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Nontiscordardimé
di Claudia Brizzi
Stava spegnendo la sua terza sigaretta. La teneva stretta tra pollice e indice, strofinandola sul piattino di metallo che poggiavo sul tavolo tutti i giovedì pomeriggio, apposta per lei.
Aveva gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, un’ombra di fard faceva capolino sulle sue guance scavate. Mi sedetti di fronte a lei, mescolando un caffè ormai tiepido.
– Tu mi capisci, no? Sai che non vorrei fare così, comportarmi da pazza, piangere e dare di matto. Non sono fatta così. Lo sai, no?
– Certo Ania, lo so.
Accese la quarta sigaretta portandosela alle labbra, lasciando un’ombra di rossetto sul filtro.
– Però è così difficile far finta di niente. In fondo l’ho capito prima ancora che accadesse, forse prima ancora di lui. Te l’ho detto come l’ho capito, eh? Te l’ho detto?
– Si Ania, me lo ricordo.
– Mi svegliavo ogni mattina felice, sorridevo guardandolo mentre si allontanava dall’ultima eco di un sogno confuso. Poi apriva gli occhi e schiudeva le labbra, appena appena, quanto necessario a sussurrarmi un buongiorno impastato. Lì, in quel momento, sapevo che mi amava. Eccome se mi amava, allora.
Mi alzai e svuotai la tazzina ancora piena nel lavandino: odiavo il caffè amaro, ma i tre chili presi negli ultimi mesi mi avevano costretta a rinunciare alle piccole gioie dello zucchero. Diedi un’occhiata distratta all’orologio e tornai in camera. Ania non sembrava essersi accorta della mia breve assenza.
– Poi una mattina era tutto finito. Niente caldo sguardo, niente sorriso impastato, niente più amore. Solo un freddo buongiorno. Accadde così velocemente che in un primo momento non ci volli credere neppure io. E puoi biasimarmi? Dopo due anni di matrimonio pensi di essere a posto, sistemata per la vita. E invece ti fregano, quei bastardi, eccome se ti fregano. Ricorda, non fidarti della parola di un uomo, mai. Tu sei sposata, tesoro?
– Si, certo, con Giulio. Oggi voleva venire anche lui, ma…
– Ad ogni modo, lui ora se ne è andato. Via, puff, dissolto nel nulla. E mi ha lasciata qui da sola. Sola col mio pancione. Ancora non si nota, sono solo al terzo mese, ma vedrai, presto tutto il quartiere se ne accorgerà e mi guarderà con pietà. Una madre sola, che orrore!, si dirà in giro. E poi ci saranno i pettegolezzi, annegherò nelle maldicenze, cara mia. Ma sai cosa? Mica mollo io. Lo voglio questo bambino, dio sa quanto lo voglio. Avrò cura di lui, sai? Ne avrò sempre…
– Senti Ania, mi spiace davvero ma ora io devo proprio scappare. Tornerò presto, va bene?
Aveva lo sguardo rivolto verso il vaso accanto alla finestra e non dava segno di avermi sentita. Mi ero dimenticata di portarle nuovi fiori, così ora davanti a lei spuntavano solo tre rinsecchiti nontiscordardimé. Amava quei fiorellini blu e mi piaceva che ne tenesse un mazzetto sempre in camera, ma, ironia della sorte, quel giorno i tre nontiscordardimé freschi giacevano dimenticati sul tavolo del mio soggiorno.
Mi avvicinai al letto su cui era seduta e chiamandola le sfiorai i capelli argentati
– Mamma…
Si voltò di scatto e mi afferrò stringendo le sue dita ossute intorno al mio polso, lasciando che la cenere della sigaretta precipitasse sul materasso. Piantò i suoi occhi nei miei e versò una sola, lunga lacrima che le attraversò la guancia. Mi parve volesse sorridermi, o forse sputarmi nicotina in faccia, ma non fece nulla. Rimanemmo così, come gelate, per un infinito minuto, poi mi lasciò il braccio e si riportò la sigaretta alla bocca, guardando il fumo grigio portare via i suoi ultimi ricordi.
