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Sei storie nere: “Storia di G. e C.” di Maria Chiara Risoldi

    Le storie crime non nascono dal nulla. Alla loro origine c’è sempre l’osservazione della realtà, lo studio della cronaca nera, lo sforzo creativo di riplasmare fatti reali per trasformarli in opere capaci di riflettere sui temi del bene, del male, della giustizia. Nel laboratorio Storie nere. 10 lezioni sul true crime, Luca Crovi ha analizzato alcune opere di autori che hanno attinto alla realtà per dare spessore e fascino alle proprie trame, accanto a esempi di cronaca nera che hanno assimilato le forme, i modi e le atmosfere della narrativa d’autore.

    Alle allieve e agli allievi del corso è stato chiesto di ispirarsi a un fatto di cronaca per scrivere un racconto. La quarta storia nera che Luca Crovi presenta su BellevilleNews è Storia di G. e C. di Maria Chiara Risoldi:

    “La parola Femminicidio indica il provocare la morte di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, conseguente al mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima”, scrive Maria Chiara Risoldi e prosegue così:”Questo termine ha iniziato solo in tempi recenti ad essere usato in Italia, un paese dove fino al 1996, nel Codice penale uccidere, picchiare o stuprare una donna era un reato contro la morale”. Quello che state per leggere è un racconto che trae spunto da uno dei tanti casi  raccolti nel tempo dalla Casa delle donne di Bologna e cerca di far chiarezza su un mondo che non dovrebbe più tollerare certe violenze. E dietro le identità do G. e C. scoprirete la vera storia di una famiglia travolta dalla violenza.

    ***

    Sono appena arrivata in redazione, come al solito sono la prima e l’unica puntuale. Mi comporto come se lavorassi in un ufficio e non nel più importante quotidiano nazionale, per di più da qualche mese con un incarico di prestigio. Sono un’inviata che si occupa dei risvolti culturali della cronaca nera. Figura che si è inventato il nuovo direttore, appassionato di noir. Lui individua i crimini a partire dai quali si genera una trasformazione del sentire comune. Il mio compito è raccogliere informazioni e notizie che lo dimostrino oltre ogni ragionevole dubbio. Gli inviati non hanno un orario ovviamente, ma un progetto da realizzare. «Ti vuole il capo» viene a dirmi la segretaria di redazione, «ha l’udito di un gatto. Riconosce il tuo passo, sa sempre quando arrivi.» Mi alzo sbuffando, non è un problema, ma potrebbe diventarlo.

    «Buongiorno cocca…» «E smettila di chiamarmi cocca», lo interrompo infastidita. «Sto per darti un compito che ti piacerà moltissimo, cocca. Trovami l’esordio sulla stampa del termine femminicidio, che oramai è come il prezzemolo, va con tutto.» «Entro quando?» «Entro ieri.» Esco sbattendo la porta. Me lo posso permettere. È pazzo di me.

    Ho una briscola. Hanno da poco istituito la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, e scorrendo i nomi ho trovato quello di una bolognese invitata a partecipare in quanto socia della Casa delle donne per non subire violenza. Ha creato un gruppo di volontarie che hanno iniziato a sfogliare quotidiani, pagine nazionali e locali, con una pazienza certosina, per estrarre dal mucchio tutti i casi di uccisione di donne da parte di un uomo per odio, disprezzo, piacere o senso di possesso. Il termine femminicidio è composto dal sostantivo femminile femmina con l’aggiunta del suffisso –cidio, sul modello di parricidio, fratricidio, regicidio, deicidio. È uxoricidio il provocare la morte della propria moglie, è infanticidio provocare la morte di un bambino. Femminicidio è il provocare la morte di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, conseguente al mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima.

    La chiamo. Mi risponde subito, le spiego che cosa mi interessa sapere e lei ridendo dice che ho vinto alla lotteria. Ci diamo appuntamento in un bar vicino a Montecitorio, perché è a Roma proprio per una riunione della Commissione.

    Prima della tragica morte di Greta, dieci anni, avvenuta a Bologna nel gennaio del 2005, in Italia non esisteva la parola femminicidio. Nessuno contava quante donne venissero ammazzate da ex-mariti, ex fidanzati, ex amanti, ex comunque. I titoli dei giornali si assomigliavano tutti: Lasciato dalla moglie disperato la uccide. La scopre con un altro, spara a entrambi. Il ragazzo la pugnala perché l’amava in maniera morbosa. Un amore malato, perde la testa. Io l’amavo moltissimo, ma l’ho ammazzata.

