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Basta un pezzo di mare. Quattro domande a Ludovica Della Bosca

    In occasione all’uscita in libreria del suo romanzo d’esordio per Corbaccio, abbiamo chiesto a Ludovica Della Bosca, che a Belleville ha frequentato l’edizione 2017-2018 della Scuola annuale, di rispondere a alcune domande su Basta un pezzo di mare.

    1. Il romanzo, come spesso accade, nasce da un’immagine: il viaggio di un astice verso il mare. Come hai sviluppato questo nucleo originario per costruire la storia?

    L’idea del romanzo è nata proprio durante il mio percorso annuale a Belleville. Conoscevo già molto bene le due protagoniste, Agata e Sara, avevo in mente chi fossero e cosa stessero cercando ma non riuscivo a trovare una storia che mi permettesse di costruirci intorno un romanzo in cui farle evolvere. Ai tempi lavoravo al centro commerciale Fiordaliso di Rozzano, dove lavoro tuttora, e un giorno, in pausa pranzo, mi sono trovata a fissare un astice nel reparto del pesce fresco dell’Iper, che a sua volta sembrava stesse fissando proprio me. Cosa potevo fare per lui? Mi sono risposta che non c’era niente che potessi fare e sono andata via con una grande tristezza. Ho pensato che nei suoi occhi ci fosse lo stesso dolore che mi sentivo dentro io, in quel periodo soprattutto, e che aveva dentro anche Agata. Poi sono tornata al lavoro e me ne sono dimenticata.

    La storia è iniziata qualche settimana dopo, stavamo facendo lezione a Belleville e, mentre il docente di turno spiegava, per me è diventato tutto chiaro: dovevo iniziare a scrivere la storia dell’astice. Forse non potevo liberarlo io come persona, io come dipendente del Fiordaliso, ma Agata e Sara sì. Così ho acceso il computer e ho iniziato a scrivere come una matta. Mi spiace per quel docente perché non ho ascoltato neanche una parola di ciò che ha detto, non so neanche quale fosse l’argomento, però è stata la lezione più importante di tutto l’anno accademico a Belleville, e anche degli anni successivi, perché è stato in quel preciso momento che è iniziato davvero il viaggio dell’astice.

    2. Agata e Sara, le due giovani protagoniste, sono una lo specchio dellaltra: Agata vive in un limbo, Sara in una fuga perpetua; la prima ricorda la madre scomparsa, la seconda scappa da una madre presente e severa. Come hai lavorato sui punti di vista delle protagoniste e sulle loro voci?

    Sara e Agata sono una l’opposto dell’altra ma è solo quando capiscono di essere complementari che possono scoprirsi entrambe complete. A tutte e due manca qualcosa e quel qualcosa è proprio ciò che l’altra ha in eccesso. Lavorare sui due punti di vista è stato abbastanza semplice perché mi è bastato adottare quello di Agata, che nella mia testa è arrivata per prima, e pensare al contrario: se Agata diceva qualcosa, Sara avrebbe risposto tutto l’opposto.

    Per quanto riguarda la voce, una volta definiti i caratteri, cercavo di immaginarle nella mia testa e provavo a parlare come se fossi loro. Prima di iniziare a scrivere ripetevo, sussurrandole, alcune frasi che secondo me erano coerenti con i loro personaggi e quando sentivo che il tono della voce era quello giusto iniziavo a scrivere di getto perché a quel punto non potevo più fermarmi. Solo una volta terminato iniziavo con la prima delle infinite revisioni, in cui con criterio cercavo di dare coerenza ai loro modi di parlare e di aggiungere le loro caratterizzazioni e i tic linguistici. Ad esempio, Sara utilizza sempre periodi lunghi con tante subordinate, un lessico più complesso e un ritmo più dolce, mentre Agata pensa con periodi molto più corti, composti da poche parole e tante virgole, che rendono la sua narrazione spigolosa. E poi Agata ha il tic linguistico del chissà, che personalmente mi diverte molto, nel romanzo lo usa quasi una trentina di volte.

    3. Oltre a Sara e Agata, c’è un terzo protagonista: Fabrizio, lastice liberato nel mare di Genova, del quale si raccontano le disavventure antecedenti l’incontro con Agata. Cosa rappresenta lastice allinterno del romanzo?

    L’astice, per quanto silenzioso ed estraneo, è importante esattamente quanto Agata e Sara perché, anche se non fa (quasi) mai sentire la propria voce, è il terzo protagonista del romanzo ed è proprio grazie a lui che le cose accadono. Fabrizio rappresenta la libertà, non solo da quella che può essere una prigione fisica, come ad esempio il suo acquario o una casa che non si riesce a lasciare, ma anche dai fardelli del passato e dal peso delle aspettative. È un animale primordiale che non può vivere in altro modo se non facendo quello per cui è nato: l’astice. Per Agata e Sara rappresenta inoltre il collante della loro amicizia, ciò che le tiene unite e le spinge a intraprendere un viaggio che altrimenti non esisterebbe.

