse perché lei capiva l’italiano ancora molto poco e certamente si annoiava. La comprensione reciproca? Erano passati più di due anni da quando ci vedevamo da Cole’s senza conoscerci. Potevamo dire di conoscerci adesso? Potevo dire, ormai, di sapere tutto di lei? (…) Quante volte, in tutto il tempo che eravamo vissuti insieme vedendoci ogni giorno, le sue parole mi avevano sorpreso!».
    Il romanzo sarà una lunga indagine psicologica sulle ragioni di quell’incomprensione reciproca, di cui lo scarto linguistico tra i due personaggi è al tempo stesso realtà e metafora. Al lettore sarà invece concesso il privilegio della comprensione grazie a un articolato lavoro di scrittura sui dialoghi. Alcune frasi pronunciate in inglese sono spiegate dal narratore:

    “Mind your own fucking businness” disse.
    Nell’accento sguaiato dello slang, equivaleva a un nostro: Occupatevi dei vostri cazzo di affari.

    Altre sono tradotte senza preamboli:

    “Just a fucking mistake of the hairdresser!” disse furiosa: Un fottuto sbaglio del parrucchiere.

    Altre ancora sono riportate prima in traduzione e poi in inglese, per essere infine oggetto di un’analisi da cui il narratore, e con lui il lettore, si aspetta una luce chiarificatrice sulla dimensione enigmatica di certe scelte sentimentali:

    Non dicevo niente, ma fu lei a parlare per prima:
    “Oh, Edoardo” disse in un soffio, “tu come sei dico io… ma non sei per me.”
    Chiudo gli occhi e odo ancora la sua cara voce senza suono mentre diceva queste parole, che ricordo con esattezza assoluta: You’re the way I say… but you’re not for me. E ricordo che mi domandai che cosa Edith intendeva. Tu sei come dico io: cioè, tu sei l’uomo ideale, l’uomo che ho sempre sognato e preferito. But, ma: Ma tu non sei per me: cioè, ma il destino non vuole che continuiamo a vederci. E perché? Perché siamo troppo diversi l’uno dall’altro? (…) Mi è molto difficile, oggi, dopo aver vissuto anni con Edith, ricostruire la mia primissima reazione a quelle sue strane parole. Sul momento, e per mesi e per anni, anche dopo averla sposata, ho dato e continuavo a dare, di quelle strane parole, un’interpretazione opposta a quella che do oggi…

    Un simile scavo nell’equivocità di una singola frase amorosa non poteva certo aver luogo al di fuori del campo idiomatico originario: in un libro che rappresenta la differenza tra le lingue come espressione della barriera tra i caratteri, la menzogna romantica andava smascherata attraverso una verità romanzesca che fosse anche, e innanzitutto, una realtà lessicale.

    *

    Torniamo indietro di una quindicina d’anni, all’epoca della neoavanguardia. Si potrebbe credere che, nei romanzi di fattura più sperimentale, l’uso di idiomi stranieri nei dialoghi sia più disinibito. In realtà non è così. Ma alcune opere offrono soluzioni interessanti. È il caso di Fratelli d’Italia (1963, Adelphi 2000) di Alberto Arbasino, libro in cui, a dire il vero, non si trova un vero e proprio plurilinguismo dialogato, ma un uso liminare di lingue diverse dall’italiano che, di fatto, sui dialoghi riverberano la loro tonalità.
    Per esempio, prima di una delle prese di parola del personaggio di Jean-Claude all’inizio del romanzo:

    Dice molto volentieri: harnaché, gaspillé, bariolé, étincelant, chancelant, démâté. E anche tige, gage, stèle, taupe, jouvence, falaise, pagure, colibri, réséda, forclos, héliante, Hyacinthe, percée, explosante fixe, verveine…

    Dopodiché il francese di Jean-Claude è riportato tra virgolette in italiano, ma quella lista di vocaboli, per lo più ricercati, getterà sul suo discorso diretto un fascio di luce proveniente dalla lingua madre, come per esorcizzare il cattivo sortilegio del doppiaggio.
    Con procedimento simmetrico, all’inizio del capitolo ambientato a Londra è invece una lista di espressioni comuni, e anonime, a creare una tonalità linguistica la cui ombra si proietterà sui dialoghi (tutti in italiano anche quando a parlare sono personaggi che dovrebbero esprimersi in inglese):

    (…) sole, spifferi, ombrelli di portieri, sportelli di taxi, sereno, raggi, scrosci brevi di pioggia, ventate di «thank you», «thank you», «please», «oh thanks», «I’m sorry», «you’re welcome»; «thank you», «never mind», «mind the step», «close the door», «turn the knob», «thank you, thank you, come back soon»…

