Sabato 25 giugno, nella sede di via Poerio 29 a Milano, l’editor Edoardo Brugnatelli, la scrittrice e sceneggiatrice Francesca Serafini e il giornalista Matteo Speroni presenteranno la settima edizione della Scuola annuale di scrittura, in programma dal 7 novembre a Milano. Per dare voce anche a chi la Scuola annuale l’ha vissuta da studente, abbiamo chiesto a Samuele Cornalba, che ha frequentato l’edizione 2020-2021, di raccontarci come ha lavorato al suo primo romanzo, nato sui banchi di Belleville e in uscita per Einaudi nel 2023.
1. Durante il corso annuale hai lavorato alla stesura del tuo romanzo sotto la guida di Walter Siti. Com’è nata la storia e come si è trasformata?
Prima di Belleville avevo scritto solo racconti. Mi sembrava presuntuoso non avere la barba e già pensare a un romanzo. Poi sono arrivate le lezioni di Walter Siti e tutti o quasi i miei compagni maneggiavano un progetto, una storia, qualcosa di grosso da raccontare; io avevo il tragitto S. Donato – Pandino e tempo per riflettere. Testa al finestrino, attraversavo in pullman gli eterni, inutili paesi della provincia di Cremona, e intanto rimuginavo. Un argomento, in verità, l’avevo. Un piccolo grumo, un ganglio a cui sempre tornavo. Alla prima lettura della sinossi in classe avevo le orecchie rosse e la voce incrinata, ma ero deciso: avrei scritto un romanzo sull’indifferenza. L’idea era il precipitato di riflessioni, intuizioni ed esperienze già vissute; inedita sarebbe stata la forma che le avrebbe strutturate in una storia. L’iniziale sensazione di arroganza non era fuori luogo: le prime versioni della trama erano addirittura ingenue. Una rielaborazione dopo l’altra, i docenti di Belleville mi hanno insegnato a sporcare i personaggi, a calibrare il ritmo della narrazione, a rendere esatto e credibile il mondo immaginato. Oggi la barba mi cresce a chiazze, ma un romanzo l’ho scritto.
2. C’è un errore che facevi all’inizio e che con il contributo di Walter e degli altri insegnanti hai imparato a evitare? In generale, come è cambiato il tuo approccio alla scrittura?
A Walter devo ancora una cena. L’ultima lezione, prima di congedarci, mi diede il suo indirizzo e-mail: che gli inviassi i nuovi capitoli, avremmo continuato a lavorarci insieme. È stato il suo approccio a ripulirmi da ogni imbarazzo: se una persona è disposta a regalarti il suo tempo, significa che la scrittura è davvero affare serio. Di errori ne facevo parecchi. La più preziosa lezione di Siti è stata l’essenzialità. Rileggere quindici volte un paragrafo soppesando ciascuna virgola, emendare il testo da parole inutili, superflue, ridondanti come questo elenco. E non affezionarmi a particolari trovate: se una descrizione è da tagliare, si taglia. In generale, durante l’anno a Belleville, la mia scrittura è cresciuta nel segno della maturità. Sapevo di star migliorando perché un brano scritto due settimane prima era già da buttare. Forse è questo il riscontro più genuino dell’efficacia di una scuola di scrittura: rileggere i propri testi e, anziché compiacersene, scovare imperfezioni.
3. Il lavoro di scrittura e revisione che avviene durante il laboratorio annuale ha una forte componente collettiva. Che ruolo ha avuto per la tua crescita come scrittore la possibilità di confrontarti con i compagni, di leggere i loro testi e di dare e ricevere da loro consigli?
In via Carlo Poerio 29 avviene una metamorfosi: la scrittura, solitaria per statuto, si apre all’altro. Dalla mia scrivania vista muro mi sono ritrovato in un’aula con banchi doppi; tempo una settimana e avevamo già creato il nostro ecosistema. Interagire coi compagni ha avuto per me due preziosi vantaggi. Il primo è l’errore: sul quadernino Belleville appuntavo critiche a testi non miei. In una classe dove ciascuno legge i propri brani e il commento è collettivo, apprendi anche da sbagli che non hai commesso (ma in cui presto o tardi inciamperai). Il secondo è la rivalità. Niente di tossico o corrosivo, solo desiderio di essere all’altezza del gruppo e dei docenti. Di compito in compito senti l’eccitazione del confronto, lo stupore di come altri hanno risolto l’esercizio. E, mal che vada, hai compagnia per l’aperitivo.
4. Cosa puoi raccontarci del lavoro fatto con Raffaella Lops, la tua editor? Quante stesure hai affrontato e che tipo di interventi hai apportato alla struttura e allo stile?
Delle stesure ho perso il conto. Dalia Oggero, l’ideatrice della collana «Unici» di Einaudi, ha avuto il coraggio di credere nella mia storia e l’intuizione di affidarmi a Raffaella. «Sento la responsabilità di farti uscire forte» mi ha scritto lei nella nostra prima conversazione WhatsApp. E per rendere il romanzo «forte» ho dovuto ripartire dall’incipit: a scuola e con Siti avevo dato il massimo, ma rimaneva comunque il manoscritto di un esordiente ventenne. Raffaella ha avuto la pazienza di entrare nei meccanismi acerbi e aiutarmi a crescere. Un esempio è il lavoro svolto sul padre del protagonista. Era, come altri adulti della storia, troppo netto, bidimensionale, inutilmente severo. Lei mi ha spronato a entrare nella mentalità di un genitore, a presentare un personaggio che fosse sfumato e credibile. Sui personaggi in generale è stata fiscale: inutile affollare il romanzo di caratteri, avremmo cercato di circoscrivere poche ma ben riconoscibili voci. Un altro intervento ha riguardato il tempo della narrazione: la prima versione prevedeva un polveroso passato remoto, Raffaella mi ha consigliato di catapultare la storia nel qui e ora del presente indicativo. Durante l’editing non mi ha abbandonato la sensazione che i semi del manoscritto non solo stessero germogliando, ma addirittura crescessero in robusti alberi, i miei alberi. Mi sa che devo una cena anche a lei.
Per assistere alla presentazione della Scuola annuale di scrittura è sufficiente prenotare il proprio posto qui.