“Nel parco” di Federica Helferich è il racconto vincitore della borsa di studio per il corso online Scrivere di notte. Ambientato in una Città la cui espansione incontrollata ha prosciugato un fiume e trasformato il parco da area verde in un “terreno polveroso e crepitante”, il racconto fa di un’area cani il teatro di una disputa che, con toni grotteschi, mette in scena la logica schiacciante del potere economico.
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Nel parco
Il Parco del Fiume è chiamato così perché fino a pochi anni prima era attraversato dal letto del fiume Aro, che, nonostante le sue dimensioni ridotte, del Parco rappresentava la principale attrazione, fungendo inoltre da divisorio, naturale e naturalmente obbedito, tra la zona cani e la zona non-cani. Da quando l’estate era diventata una bolla indistinta di mesi incandescenti collassanti l’uno nell’altro, però, del fiume era rimasto solo un letto polveroso e ossuto, sottoposto quotidianamente a un calpestio indiscriminato di uomini e cani e quindi sempre più irriconoscibile nella sua originaria forma e funzione.
Ciononostante, il parco aveva continuato a chiamarsi Parco del Fiume e il suo tasso di frequentazione non aveva risentito negativamente del progressivo trascoloramento dell’erba da un verde brillante a un giallo malato; si trattava d’altronde dell’unico rettangolo di natura liberamente accessibile nel quartiere IperSud della città. Seppur collegato al centro e al nord della Città da instancabili autobus dalle fiancate screpolate, il quartiere rimaneva un dormitorio in cui blocchi di case popolari si alternavano a costosi club sportivi – unico risultato di una proposta di riqualificazione urbanistica avanzata anni addietro, quando l’Aro era ancora in vita, al fine di garantire una maggiore compenetrazione tra i diversi “paradigmi culturali e reddituali” della Città.
Anche se, a dire il vero, da quando il fiume è scomparso qualche cambiamento c’è stato: l’intera superficie del Parco è diventata un’area cani, sicché è facile che, percorrendo il terreno polveroso e crepitante nella secca aria estiva, ci si trovi attorniati da cani questuanti, raramente aggressivi, forse in cerca di salvezza dai richiami all’ordine dei loro affannati padroni, forse solamente storditi dal caldo e dalla polvere.
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Quella sera, quando Miriam arriva nel Parco del Fiume all’imbrunire, i corpi dei cani e delle persone non si muovono, come solitamente accade, lungo tutto il perimetro del Parco. Sono immobili, disposti ordinatamente a raggiera a pochi metri di distanza dall’ingresso. Miriam varca la soglia del Parco e si avvicina al capannello di umani e animali, facendosi largo tra gomiti a ipotenusa, grumi di guinzagli e zampe pelose in fremente attesa. I cani, nota Miriam mentre avanza, latrano, ringhiano e dimenano le zampe nella polvere, ma non abbandonano il fianco del proprio umano, come in attesa di una decisione dall’alto.
Presto la ragazza è abbastanza vicina alla fonte e alla ragione di quell’adunata improvvisa.
Un grosso cinghiale color mogano sta grufolando a pochi metri di distanza. Dà le spalle agli astanti umani, e così tutto quello che Miriam riesce a vedere è una possente schiena solcata da una fila di peli neri, ispidi e ritti; anche la coda, che l’animale muove ritmicamente, termina con un ciuffo irsuto di peli neri. Le quattro zampe possenti sembrano dei tronchi di liquirizia.
Miriam si volta verso le persone attorno a lei. La folla ringhia: è un ringhio sommesso, un brusio furente e ovattato, increspato a tratti dal breve abbaiare di un cane.
Si sta sollevando il vento, e con lui un carico di polvere.
Incurante della folla, il cinghiale continua a razzolare e a grugnire. Miriam non riesce a vedere che cosa stia facendo esattamente – di erba da mangiare, nel parco, non ne è rimasta quasi più – e senza distogliere lo sguardo dalla bestia chiede alla donna accanto a sé perché il cinghiale sia lì. Con la coda dell’occhio nota che le labbra della donna – la riconosce, è la tabaccaia di Via Nuova Popolare – tremano mentre risponde che il cinghiale ha preso “uno dei nostri”.
Miriam si avvicina ancora, sfilando tra uomini e cani, cercando di spostarsi al lato della folla per poter scorgere l’avvenimento. E allora lo vede: ai piedi dell’animale giace un cane di piccola taglia, il pelo color deserto macchiato di rosso. Mentre il cinghiale lo calpesta e lo infilza, emette un debole guaito e il suo corpo è scosso da tremiti.
