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Milo
di Carlotta Balestrieri
Sparito. Eravamo in giro per compere; a un certo punto mi volto e non c’è più. La prima cosa che faccio è mettermi a cercarlo, ma in mezzo al caos della gente, delle borse, dei Babbi Natale ogni due metri, dei barboni sul marciapiede, dei pakistani coi cappelli bianchi e rossi, beh, io non sono riuscita a trovarlo. L’ho chiamato – Dio solo sa quanto l’ho chiamato – ma non mi avrebbe sentito neanche a un metro di distanza perché, oltre al fatto che c’era troppa confusione, lui è pure sordo. Ho ripercorso la strada avanti e indietro, una, due, tre volte, e ho affrettato il passo – anche se lo sapevo che poi mi sarebbe venuto un male del diavolo alle caviglie. E, infatti, non le dico che dolore ho adesso: se non prendo un antidolorifico alla svelta, giuro che mi metto a piangere. Sempre che l’11 arrivi. Ormai dovrebbe arrivare, no? Comunque, ho camminato e camminato e, nel mio incedere confuso, mi sono fatta un milione di domande: un malintenzionato me lo ha portato via? È stato investito da una macchina? Qualcuno lo ha calpestato?
Le sembro una sciocca, vero? Milo è un cane piccolo, lento e vecchio, e senza di me che gli faccio strada tra migliaia di gambe in movimento, non è scontato che riesca ad uscirne vivo. Dopotutto, facendo i calcoli, dovrebbe avere all’incirca cento anni. Capisce? Cento anni non sono mica uno scherzo, e quando il veterinario me lo ha detto, io non riuscivo a crederci. Insomma, se a cento anni ci arrivo nelle sue condizioni, ci faccio la firma subito. Certo che se sei un animale domestico e finisci nella famiglia giusta, è più facile campare a lungo: tra coccole, cibo di qualità e pisolini continui, non c’è il rischio che ti venga un infarto per lo stress.
È più probabile che venga a me, invece, con tutto quello che ho passato. Mio marito è morto che non sono neanche due mesi e io ancora non riesco a crederci. Non immagina quanto avrei voluto seguirlo… Un direttissimo per Paradise Beach e arrivederci a tutti.
Sì, non è una cosa bella da dire. Soprattutto a una sconosciuta. Senza offesa, eh! Ma vede, ormai i figli sono grandi, i nipoti non mi hanno neanche in mente e di amici non ne ho. C’è solo Milo a tenermi in vita.
Lo sa che anche mio marito si chiamava così? Milo e Milo. E quando ne invocavo uno, arrivava anche l’altro. Doveva vederli insieme: erano una forza. E quanto amore mi davano, poi! Mio marito mi trattava come una regina. Bollette, scadenze, spese: per quarant’anni c’ha sempre pensato lui. Io non ho mai avuto una preoccupazione al mondo. Ero felice e a lui bastava vedermi così.
Capirà bene perché oggi mi sentivo tanto male. Di punto in bianco, in quel vortice di regali e musica e luminarie e cappotti e persone e aria di festa, mi sono sentita spersa: chi li ha mai fatti i regali di Natale prima? E sola. Così, senza nessun preavviso, sono arrivate le lacrime. Non le solite lacrime di frustrazione: veri e propri singhiozzi.
Un barbone, mosso da pietà, col suo cappello pieno di monete stretto in mano, mi ha preso per un gomito e mi ha accompagnato dentro un bar: “La signora non sta bene, potete portarle un bicchiere d’acqua?” La sua voce mi arrivava da lontano, come se lo stessi ascoltando bisbigliare dall’altro capo della stanza. Era una situazione assurda: con la mia pelliccia di visone e il mio bracciale da quattrocento euro, mi stavo facendo salvare da un barbone. Buffo, vero? Si è seduto davanti a me e mi ha chiesto perché stessi piangendo, e io, imbarazzata come non mai, ho cominciato a raccontare. Mi ha ascoltato, mi ha regalato un bottone della sua giacca e poi se n’è andato via, facendomi solo un cenno del capo. Quindi mi sono fatta coraggio, ho sospirato e sono uscita anch’io.
Uno dopo l’altro, ho passato in rassegna tutti i posti dove ero stata qualche ora prima, e alla fine, entrando nel negozio di giocattoli in cui avevo cercato i regali per i miei nipoti, l’ho visto. Milo era davanti a me, accanto a una commessa vestita di rosso, che mi fissava con occhi spauriti. Sembrava chiedersi se fossi realmente io. Sembrava domandarsi come mai, uscendo da lì carica di pacchetti, avevo mollato il guinzaglio e me ne ero andata a spasso da sola.
“Mi spiace, ma non sono abituata a girare per negozi: se ne occupava mio marito.”
Giuro che ho detto così alla commessa, come se dovessi giustificarmi con lei. Mi ha guardato spaesata, mi ha messo il cane tra le braccia ed è sparita dietro la cassa. Sono uscita nel gelo invernale scaldata solo dal corpo esile del mio salvatore, ho messo una mano in tasca per prendere i guanti e ho sentito tra le dita il bottone, testimone concreto di un pomeriggio che già cominciava a sbiadire.
Ho appoggiato l’orecchio sul corpo di Milo per ascoltare il battito del suo cuore. L’ho stretto a me per sentirlo più vicino. Poi gli ho dato un bacio sul muso e gli ho chiesto scusa in tutte le lingue del mondo.
Perché lui, almeno, mi ha aspettato.
Perché lui, almeno, è ritornato a casa.
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