    Questo romanticismo della violenza si alterna alla svalutazione di queste uccisioni, trattate come storie minori, che riguardano poveracci, ignoranti, immigrati… piccoli trafiletti sulle pagine locali, raramente nazionali. Nessuno fa caso al comun denominatore di questi omicidi: vengono uccise donne che rifiutano un corteggiatore, mogli che cercano di sfuggire a violenze domestiche decennali o più semplicemente si ribellano a un marito-padrone. D’altra parte come avrebbe mai potuto farci caso una popolazione che non si era accorta che fino al 1996 nel Codice penale uccidere, picchiare o stuprare una donna era un reato contro la morale?

    Questo delitto conteneva tutti gli elementi che potevano consentire di svelare il magma culturale in cui avevano radice questi omicidi di donne. Il “romanticismo della violenza” nel mondo nordoccidentale – negli Stati laici – era incastonato nei manuali di psichiatria.  Invece negli Stati etici come le dittature tribali, dove vige ancora un’arcaica cultura patriarcale, si tratta di eventi fisiologici: donne e figli sono cose di proprietà maschile, su cui ha potere di vita e di morte il maschio: padre, fratello, marito.

    La morte di Greta fu un cazzotto per la rossa e civile Bologna. «Noi della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna iniziammo a raccogliere dati e storie. Siamo state per anni le sole a farlo e comunicavamo i risultati in una conferenza stampa ogni anno l’8 marzo, a partire dal 2006.»

    Questa volta l’avrei lasciato senza parole. «Già fatto?» «Sì, già fatto» gli dissi due ore dopo, quando gli lanciai tre cartelle sulla scrivania. Quando leggeva personalmente un articolo, lo voleva cartaceo.

    Il padre di Greta, G. C., medico specializzato in geriatria, apparentemente gentile ma muto, riservato, timido, era finalmente riuscito a conquistare una donna. Aveva già quarantadue anni ed enormi problemi caratteriali, di cui quella che diventò sua moglie era vagamente consapevole, ma avendo la sindrome del Io ti salverò, ci mise otto anni a rendersi conto che i problemi dell’uomo, con cui aveva, purtroppo, messo al mondo due figlie, erano drammatici e irrisolvibili.

    Nel corso degli anni, sempre più frequenti le scenate di gelosia. «Dove sei stata? Chi è quello che hai salutato? Togliti quel vestito da troia» frasi persecutorie e botte a cui lei non reagiva.

    Sette anni di liti e abbandoni, di riconciliazioni affrettate e fughe in avanti. Sette anni di violenze e improvvisi ritorni alla «normalità». Regali alle bambine e mille attenzioni da parte di un padre descritto da alcuni come il miglior genitore possibile. Nel 1998 lei lo convince a chiedere aiuto a uno psichiatra. A metà settembre, racconta un’amica di famiglia, successe qualcosa: «G. aggredì la moglie. La ferì alla testa con un martelletto. C. tornò a casa coi capelli rasati e i punti sul cranio». Episodio mai denunciato. Scritto, sì, nell’atto giudiziale per la separazione, ma poi cancellato. Come un altro caso di violenza, avvenuto l’anno prima, quando in seguito a un litigio la moglie finì all’ospedale con due costole fratturate. Il calvario affettivo di G. C. e di sua moglie dura fino al 2001, quando giungono alla decisione di separarsi. Il divorzio arriva nel 2003, con la formula del consenso, ed è un provvedimento che contempla ampi spazi di manovra per G. Il giudice gli concede di vedere le figlie tre volte alla settimana, di trascorrere lunghi periodi di vacanza con loro. E questo, secondo gli amici della moglie, ha alimentato il suo senso di “onnipotenza”. Nel maggio del 2004 succede un altro fatto grave. C’è un brutto litigio fra C. e la figlia più grande, ormai non più bambina, di cui lui è geloso. La dodicenne, ascoltata da un «confidente», riferisce che il papà, nella seconda decade di maggio, la prende a schiaffi sbattendola contro un armadio e rincorrendola per tutta la casa. «Solo perché dovevo studiare e in casa mia c’era un amico». È la descrizione di un pestaggio, e le foto scattate il giorno dopo mostrano vistose ecchimosi sul viso della ragazzina, che accusa addirittura la nonna paterna di tentare in qualche modo di “coprire” questo episodio. Il legale del padre sostiene invece che non ci fu nessun pestaggio. «Le diede quattro ceffoni perché la bambina aveva tenuto un comportamento scorretto per tutta la giornata. Niente di più.» Dove stia la verità nessuno lo sa con certezza, perché – anche in questa occasione – la moglie rifiuta di sporgere querela. La Procura però apre un’inchiesta: c’è il referto del policlinico Sant’Orsola che attesta le percosse, c’è una prima istruttoria del commissariato di polizia, c’è la segnalazione al servizio di neuropsichiatria infantile dell’Ausl. Il nodo centrale di tutto questo, però, è tentare di capire perché un giorno G., «padre amorevole e premuroso», diventa un assassino. «Era legatissimo alle due figlie» dice la babysitter «le riempiva di regali». «G.» dicono il suo avvocato di famiglia e il penalista «viveva in uno stato di ansia continua e terribile per questa situazione, che riteneva ingiusta e assurda. Non gli avevano tolto le figlie, era in corso un’attività difensiva puntuale. Per le percosse alla figlia più grande, mi disse subito che gli era scappata la mano. Era dispiaciuto. E trovava eccessiva la denuncia contro di lui». Il medico aveva chiesto aiuto anche all’Associazione padri separati: il primo contatto risale al settembre ‘98 e fu seguito da altri due colloqui, tra la fine del ‘99 e il 2000. Ma poi G. non si era fatto più vivo.

