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Elogio dell’ombra. Papa Francesco e la letteratura

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    In un contesto che vede gli scrittori ergersi sempre più spesso a predicatori – specie dai pulpiti dei loro profili social –, è con piacevole sorpresa che si legge la Lettera del Santo Padre Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione, un vero e proprio manifesto di estetica, più vicino alle posizioni di Milan Kundera nell’Arte del romanzo o di Walter Siti in Contro l’impegno che all’attuale, dilagante tendenza a confondere discorso letterario e discorso morale. 

    Nel rivolgersi principalmente ai futuri sacerdoti, papa Francesco prescrive la lettura come rimedio alla facilità e superficialità di giudizio, come iniziazione a un’etica dell’ascolto aperta alla logica della complessità: «Lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza, insegnandogli una povertà che è fonte di straordinaria ricchezza. Nel riconoscere l’inutilità e forse pure l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto, il lettore accoglie il dovere del giudizio non come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco». Mentre la cultura laica e progressista sembra oggi sempre più incline al manicheismo e alle scomuniche, il più alto rappresentante della chiesa cattolica, istituzione tradizionalmente assimilata a forme retrive di chiusura mentale, propone di guardare alla specificità irriducibile del fenomeno letterario: uno spazio simbolico in cui i principi morali che regolano la vita collettiva o individuale possono essere messi alla prova, ridiscussi, sovvertiti, ridisegnati.   

    Molti, se non tutti, fra coloro che lavorano in ambito letterario obietteranno: “Ma come?! Anche noi pensiamo che la letteratura sia specchio delle ambivalenze umane e maestra di complessità!”. In verità, come sa chiunque abbia un po’ di dimestichezza con quel mondo, gran parte degli scrittori, dei critici e degli editori opera per fomentare le aspettative di lettori sempre più bramosi di storie edificanti, spesso prese in prestito da una realtà già scritta prima di essere messa sulla carta: una realtà prevedibile, scontata nei suoi drammi e nelle loro, in genere, felici risoluzioni.  

    Papa Francesco nega invece esplicitamente il valore di qualsiasi proposito edificante applicato alla letteratura: «il lettore non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona che viene attivamente sollecitata ad inoltrarsi su un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati». Questo approccio antimoralistico sfocia in una concezione della lettura non dissimile dalla teoria ermeneutica della narratività elaborata da Paul Ricœur, secondo il quale la finzione letteraria permette al lettore di riconfigurare la propria esperienza del mondo. «L’atto della lettura», dice il Papa, è «un atto di “discernimento”, grazie al quale il lettore è implicato in prima persona come “soggetto” di lettura e, nello stesso tempo, come “oggetto” di ciò che legge. Leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà il lettore vive l’esperienza di “venire letto” dalle parole che legge».

    Non si tratta ovviamente, per papa Francesco, di promuovere uno scombussolato relativismo etico. Ma la specificità della letteratura di finzione è, qualora essa adempia alla sua autentica missione, di ingenerare nel lettore non solo, secondo la celebre formula di Coleridge, la sospensione dell’incredulità, ma anche la sospensione del giudizio morale: «Nell’aprire al lettore un’ampia visione della ricchezza e della miseria dell’esperienza umana, la letteratura educa il suo sguardo alla lentezza della comprensione, all’umiltà della non semplificazione, alla mansuetudine del non pretendere di controllare il reale e la condizione umana attraverso il giudizio». Per questo papa gesuita, l’esperienza della letteratura come «palestra di discernimento» si fonda sul principio ignaziano della desolazione, intesa, secondo la definizione dello stesso fondatore della Compagnia di Gesù, come «oscurità dell’anima» e «turbamento interiore». Grazie a questa desolazione, la «letteratura diventa allora una palestra dove allenare lo sguardo a cercare ed esplorare la verità delle persone e delle situazioni come mistero, come cariche di un eccesso di senso, che può essere solo parzialmente manifestata in categorie, schemi esplicativi, in dinamiche lineari di causa-effetto, mezzo-fine».