    Per quanto riguarda me, invece, per la mia scrittura, rappresenta anche l’elemento grottesco che permette a tutto il romanzo di assumere la mia voce, di far emergere quella vena umoristica che fa diventare ogni scena prima comica, poi tragica e poi di nuovo comica. Un astice con le chele legate fa impressione o fa riflettere? L’idea di prenderlo e portarlo verso il mare è geniale oppure folle?

    C’è un’ultima persona, infine, per cui l’astice rappresenta una rivincita: la me stessa bambina. Nel libro ne parlo ed è vero quando dico che da piccola ho scritto cinque lettere al WWF senza mai ricevere risposta. Tutti mi dicevano che a nessuno interessava, un po’ come quando me ne uscivo con i miei aneddoti assurdi sugli animali e gli adulti mi guardavano con tenerezza. Bene, ora ci ho scritto sopra un romanzo e ne vado assolutamente fiera.

    4. Parlaci della fase di editing: su quali dimensioni del testo – trama, struttura, caratterizzazione, stile – i sei concentrata maggiormente e perché? Ci sono aspetti del romanzo che ti sono diventati più chiari (o che hai messo a fuoco per la prima volta) grazie al confronto con la tua editor?

    Allora, se devo essere sincera, quando ho presentato il romanzo al Calvino e poi sono stata contattata per pubblicarlo, avevo chiuso il testo già da parecchio tempo ed era stato revisionato maniacalmente almeno un centinaio di volte. Quando poi ho iniziato il lavoro vero e proprio di editing non ho dovuto fare chissà quali modifiche, solo qualche correzione che a me era sfuggita e qualche piccolo ritocco. Mi è stato chiesto di alleggerire un paio di capitoli ma sapevo già che avrei dovuto farlo e mi è stato chiesto di cambiarne del tutto solo uno che però anche per me non aveva mai girato bene; quindi mi sono armata di tanta pazienza e ho fatto quelle modifiche che avevo già messo in programma.

    Le questioni più complicate sono state due: il titolo e l’ultimo capitolo. Per quanto riguarda il titolo mi hanno chiesto di cambiarlo, all’inizio si intitolava Il viaggio dell’astice, e per me è stata una decisione molto dura perché il romanzo è nato con quel titolo e ha continuato a chiamarsi così per tutti gli anni in cui ho cercato una casa editrice che ci accogliesse. Ancora adesso faccio fatica a chiamarlo con il titolo nuovo, credo che nella mia testa resterà per sempre Il viaggio dell’astice.

    L’altra grande questione riguarda l’ultimo capito, di cui però non posso parlarvi troppo perché altrimenti rischierei di rovinare il finale a qualcuno. Mi è stato chiesto di toglierlo ma io non ero d’accordo perché senza quel capitolo – non parlo da autrice ma da persona – l’intero romanzo perdeva di senso, perciò mi sono impuntata e ho detto che non potevo proprio farlo.
    Sono stata molto fortunata perché Luisa, la mia editor, è una persona davvero intelligente e così, dopo una lunga chiacchierata, siamo scese entrambe a dei compromessi trovando una soluzione che, credo, abbia soddisfatto tutte e due.

    Quello che posso dire in generale sull’editing è che in ogni caso, anche se ti chiedono di cambiare un’inezia o sai già che ci sono dei dettagli da modificare, è veramente difficile. Da scrittore diventi molto possessivo nei confronti di quanto hai scritto, e accettare che qualcuno ti imponga dei cambiamenti sul tuo testo, sulla tua creazione, è veramente dura e richiede tanta maturità. Alla fine di tutto, sono contenta di aver pubblicato qualche anno dopo la prima stesura del romanzo perché penso che in quel periodo la maturità che ho adesso non l’avrei avuta, e neanche quel pizzico di distacco che serve per guardare le proprie emozioni con lucidità.


    Ludovica Della Bosca

    È nata a Monza nel gennaio del 1992. In seconda elementare scrive il suo primo romanzo su un foglio protocollo e alla fine della terza media decide di intraprendere un percorso di studi classici. Nel 2011 si diploma presso il liceo ginnasio Bartolomeo Zucchi di Monza e decide di studiare Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano mentre collabora con il Giornale di Monza. A novembre del 2017 inizia a frequentare un corso annuale presso la scuola di scrittura Belleville, dove capisce finalmente che quello di diventare scrittrice è il suo sogno più grande. Basta un pezzo di mare (Corbaccio 2024), segnalato dalla giuria del Premio Calvino 2022, è il suo primo vero romanzo.