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Senza fede
di Davide Brioschi
L’estate successiva a quella in cui pregavo Dio perché diventassi invisibile a tutti, che nessuno vedesse più il mio corpo grasso di adolescente, mia madre scoprì che suo marito la tradiva con un’amica conosciuta dove andavamo al mare tutti gli anni. Non c’è nemmeno bisogno di dirlo: quell’estate la trascorsi pregando di diventare sordo. Al silenzio a tavola, alle porte che sbattono, all’apertura di una confezione di Prozac.
Conoscevo anch’io quella donna, l’amica del mare. Avevo notato che si toglieva la fede quando andava a fare il bagno con mio padre, ma credevo fosse per evitare che si rovinasse con l’acqua salmastra. Anni dopo, durante una lezione di chimica, scoprii che una fede d’oro non verrebbe intaccata dall’acido nitrico.
Men che meno dalla salsedine.
Penso a tutto questo mentre traduco un articolo inglese sull’infedeltà; è vero: traduci facilmente quello che conosci, le sensazioni che dopo tanti anni strisciano ancora sotto la tua pelle, ora asciutta abbastanza da far vedere le vene che pulsano sotto la superficie.
C’è una parte che mi ha dato dei grossi problemi. L’inglese dice: “there is a silver lining in unfaithfulness.” Tradotto letteralmente, “c’è però una fodera d’argento, nel tradimento”; naturalmente così non ha senso in italiano: dire che qualcosa cela in sé uno strato di rivestimento argentato per un inglese equivale a dire che in un problema c’è un lato positivo. Così ho tradotto: “c’è un lato positivo nel tradimento”. Bella o brutta che sia la mia traduzione, la frase rimane infelice.
L’autore è sicuramente qualcuno che deve spiegazioni a molte donne.
Sono parecchie estati ormai che Dio non lo prego più, e questa non farà eccezione. Il giorno in cui mia zia venne ricoverata in un hospice mi fece mettere la fede in Lui davanti al plotone d’esecuzione una volta per tutte. Chiesi a un’infermiera se qualcuno fosse mai uscito di lì.
Intendevo: uscito vivo.
Mi disse che sì, a volte succede, anche se in genere poi i pazienti alla fine ci ritornano. Insomma, risposi io, è come prendersi qualche giorno di vacanza dal proprio morire. Lei mi proibì di andare a trovare mia zia senza essere accompagnato dagli psicologi.
Passo davanti a quell’hospice praticamente ogni giorno, è una tappa inevitabile per andare al lavoro. È nascosto in mezzo agli alberi dell’enorme parco in periferia, celato da faggi, querce e cipressi. Prima di diventare un hospice era un sanatorio, ecco il perché della posizione silvestre.
Stamattina, mentre passavo di lì, ho rallentato per far attraversare la strada a due conigli; so che i loro cuori battono al ritmo isterico delle ali dei colibrì, e il mio si è sincronizzato ai loro quando ho visto un’ambulanza percorrere il sentiero che porta al pronto soccorso lì vicino.
Domani cercherò una strada alternativa.
Un fatto ironico: la parola “hospice” in origine indicava una casa dove i poveri potevano trovare riparo, di solito gestita da uomini religiosi. Se oggi penso a un luogo in cui la fede dà la sua dipartita, la prima cosa che mi viene in mente è un hospice.
Traduco controvoglia tutto quello che non condivido. Passo di frase in frase e ogni volta qualcosa mi azzoppa: un avverbio, un’espressione idiomatica, un pensiero che non avrei mai voluto leggere, o che qualcuno avrebbe potuto fare a meno di mettere per iscritto.
Ora a bloccarmi è un passaggio su come le donne che ingrassano dopo una gravidanza abbiano molte più probabilità di subire un tradimento: secondo l’autore è una forma di fat-shaming, un modo per umiliare una persona grassa.
L’estate in cui pregavo per l’invisibilità fu anche quella in cui mio padre mi chiese se non mi facevo schifo a mangiare pane e miele alle due del pomeriggio. No: fu più specifico di così. Mi chiese se la mia pancia non mi faceva schifo. Dissi di no, ma ancora oggi, venti estati dopo, evito di respirare col diaframma per non assistere all’osceno spettacolo del mio ventre che si gonfia.
Anche ora che sono qui nel mio ufficio a tradurre, e l’unico sguardo che sento sul mio corpo è quello che dipingo sulle infiorescenze purpuree delle mie orchidee, respiro col torace.
Un giorno dell’autunno successivo all’estate della sordità, mia madre mi disse “dì un segreto a una donna e forse non rimarrà un segreto a lungo. Dì un segreto a un uomo, e lo userà di sicuro per distruggerti”.
E ancora mi chiede perché mai sono tanto diffidente.
L’articolo ora recita: “trying to understand is not the same as forgiveness”, citando una filosofa tedesca. Fatico a rendere la frase in italiano, così uso una tecnica che imparai durante il master: penso a cosa voglia dire in parole povere; cercare di capire le ragioni di qualcuno, le motivazioni del suo agire, non significa giustificare.
Mia madre disse a mio padre che era disposta a perdonare tutto. Lui preferì l’amica del mare alla redenzione. Credo che mia madre volesse provare a capire, non perdonare. O perdonare, ma solo per avere mio padre schiavo per il resto della loro vita insieme.
Perdonare con clausole.
Mio fratello ancora va a trovare suo padre ogni domenica, perché un conto è vivere gli eventi, un altro è che qualcuno te li narri in modo imparziale perché eri troppo piccolo per ricordare. Io preferisco viaggiare nei fine settimana; mare o montagna, non fa differenza.
L’importante è mancare al loro appuntamento, continuare a essere il figlio di nessuno che scappa da tutti.
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