    *

    Come credo sia ormai evidente dagli esempi citati, una certa dose di doppiaggio è forse inevitabile nei dialoghi in una lingua straniera, pena per il lettore la difficoltà a comprendere quanto detto da certi personaggi, ma esistono accorgimenti di scrittura per restituire al discorso diretto parte della sua autenticità linguistica, in modo da eludere le forme più triviali di banalizzazione della parola, e dunque di mortificazione dei personaggi stessi.
    Per concludere, parlerò di una tecnica che ho utilizzato in un mio romanzo. Ne parlerò non tanto per vanità o presunzione, quanto perché si tratta di una tecnica che non ho preso in prestito da altri scrittori, della quale non conosco altri esempi, e che penso possa essere illustrata con una qualche utilità.
    Ne Le città e i giorni (nottetempo 2024), libro ambientato in vari paesi, molti personaggi sono, come inevitabile, di una nazionalità straniera, e comunicano nella loro lingua coi due girovaghi protagonisti, due fratelli italiani. Per i dialoghi ho adottato una tecnica composita. Tutto ciò che è tra virgolette è lasciato nella lingua originale. In genere, sono scambi la cui comprensione non è strettamente indispensabile all’intelligenza delle situazioni e vicende narrate; la loro funzione è di tipo cromatico: conferire una realistica profondità di colore alla lingua dei personaggi, per sottrarli al fenomeno barbarico di uniformazione oggi in voga sulla pagina scritta. Nei casi in cui il contenuto dei dialoghi ha invece una rilevanza narrativa, ho impiegato, per tradurli almeno in parte, in alternanza con il discorso diretto che trascrive le repliche nella lingua originale, il discorso diretto libero: la forma di discorso che consiste nel riportare le frasi di un personaggio senza l’uso delle virgolette e dei verbi introduttivi (disse, esclamò ecc). L’eliminazione di questi indicatori permette, credo, di smorzare lo sgradevole effetto doppiaggio.
    Nell’esempio che segue, un missionario italiano nella Repubblica centrafricana parla con il catechista di un villaggio per raccogliere informazioni su un caso di pedofilia che ha coinvolto alcuni militari francesi di stanza nel paese, e sul quale indaga, per una ONG, Emanuele, uno dei due protagonisti del romanzo. Dopo un inizio di conversazione nella lingua locale, riportato al discorso indiretto — «I due uomini cominciano a parlare tra loro in sango, scambiandosi qualche pettegolezzo sugli abitanti del villaggio (ridono pronunciando frasi le cui sole parole intelligibili per un profano sono nomi di battesimo: Joseph, Georgette, Orphée)» —, la sequenza di domande e risposte si avvale anche del discorso diretto e del discorso diretto libero:

    Gli domanda in francese, per farsi capire da Emanuele, come vanno i corsi di catechismo per i bambini, se la frequenza è stabile, la partecipazione attiva. Justin risponde di sì. Gli chiede poi se i bambini vanno a scuola regolarmente, se studiano. “Oui, ça va, ils travaillent bien,” concede senza vera convinzione Justin. Padre Gerolamo viene allora al dunque: quando c’era il presidio francese, tra la gente del villaggio e i militari ci sono stati contatti? I bambini razzolavano mica da quelle parti? Non è che per caso sono successe cose strane, che non vanno bene? “Réfléchis bien, Justin…” Il catechista mormora sovrappensiero: “Des trucs bizarres… les soldats…” Padre Gerolamo lo incoraggia… “Oui, Justin, est-ce que tu as remarqué quelque chose? Réfléchis bien, dis-moi…” Justin sembra immerso in una fantasticheria e ripete: “Le fleuve, le fleuve…” Il fiume? Justin, cos’è successo al fiume? “… Le fleuve, là où les enfants vont se baigner, où ils vont chercher de l’or…” Sì, il fiume dove i bambini vanno a fare il bagno o a cercare dell’oro, Justin, cosa succedeva al fiume?… “Parfois les soldats y allaient, je les voyais souvent sur leur quatre-quatre…” Vedevi spesso i soldati sul loro fuoristrada, bene Justin, ora ho bisogno che tu faccia una cosa, voglio che oggi t’informi su questa storia del fiume, sui soldati francesi e i bambini, domani noi torniamo e ci racconti cos’hai sentito, ci spieghi un po’ la situazione, d’accordo? Justin annuisce: “Oui mon père, nous sommes d’accord…” Padre Gerolamo comincia a guardarsi intorno con aria spazientita: “Bien mon ami, merci, on se revoit demain alors, et la famille ça va?” Il missionario e il catechista riprendono a parlare in sango, il loro tono è ora disteso, scherzano e ridono, contagiando col loro buonumore Emanuele, che non capisce nulla di ciò che dicono.

    Nello scrivere questa scena ho cercato, sul modello di Malaparte o Soldati, ma con altra tecnica, da un lato, di rendere comprensibile a un lettore italiano lo scambio tra i due personaggi, dall’altro, di produrre il più possibile l’impressione di un dialogo non doppiato. L’uso alternato dei discorsi indiretto, diretto e diretto libero mi è parso il modo migliore di perseguire questo duplice fine.

    *

    In letteratura i dialoghi non hanno la funzione di riprodurre fedelmente il parlato. Trasposta tale e quale sulla pagina, una conversazione risulterebbe illeggibile. L’arte del dialogo è il più periglioso degli esercizi letterari, sempre in bilico tra naturalismo e formalismo. L’uso a volte necessario di altre lingue può calibrarsi, grazie ai diversi generi di discorso riportato, su questo equilibrio estetico tra mimesi e artificio. Ma il suo significato più profondo è un altro. Come suggeriva Proust nel Contro Sainte-Beuve, «i bei libri sono scritti in una sorta di lingua straniera». Chi scrive deve diffidare il più possibile della propria lingua materna, fonte inesauribile di automatismi, conformismi, narcisismi. La ricerca del plurilinguismo nei dialoghi è anche una strategia per sfuggire al peggior nemico di uno scrittore: il suo stesso io.

    Filippo D'Angelo

    Filippo D’Angelo vive tra Genova e Parigi. Scrittore e traduttore, ha pubblicato il romanzo La fine dell’altro mondo (2012) e curato l’antologia Troppe puttane! Troppo canottaggio! (2014), entrambi usciti per minimum fax. Dirige la rivista culturale online Snaporaz. Il suo romanzo più recente è Le città e i giorni (nottetempo 2024).

    Foto di Gaia Cambiaggi