In occasione dell’uscita in libreria di L’uomo che parlava ai funerali (Astoria 2025), abbiamo chiesto a Mario Zangrandoi, che ha frequentato i tre moduli del corso “Scrivere di notte” con Federico Baccomo, Simona Vinci e Benedetta Bolis, di rispondere ad alcune domande sul suo esordio.
Buona lettura!
1. Da quale spunto, immagine o nucleo narrativo sei partito per iniziare a scrivere L’uomo che parlava ai funerali?
Il primissimo germe del romanzo è stato una mezza pagina che ricordo di aver scritto almeno una decina di anni fa.
Al centro c’era una voce che, nella mia testa, ancora non aveva un’età precisa, una storia, una qualunque caratterizzazione. Questa voce raccontava che, dalle sue parti, si moriva o di disgrazia o di brutto male. Il resto era soltanto attesa dell’inevitabile. Ho provato ad immaginarmela come una persona giovane, poi come una persona adulta, infine come una persona anziana. Nel frattempo sono passati degli anni, almeno cinque, in cui ho fatto diverse esperienze tra cui un master in sceneggiatura e ho iniziato a dedicarmi con più metodo alla scrittura. A quel punto, con maggiore consapevolezza, ho tirato fuori dal cassetto quell’incipit che, nel giro di qualche settimana, ha preso la forma di un racconto. Qualche tempo dopo, grazie a Belleville e alla borsa di studio che mi è stata offerta per frequentare il corso “Scrivere di notte”, ho iniziato a svilupparlo come romanzo.
2. Nel tuo romanzo si alternano due linee temporali distinte: la prima racconta il presente in cui Renato, ormai anziano e amareggiato, colleziona necrologi e presenzia a tutti i funerali del paese; la seconda ripercorre i principali eventi della sua vita, dagli anni ’80 in poi. Cosa ti ha spinto a optare per questa struttura?
Questa scelta di struttura è nata durante il terzo modulo di “Scrivere di notte” quello laboratoriale. Avevo la necessità di tenere assieme, da una parte, le vicissitudini di questo frequentatore seriale di funerali e, dall’altra, di far capire, un po’ alla volta, le ragioni della sua mania. Abbiamo discusso sia con la docente (l’editor Benedetta Bolis) sia con le compagne di corso, le varie possibilità che avevo in mente e quella che convinceva di più era quella che abbiamo definito “struttura a pettine” dove i denti del pettine erano i funerali, collocati nel presente, mentre gli spazi che separavano un dente dall’altro erano colmati e collegati da flashback innescati nella mente di Renato da un dettaglio, una parola, un’analogia colti durante i riti funebri cui assisteva. La struttura all’inizio era un po’ rigida, poi col succedersi delle stesure l’ho via via sfumata, pur mantenendo i due piani temporali sempre presenti e distinti fino a tre quarti della narrazione quando cominciano a sovrapporsi per accompagnarci verso il finale.
3. Intorno a Renato ruotano una serie di personaggi (primi tra tutti la moglie Lidia e il figlio Luca) e di comparse (l’ex sindaco e la moglie Viviana, il Cavalier Stella, l’amico Armando): come hai lavorato alla loro caratterizzazione?
Lidia e Luca mi sono stati chiari fin dall’inizio. Stabilita la personalità di Renato, persona metodica, mansueta, introversa, trattenuta ho cercato di mettergli accanto una compagna che fosse invece l’opposto, una donna capace di completarlo come persona e in grado di sconvolgerlo con il suo disordine, la sua passionalità, il suo buttare cuore e corpo oltre ogni ostacolo. In Luca, loro figlio, ho cercato un compromesso dei due caratteri: un bambino riflessivo, con tante domande, come il padre, ma che combina dei bei guai come la madre, in grado di farsi perdonare grazie al suo genio e alla sua dolcezza. Gli altri personaggi sono un po’ meno centrali ma molto importanti ai fini della storia. Viviana nell’arco del romanzo ha un’evoluzione che da comparsa la rende un comprimario. L’amico Armando e il Cavalier Stella invece sono gli alleati di Renato, il primo è una sorta di fratello maggiore con più senso pratico e una visione disincantata delle cose, il secondo è un vero e proprio mentore. L’ex sindaco è invece caratterialmente, socialmente, antropologicamente antitetico a Renato e minaccia in forma indiretta e, ad un certo punto, anche diretta la stabilità del protagonista. Nel caso di questi personaggi ma anche di altri che hanno ruoli ancora minori (penso a Babatunde, l’inserviente della casa di riposo, oppure ai vari amici e parenti dei defunti che Renato incrocia ai funerali così come ai defunti stessi) la loro presenza è, prima di tutto, al servizio della storia e del suo svolgimento, e solo in un secondo momento ho approfondito le loro caratterizzazioni.
4. Quale aspetto della scrittura ti risulta più facile e quale, invece, più ostico?
La parte più difficile è sempre iniziare. Bisogna prendere delle grandi decisioni in partenza, come la scelta del punto di vista, ad esempio: narrare in prima persona? Ma chi sarà questo io narrante? E siamo sicuri che sia la persona giusta? Oppure scegliere un narratore in terza persona, ma questo narratore saprà tutto? Saprà molto? Saprà giusto il necessario? O anche qualcosa meno del necessario? Il pensiero di sbagliare il punto di vista mi mette in crisi, si rischia di non rendere il giusto servizio all’idea di partenza. Poi però quando la storia prende avvio e inizio a sentire il desiderio di abitarla, di conoscere i personaggi, di farli muovere nello spazio e nel tempo, di farli interagire tra di loro, mi accorgo che le dita iniziano a volare sulla tastiera e il tempo scorre più veloce e, quasi quasi, il mondo della storia è meglio del mondo che c’è fuori casa. Questa per me non solo è la parte più facile, è proprio la parte più bella della scrittura.