    La sera del 17 gennaio del 2005, dopo un pomeriggio trascorso da Greta in casa con lui, l’ha portata in cantina, ha impugnato un piccone e l’ha diretto una, due, tre volte sulla testa della figlia di dieci anni, ha gettato l’arma insanguinata, ha voltato le spalle al cadavere ed è salito al secondo piano della villa stile liberty per suonare a casa degli anziani genitori: «Ho ammazzato Greta, l’ho fatto per il suo bene», ha sussurrato G. Il medico non ha aspettato la reazione dei genitori, ha continuato per le scale, è salito al terzo e ultimo piano, dove abitava da solo, ha aperto una finestra e si è gettato nel giardino. L’inquilina del primo piano, anche lei medico, è stata chiamata dai due anziani impauriti e dopo aver scoperto in cantina il cadavere della piccola, sconvolta, ha chiamato la polizia. La via è stata transennata, la Scientifica si è messa al lavoro mentre gli investigatori della Squadra Mobile cercavano di scoprire i motivi di una tragedia che aveva evidentemente radici in una vita familiare violenta. La ex moglie, quando è stata avvisata, non voleva credere a quello che era successo: «Ditemi che non è vero, non è successo quello che state dicendo», ripeteva ai poliziotti. I vicini, intervistati dai sempre presenti giornalisti, dichiararono che G. era una persona gentile e tranquilla, anche se – dice una signora – «molto riservata e chiusa. A volte appariva cupa». Rari i rapporti di vicinato. «Le due bambine erano molto carine» racconta una ragazza «si avvicinavano sempre al mio cane quando uscivo, ma non parlavano molto. Sapevamo della separazione, le bambine venivano spesso dal padre, ultimamente però veniva più spesso Greta da sola».

    Nel corso dell’indagine interrogano anche il presidente dei Padri separati che dichiara che quando un genitore non si fa più vivo spesso significa che ha raggiunto, o ritiene di aver raggiunto, una sopportabilità della situazione, un accettabile livello di equilibrio interiore. «Immaginavamo che fosse andata così anche in questo caso». Il presidente dei Padri separati rileva che nel 92% dei casi, quando una coppia si divide, i figli vengono affidati alla madre, solo nel 4% ai padri e nel residuo 4% circa a nuove famiglie o a istituti. «C’è una responsabilità collettiva su queste scelte. Queste sentenze vengono fatte con lo stampino e indipendentemente dalle volontà dei soggetti coinvolti, non tengono conto degli aspetti psicologici. I figli sono di entrambi i genitori, non di uno solo». Feroci furono le polemiche tra l’Associazione dei Padri separati e i movimenti femministi italiani, che dichiararono che il 99% delle madri separate aveva il problema opposto: la sparizione dei padri dopo la separazione e la fuga dai propri doveri genitoriali, soprattutto dagli impegni economici. Questo quando va bene. Perché quando va male, non adeguatamente aiutati dall’Associazione Padri Separati, finisce che le ammazzano.

    «Sapete come si chiama?» dichiarò in una conferenza stampa, la portavoce della Casa delle donne. «Femminicidio».

    Scuola di scrittura Belleville