Abbiamo chiesto a Luciana Cisbani, traduttrice e docente del corso intensivo di traduzione dal francese Professione: traduttore in partenza a ottobre, di rispondere a alcune domande su Triste tigre di Neige Sinno, pubblicato in Italia per Neri Pozza e vincitore del Premio Strega Europeo 2024.
- Come descriveresti la prosa di Triste tigre?
Dal punto di vista di un traduttore la prosa di Triste Tigre assomiglia a un rigoglioso patchwork, a una coperta in cui convivono varie figure e stoffe. Dentro c’è di tutto: articoli di giornale, canzoni di Johnny Hallyday, il verbale di un processo, favole…
Non possiamo considerarlo un romanzo, ma non è nemmeno un saggio, né un memoir o un’autobiografia; è un genere a parte, talmente ricco di citazioni e riferimenti letterari che ogni pagina apre una porta su altri libri, suggerisce visioni nuove, fa sorgere domande.
Più che una linearità di forma, quindi, questo libro possiede una linearità di pensiero: se lo guardi da vicino il progetto può sembrare poco coeso, ma appena ti allontani e lo osservi un po’ più a lungo capisci cosa voleva rappresentare l’autrice.
E a mio parere Neige Sinno vuole che ci muoviamo nella multiformità di questo patchwork, che ci prendiamo il tempo per riflettere su che cos’è il potere, la menzogna, il rapporto crimine-pena, lo stupro, la letteratura…
Sinno cambia le lenti attraverso cui osserviamo la realtà, lasciandoci intravedere mondi di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. Ha voluto seminare dubbi, spunti di riflessione su tematiche fondamentali e l’ha fatto con una scrittura che non tende mai a una letterarietà forzata e a frasi lambiccate; è la lucidità di fondo a fare da fil rouge e ad accompagnarci nel corso del testo.
2. Quali aspetti del testo hanno richiesto maggiore impegno da parte tua e perché?
Faccio una breve premessa: in Triste Tigre ci sono ben 24 citazioni – per limitarci a quelle tratte dai libri – a cui si aggiungono canzoni, articoli… occuparsi solo della bibliografia è un lavoro a parte che ha richiesto tantissimo tempo e tantissima precisione. Sembra una piccolezza ma quando ti offrono un libro da tradurre raccomando sempre di guardare se c’è una bibliografia perché alla fine può rivelarsi un grosso impegno in termini di tempo.
Direi che l’aspetto più delicato per me è stato aderire alla voce dell’autrice. Può sembrare banale dal momento che è un discorso valido per qualsiasi opera letteraria, ma in questo caso significava aderire a una voce che aveva una sua lucidità particolare, una sincerità nella scrittura. Ed è stato impegnativo rimanere fedele alla sincerità di una lingua a volte scomoda. Ho lavorato per preservare la sincerità di cui è pregno il materiale linguistico nell’originale.
Un altro aspetto sfidante è stato aderire alle sfumature con cui Neige Sinno esprime il bisogno di non giudicare, non incasellare e non offrire soluzioni preconfezionate: se il francese riportava delle ambiguità io le ho lasciate. Faccio parte di quella scuola di traduttori e traduttrici che non vogliono “normalizzare” i testi su cui lavorano proprio perché credo che certe ammaccature della lingua siano importanti e vadano mantenute.
Un’ulteriore difficoltà è stata attenersi a un registro altalenante, che passa dal colloquiale allo specialistico, dal registro magico delle favole alla Pinkola Estés alle canzoni… È stato come salire sulle montagne russe: non sapevo cosa mi aspettasse dietro l’angolo. Mi sono lasciata portare da Neige Sinno, mi sono affidata a lei.
3. Tra tutti gli errori in cui si può imbattere un traduttore o una traduttrice, quali consideri i più perniciosi?
Gli errori più pericolosi sono innanzitutto i calchi, la non conoscenza dei registri della lingua, dei toponimi e dei “realia”, ignorare cioè quei termini culturo-specifici per cui una traduzione finisce per riportare un elemento estraneo che il lettore italiano non riesce a interpretare.
Come diceva Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa, infatti, quando si traduce bisogna avere una conoscenza del mondo che non vuol dire una conoscenza enciclopedica, bensì la capacità di farsi venire dei dubbi: mentre traduci devi vivere con il folletto del dubbio sulla spalla ed è questo scrupolo che ti porta a controllare e verificare più volte.
Un altro errore, secondo me, consiste nella mancanza di differenziazione dei vari personaggi, nella mancata resa delle caratteristiche, dei movimenti, degli atteggiamenti e, ovviamente, della voce di ciascuno. Ed è per questo che si nota subito quando un traduttore inciampa in un dialogo.
L’errore più tremendo, a mio avviso, resta la normalizzazione, la tendenza ad appiattire un testo fino a renderlo un “pastone” comprensibile a chiunque, annullandone salti e scarti della lingua in modo che chi legge non debba mai fare la fatica di porsi delle domande.
4. Il lavoro del traduttore è spesso percepito come un’attività solitaria, ma sappiamo che è così fino a un certo punto… cosa puoi dirci del rapporto con la redazione e/il revisore/revisora di traduzione?
I revisori sono la rete che abbiamo sotto di noi quando percorriamo il filo di una traduzione, e, proprio come accade ai funamboli, senza la rete offerta dal revisore rischiamo di cadere a più riprese e fare molto male. All’autore, al lettore e a noi stessi.
Anche il traduttore più esperto, infatti, pur avendo chiaro il progetto traduttivo, meditato a lungo e consultato preziosi colleghi, pur avendo individuato la voce dell’autore o dell’autrice, può smarrire degli elementi che solo il revisore riesce a notare: dimenticanze, dettagli, difformità di registro o di lessico.
In generale, quanto più si lavora in squadra tanto meglio riesce il prodotto finale; la stessa traduzione di Triste Tigre per Neri Pozza ha risentito tantissimo di questa grande collaborazione… ed è stata un’esperienza bella e arricchente.