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Menzione speciale >> “Laventicinquesimaora.” 2017
Né insetti, né di gelatina
di Aurora Semerano
Tonio, che di anni ne aveva già quindici, quell’anno diceva di aver trovato delle grandi buche nella sabbia. Erano la prova decisiva. Quelli le usavano per nascondersi di notte, per ricoprirle poi al mattino come se niente fosse. Da allora noi, che eravamo i più piccoli nel villaggio estivo, smettemmo di andare in spiaggia. Avevamo paura. Nessuno aveva idea di come fossero, impossibile chiedere a Tonio che fuggiva appena poteva in motorino, gli adulti rispondevano minimizzando, con un sorriso che forse ne sapeva di più.
Quando tornammo a scuola eravamo bianchi da sembrar malati, ma la storia non finì lì. Si diceva che fossero arrivati pure là, al terzo piano, dov’erano le aule delle terze, qualcuno li aveva visti, qualche ragazzina urlava nel silenzio di una verifica, ma le descrizioni erano inaffidabili. Pareva che fossero arrivati dalle tubature dell’acqua o dalla porta della palestra che il bidello teneva aperta quando usciva a fumare. Nino dopo essere andato in bagno evitava di lavarsi le mani. Più tardi finì per aspettare la campanella e svuotare la vescica solo a casa sua.
Le voci si fecero sempre più insistenti, quando si poteva ancora uscire coi pantaloni corti qualcuno diceva di aver visto della gelatina verde sulle gambe pelose dei ragazzi di terza, ma per altri erano tutte fandonie e dovevano essere senz’altro delle specie di insetti. Solo Maria sembrava serena, come sempre, con quel sorriso e lo spazio tra i denti che la faceva sembrare simpatica a tutti.
Arrivò Natale e per fortuna il preside ci risparmiò la solita recita davanti ai parenti. Si organizzò invece una vera festa, sempre in maschera ma nella sala grande, i genitori ci avrebbero aiutato coi costumi da Stella, Albero, Elfo, qualcuno dei più simpatici scelse il vestito da Asino, ci scommetterei che nessuno si presentò come San Giuseppe. Nino, che aveva più paura di tutti, fece il suo ingresso con una tuta da Astronauta, con il casco sigillato da giri di nastro adesivo, e quasi non respirava lì dentro. Maria, con una camicia in fustagno, i pantaloni larghi, e un lungo bastone, faceva il Pastore, era vestita da uomo ma era così carina non appena sorrideva.
Loro avevano capito tutto, e scelsero il momento adatto per l’invasione definitiva. Appena la sala cominciò ad affollarsi si riversarono a milioni nelle coppe, nei bicchieri, venivano sparati in alto dagli amplificatori, si attaccavano ai capelli e alle gambe, scendevano lungo tutto il corpo e non ci fu modo per noi di allontanarli. Nino era vicino all’uscita, prese Maria per un braccio e insieme riuscirono a fuggire, con il cuore a mille guardavano la scena dalle grate dell’impianto di aerazione, una tale quantità di ragazzi che si dimenava e contorceva scomposta nell’inutile tentativo di liberarsi. Erano dappertutto ed erano spaventosi, né insetti né di gelatina.
Nino non staccava la propria mano da quella di Maria e cominciò a correre, correre, correre, senza vedere dove andasse tanto gli s’era appannato il casco d’astronauta. Superarono il quartiere, e poi il parco est, attraversarono il ponte sulla tangenziale e si ritrovarono ai confini della città, con le luci solo in lontananza, senza forze. Nino si tolse il casco. Maria respirava affannosamente, gli andò più vicino, dalla camicia di fustagno le si intravedeva il petto già più grande di ieri, che ti succede Maria? e che sorriso è mai questo? spalancò la bocca con lo spazio tra i denti e ne venne fuori uno di quei cosi spaventosi. Nino la fissò eccitato e atterrito, poi guardò il suo casco d’astronauta. Ne era pieno.
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