    Parole inattuali, opportunamente articolate in un denso ragionamento che, oltre a toccare altri aspetti essenziali della giunzione tra fenomeno letterario e fenomeno religioso (il rapporto tra parola poetica e parola rivelata, l’analogia di fondo tra mimesi romanzesca e incarnazione del verbo), chiama a testimonianza, senza indulgere a scelte demagogiche, scrittori come Proust e Borges, T. S. Eliot e Celan, o gesuiti eterodossi come Jean-Joseph Surin, grande mistico vissuto nel Seicento, e Michel de Certeau, uno dei maggiori intellettuali francesi del secondo Novecento. Ma la citazione che forse meglio riassume l’argomentazione di papa Francesco è una frase dello scrittore inglese C. S. Lewis: «Vedere attraverso gli occhi degli altri». Di per sé potrebbe sembrare una banalità. In realtà, seguendo con attenzione il ragionamento del Papa, si comprende che l’uso di questa citazione è propedeutico a un tentativo, per nulla scontato e del tutto credibile, di saldare concettualmente etica cristiana ed estetica letteraria. A questo proposito, è necessaria una breve digressione. 

    In quello che, a mio parere, è forse il più importante saggio di teoria della letteratura mai scritto, La logica della letteratura (Die Logik der Dichtung, 1957), Käte Hamburger ha identificato come principale caratteristica del discorso letterario la capacità di rappresentare la vita interiore di una “terza persona”, ovvero di una persona che non sia né l’io né il tu del virtuale dialogo tra autore e lettore. Con un gesto teorico radicale, Hamburger ha così escluso dalle proprie indagini non solo tutti i generi di scrittura autobiografici, ma anche quello del romanzo in prima persona, considerato come una semplice forma di racconto autobiografico fittizio (un trattamento a parte è invece da lei riservato alla poesia lirica, la cui fonte di enunciazione sarebbe un io-origine indeterminato). Secondo La logica della letteratura, la prerogativa di rappresentare la vita interiore di una terza persona appartiene solo alle narrazioni finzioniali in terza persona, in particolare grazie a tecniche quali il discorso indiretto libero e il monologo interiore, che permettono di accedere ai pensieri, alle sensazioni e ai sentimenti di un personaggio nel momento stesso della loro emersione. Questa esperienza, impossibile nella realtà, è resa possibile solo dalla finzione proprio in quanto finzione. 

    Ora, la concezione della letteratura di papa Francesco corrisponde precisamente alla proposta teorica di Käte Hamburger. Quando parla di «vedere attraverso gli occhi degli altri», il Papa si riferisce a «una capacità di identificazione con il punto di vista, la condizione, il sentire altrui» incarnati da personaggi romanzeschi, da creature di finzione: «Mentre sentiamo tracce del nostro mondo interiore in mezzo a quelle storie, diventiamo più sensibili di fronte alle esperienze degli altri, usciamo da noi stessi per entrare nelle loro profondità, possiamo capire un po’ di più le loro fatiche e desideri, vediamo la realtà con i loro occhi e alla fine diventiamo compagni di cammino». Nel testo di papa Francesco non c’è invece nessuna traccia delle forme narrative oggi più in voga al di fuori della letteratura d’intrattenimento: autobiografie, autofiction, memoir. Così com’è assente il nome – ma non certo, in negativo, il solco di pensiero – di colui che non solo è all’origine della tradizione del racconto di sé, ma che è anche il principale detrattore della letteratura di finzione nella storia della cultura occidentale: Sant’Agostino. 

    Dicevo che il ragionamento di papa Francesco conduce a una saldatura concettuale tra estetica letteraria ed etica cristiana. La disponibilità del lettore a immergersi nell’interiorità di personaggi a lui lontani – od opposti – per modi di vita e di pensiero, sentimenti e pulsioni, lasciando gli ormeggi dell’io per immedesimarsi nell’altro da sé, trova un corrispettivo etico in quello che, secondo San Paolo (Gal 5: 14), è «l’unico precetto della legge»: amerai il prossimo tuo come te stesso. Nell’epoca del narcisismo di massa, un’epoca in cui le vocazioni letterarie, lungi dal declinare come quelle sacerdotali, aumentano per pura aspirazione egotica, sino a coinvolgere individui sprovvisti di qualsiasi tensione conoscitiva, intelligenza narrativa e capacità stilistica, ma proprio per questo atti a soddisfare le aspettative autoreferenziali di un pubblico dal gusto e dall’ideologia ormai omologati in direzione della banalità del bene, non sorprende che una certa idea di letteratura sia ancora più in crisi del cristianesimo.

    Filippo D'Angelo

    Nato a Genova nel 1973, ha pubblicato i romanzi La fine dell’altro mondo (minimum fax 2012), Le città e i giorni (nottetempo 2024) e l’antologia Troppe puttane troppo canottaggio! Consigli ai giovani scrittori dai maestri della letteratura francese (minimum fax 2014). È direttore editoriale di Snaporaz e traduttore.

    Foto di Gaia Cambiaggi