Uscii dalla stanza e trattenni il respiro finché non sentii il portone d’ingresso della casa di riposo chiudersi alle mie spalle. La pioggia martellava sulla città e sul mio viso; mi accorsi che avevo dimenticato l’ombrello nella stanza di mia madre e che dovevo andare assolutamente in bagno, ma rientrare nell’istituto non era un’opzione. Mi guardai intorno cercando un bar ma non ne trovai, così feci una corsa fino al negozio più vicino. Arrivata alla prima vetrina, fui accolta da una biondina slavata che dall’interno mi rivolgeva un sorriso squadrato, invitandomi ad entrare. Masticando una cicca con la bocca semiaperta tentò di chiedermi se avessi un appuntamento, ma la interruppi con falsa cortesia.
– No niente di simile, mi scusi. Il bagno?
– Oltre quella porta in fondo, ma è solo per i clienti, è la regola.
Mi guardai intorno, otto poltrone si riflettevano vuote negli specchi che tappezzavano le pareti del locale, mentre dalla radio la Nannini copriva il rumore della pioggia. Tornai a rivolgermi alla bocca scomposta della parrucchiera
– Sa cosa, vado in bagno e poi lei mi fa un bello shampoo. E magari mi fa pure la piega, così rispettiamo tutte le regole che vuole.
Pisciai coi gomiti appoggiati alle ginocchia mantenendo un equilibrio perfetto, una stabilità nella vita mia e di mia madre non c’era più da anni; qualcosa era penetrato nel suo cervello e aveva colpito duro, non aveva lasciato superstiti. Gli ultimi anni erano stati cancellati, la malattia l’aveva riportata indietro nel tempo, a prima di me, della maternità, a prima del dolore e dei sacrifici, prima di tutto. Io ero stata rimossa dalla sua storia e reintrodotta come una conoscente che andava a trovarla una volta a settimana durante la sua solitaria gravidanza, e dio solo sa quanto questo non mi andasse bene.
Rimasi in bagno accucciata col sedere all’infuori anche dopo aver finito di far pipì, giusto per vedere per quanto fossi in grado di mantenere la posizione: i muscoli delle cosce tremavano visibilmente, i polpacci mi facevano male e minacciavano di lasciarmi cadere nel buco del gabinetto, ma dovevo resistere. E resistetti.
Quando mi sentii soddisfatta della mia perseveranza, mi alzai vittoriosa e uscii dal bagno senza lavarmi le mani.
– Eccola qua, prego si accomodi davanti al primo lavandino. Facciamo uno shampoo e, che dice, ce la mettiamo un po’ di crema su questi capelli sfibrati?
Annuii distratta, per me la crema era quella che strabordava dai bomboloni sul bancone del bar la domenica mattina e con quella certo non mi ci sarei lavata la testa. Ma l’esperta era lei, la donna con la gomma in bocca, quindi lasciai che mi gettasse acqua gelida sulla nuca.
Le sue dita sfregavano energicamente la mia cute creando bolle di shampoo alla vaniglia che schiumavano via portandosi dietro tutta la mia rabbia. Rabbia di figlia tradita, di donna ripudiata e disconosciuta; la rabbia di un’orfana verso la madre, di un essere umano lanciato nel mondo con troppa violenza.
Poi venne l’acqua a svuotarmi la testa con un getto tiepido che mi colò nelle orecchie e liberò i miei rimpianti. La mia irriconoscenza, la mia incapacità di capire il perché dell’Alzheimer, i miei “torno presto” per nascondere il bisogno di fuggire dalle sigarette immemori di mia madre: tutti vorticarono via da me, giù nel lavandino, e mi venne da ridere a immaginarli mentre invocavano pietà dalle fogne.
Chiusi gli occhi e lasciai che due mani estranee mi lavassero via la vita.
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