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Amico mio. Quattro domande a Gianmarco Perale

    In occasione dell’uscita in libreria di Amico mio (NNEditore 2023), abbiamo chiesto a Gianmarco Perale, ex allievo della Scuola annuale di scrittura e autore di Le cose di Benni (Rizzoli 2021), di raccontarci come ha lavorato a questo secondo romanzo.

    1. In Amico mio il punto di vista è quello del protagonista tredicenne, Tommaso, detto Tom: la narrazione è filtrata dai suoi occhi che registrano i gesti, anche minimi, degli adulti, l’atteggiamento dei compagni di classe e, soprattutto, quello di Poni, il suo migliore amico. Qual è la difficoltà maggiore nell’assumere – e nel mantenere fino all’ultima pagina – il punto di vista di un ragazzino?

    È importante (direi importantissimo) non sottovalutare mai il personaggio. Tom è un ragazzino complessato (e particolarmente sveglio), cresciuto senza un padre e con responsabilità che non gli competevano (essere l’uomo di casa, prendersi cura della madre, ecc.), e che ha perciò sviluppato capacità manipolatorie allenate negli anni, utilizzate per superare ostacoli di fronte ai quali un bambino non dovrebbe trovarsi (e anche qui: chi l’ha detto che “non dovrebbe”? Può succedere. Succede. È la vita.). Perciò, quando parlo con la voce di Tom non parlo attraverso il cliché di un bambino. I suoi ragionamenti potrebbero essere i miei (quelli che potevano essere, quelli che forse sono stati). Ragionamenti complessi quanto quelli di un adulto, ma corrosi da preoccupazioni e ansie infantili. La sua percezione dell’insieme è amplificata e paranoica perché è un ragazzino sensibile (come può esserlo un adulto). Spesso, scrivendo, il rischio è di associare i bambini a comportamenti semplici, ingenui. Di credere stupido un bambino e di fargli dire cose stupide. Fargli elaborare pensieri e fargli compiere azioni che nel nostro immaginario associamo ai bambini. Mantenere alto il livello di ogni suo pensiero non è difficile fintantoché siamo convinti che tutto ciò che Tom dice debba avere un suo senso. Non è difficile fintantoché gli crediamo e siamo disposti a trattarlo da pari. Finché a ogni suo  o suo No, allo spazio di silenzio che anticipa o che posticipa il  o il No siamo disposti a attribuire un significato, un’intenzione –  un pensiero che magari lui vuole tacere (non per questo quel pensiero non esiste!). È  in quello spazio di silenzio che dobbiamo entrare per accorgerci che i pensieri di Tom sono reali. Reali in quanto intuibili. Pensieri che ipotizziamo nella nostra testa di persone che sono accanto a Tom durante tutto il suo percorso, fino alla fine del libro. Intenzioni verosimili, acute, reali. A essere davvero importante non è il modo in cui Tom agisce, le scelte che fa, le sue inversioni di marcia. Ma il nostro tentativo di capire. Il risultato è nel percorso.

    2. Nonostante il filtro dello sguardo di Tom, chi legge ha scarso accesso al suo mondo interiore: non sappiamo cosa pensi il protagonista, le sue intenzioni e emozioni si possono solo intuire. Tutto è nei dialoghi, soprattutto nei botta e risposta con Poni, che tacciono più di quanto non rivelino. Come lavori alla caratterizzazione attraverso dialoghi tanto essenziali e efficaci? E come si è svolto il lavoro di editing su un romanzo come il tuo, la cui cifra stilistica sta nella sottrazione?

    Nei dialoghi mi diverto. Ogni personaggio cerca di mettere in difficoltà l’altro e ogni frase vuole dire più di quello che è. Dietro a un “Come stai?” si nasconde sempre dell’altro. Nel mio periodo accademico, studiando Teatro, ascoltavo attentamente i dialoghi negli spettacoli, negli esercizi, nelle prove ecc. Ero così fissato (davvero ossessionato) che li ripetevo, parlavo da solo, li riscrivevo. Li confrontavo con i dialoghi della vita vera e appuntavo le differenze (ripetizioni, cambi di discorso, gesti, sguardi), e sapevo che non potevo usare tutto, che dovevo scegliere. Ogni gesto che trova spazio nella scrittura ha un valore in quanto ho scelto di rappresentarlo. Il gesto banale di spostare un bicchiere sul tavolo nel testo assume un valore proprio perché è un gesto inutile, privo di importanza nella vita reale. E più il gesto è inutile, tanto maggiore sarà l’importanza che assume nel momento in cui diventa il focus della scrittura. In un botta e risposta, un  senza spiegazioni trova in realtà spiegazione nel silenzio, nel tempo di risposta, nel gesto inutile che lo accompagna. Perciò i personaggi non smettono mai di parlare. E a un certo punto, guardando il dialogo dall’alto (uscendo quindi dal corpo dei personaggi che dialogano) mi domando se lo squarcio di vita che ho ricostruito è credibile. Se le domande, le ripetizioni, le frasi nascoste che nella vita sono la norma sono state catturate dai modi, dai tempi, dall’energia che chi legge ritroverà sulla pagina.