“Ma da dove viene? Da dove è arrivato?” chiede Miriam indistintamente, senza riuscire a staccare gli occhi dal cinghiale. Un uomo accanto a lei, basso e tarchiato, stringe in braccio il proprio cane, arpionandolo con entrambe le mani, e con un gesto della testa indica la grande siepe di bosso che separa il Parco del Fiume dall’adiacente campo Padelathlets.
I cani adesso hanno smesso di latrare. Sulla folla è calata una cappa di silenzio; persino la proprietaria del cane massacrato, come intuisce Miriam, piange in silenzio, seduta per terra, mentre due donne alle sue spalle la sorreggono dalle ascelle. Il silenzio è interrotto soltanto dai sempre più deboli guaiti della vittima e dagli schiocchi delle palline da tennis sulle racchette; ogni tanto il vento trasporta delle risate leggere dal campo al di là della siepe.
All’improvviso il cinghiale emette un lungo grugnito e mentre si sbarazza del cane morto ai suoi piedi si gira verso la folla di umani che ancora lo osserva in silenzio. Il muso è imbrattato di sangue; il sangue tinge gli steli d’erba giallastra ai piedi dell’animale.
Miriam rabbrividisce e indietreggia.
In quel momento le fronde della siepe alle spalle del cinghiale iniziano a muoversi e il bosso si apre con grazia. Ne esce un uomo alto, in pantaloncini e maglietta di lycra neri, in testa un cappellino nero anch’esso, con scritto in arancione: “padello ma non mollo”. Indossa delle scarpe di un bianco intenso; in mano tiene una racchetta che utilizza per togliersi dalla maglietta i residui di foglie di bosso, borbottando qualcosa che Miriam non riesce a sentire.
Il cinghiale si volta di scatto verso la siepe e lo fissa. L’uomo si toglie il cappellino ed esclama: “Franz! Franz, coglione, ti stavamo cercando, ci stavamo preoccupando, e tu qui eri? Dai bello, lascia stare, non vale la pena, torniamo in campo”.
Il cinghiale si volta nuovamente verso la folla, e adesso Miriam vede le viscere del cane ai suoi piedi. Trattiene a stento un conato di vomito. Anche il tennista deve averle viste, perché si gratta la testa e dice: “Ma guarda che cazzo hai combinato, Franz! Dai, torniamo di là”.
A quelle parole l’uomo basso accanto a Miriam, tenendo ancora in braccio il suo cagnolino (Miriam ha l’impressione che sia l’uomo ad aggrapparsi al cane, e non viceversa), si fa avanti e si rivolge all’uomo in pantaloncini.
“Ha ucciso il cane di Stella”, dice. “Per gioco”, aggiunge.
L’uomo vestito di nero tossisce per la polvere che ormai impregna l’aria e si guarda attorno. Le persone e i loro cani fissano l’uomo che ha appena parlato; qualcuno annuisce; una donna piange. Il cinghiale grugnisce nuovamente.
“Non l’ha fatto apposta, senta. Stavamo giocando a padel lì accanto, io, lui e le nostre mogli, e a un tratto, non so cosa è stato, deve aver sentito qualcosa, il richiamo di qualcosa, e si è dileguato. A quanto pare ha scavalcato la siepe per venire in questo vostro… parco”, risponde, aggiuntandosi il cappellino in testa e battendosi la racchetta sullo stinco.
“Ha ucciso il cane di Stella”, ripete l’uomo. Il cagnolino tra le sue braccia guaisce.
Il tennista alza le spalle, si volta e fa per imboccare la siepe. “Dai Franz, vieni con me che questi c’han voglia di rompere le palle”.
Il cinghiale, però, non si muove e fissa l’uomo con il cane in braccio. Miriam pensa che i suoi occhi sono piccole biglie avvizzite. Il cagnolino tra le braccia dell’uomo mugola ancora, terrorizzato.
In quel momento, però, il silenzio del parco è interrotto dal rumore dello schiocco di una pallina da tennis che colpisce una racchetta. Il cinghiale grugnisce forte, si volta e corre velocemente attraverso la siepe, dove l’amico lo sta aspettando e ha già iniziato ad aprire un varco nel bosso.
Prima di richiuderlo, il tennista si volta. Guarda l’uomo col cane in braccio, il cane morto per terra e la folla immobile, frustata dalla polvere. Senza rivolgersi a nessuno in particolare, dice: “Quel cane è disgustoso. Copritelo, ché sennò vengono gli animali”.