    Un’altra cosa importantissima: non comincio mai un dialogo sapendo quello che devono dirsi i personaggi. Inizio a farli parlare tenendo a mente che cosa vuole ottenere l’uno dall’altro e mi lascio andare. Li lascio scherzare, discutere, guardarsi. Non ho mai fretta di raggiungere qualcosa. Non è neanche importante che questo qualcosa – qualsiasi cosa esso sia – venga raggiunto. E se non viene raggiunto adesso, forse sarà raggiunto al prossimo capitolo. O magari mai. O magari sarà raggiunto soltanto nella testa di uno dei due, mentre l’altro ne resterà per sempre all’oscuro.

    Per quanto riguarda l’editing, nel mio caso è complicato perché, come hai detto tu, lavoro per sottrazione (è più forte di me). Quando rileggo qualcosa di mio, come tanti, penso immediatamente a quello che non va. A quanto è retorico, consolatorio ecc. A come potrebbe diventare più semplice. Così elimino. Una volta mi trovavo a Roma con Walter Siti. Eravamo in coda alla cassa di un bar. Nell’attesa, guardandomi intorno mi sono accorto di un cartello affisso al frigo delle bevande lì vicino, con scritto: Prima di prendere da bere fai sempre lo scontrino alla cassa. Io ho guardato Walter e gli ho chiesto: “Non sarebbe meglio Prima di prendere da bere fai sempre lo scontrino alla cassa?, è ovvio che si fa alla cassa.”. Lui si è messo a ridere. Devo ringraziare lui e Serena Cabibbo, la mia editor: sono migliorato molto. Ma per lei non credo sia semplice. A ogni rilettura taglio parole, frasi, talvolta intere scene. Metto in dubbio quello che ho scritto. Sacrifico. La sua bravura sta anche nel convincermi che quella parola non può essere una parola in più perché è l’unica che è rimasta.

    3. All’interno del romanzo sono presenti anche la fototessera di un ragazzino e una fotografia che ritrae un bambino vestito da pirata: in che modo questi elementi contribuiscono a completare l’universo finzionale?

    Le fotografie sono importantissime. Rappresentano due Horcrux fondamentali e opposti. La fototessera simboleggia per Tom l’Horcrux di Leo Fosco (nonostante lui non lo dica). Chiedendo a Poni di distruggerlo, Tom chiede (pretende) una prova d’amore senza accorgersi che la fototessera è in realtà un suo Horcrux, creato involontariamente da Tom stesso attraverso l’odio e la rabbia. Rubando quella fototessera dallo zaino di Leo Fosco, Tom si è convinto inconsciamente di avergli rubato un frammento di anima (soltanto perché la fototessera apparteneva a Leo Fosco: per questo chiede a Poni di distruggerla) quando in realtà è parte della sua stessa anima (l’anima di Tom, appunto) a essere stata imprigionata nella fototessera nell’istante esatto in cui Tom ha deciso di rubarla. E la stessa cosa avviene per la seconda foto, ma nel senso opposto. Tom impugna la foto dell’amico (Poni vestito da pirata) e la rivendica come un suo Horcrux perché prova un sentimento positivo per lui (direi un sentimento d’amore). Questo dimostra che Tom riconosce come propri solo gli Horcrux che vuole lui, quelli che secondo lui sono atti d’affetto, non accorgendosi (o non considerando) quelli creati attraverso l’odio. Ed ecco la sua incapacità di vedere, riconoscere, realizzare, giudicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Era fondamentale per me che il simbolo Horcrux fosse quasi tangibile. Che non rimanesse un’idea letteraria ma che si facesse testimonianza plausibile, possibilità autentica, capace di rendere questo mondo più compiutamente fittizio. Ma di una finzione ambigua. Ingannevole. Al limite.

    4. Al centro sia di Amico mio che del tuo romanzo di esordio Le cose di Benni c’è un’ossessione, quella di Tom nei confronti di Poni nel primo caso e quella di Drago nei confronti di Benni nel secondo. Quali sono i punti di contatto tra i due romanzi e quali, invece, le maggiori differenze?

    Si scrive per tutta la vita lo stesso romanzo.

    Gianmarco Perale

    Gianmarco Perale, classe ‘88, vive tra Venezia e Milano. Ha frequentato la scuola di scrittura Belleville ed è stato allievo di Walter Siti. Il suo romanzo d’esordio Le cose di Benni (Rizzoli 2021) è stato finalista al Premio POP, al premio Severino Cesari e nella cinquina finale del Premio Flaiano Under 35. Amico mio(NN editore 2023) è il suo secondo romanzo.