Disegni in cerca d’autore è il Premio letterario nato dalla collaborazione tra Collezione Ramo e Scuola di scrittura Belleville, legato all’omonima mostra che si terrà negli spazi della Scuola Belleville a Milano. Opere su carta di grandi artisti affiancate da racconti inediti: immagini e parole entrano in dialogo.
Meltemi di Anita Sorrentino è il racconto scelto per accompagnare l’opera di Claudio Parmiggiani, Senza titolo, 1986.
Irina Zucca Alessandrelli, curatrice della mostra, sull’opera:
«L’assemblage di Claudio Parmiggiani del 1986 riunisce alcuni elementi cari alla poetica dell’artista: la piantina geografica accartocciata, simbolo delle finte certezze delle scienze fisiche, lo spago, il pezzo di pane, la piuma e lo spicchio di luna nera sono accostati come referenti emotivi del viaggio, condizione del costante divenire dell’essere umano.»
MELTEMI
di Anita Sorrentino
ispirato all’opera di Claudio Parmiggiani
Quando ero piccolo volavo. Avevo i piedi piumati e le mani palmate, nuotavo nell’aria pinneggiando con le piume e aprendo la marea davanti a me a colpi di pinne. Ero leggero. A volte mi legavano con uno spago per paura che il vento mi portasse via.
Era un vento greco vecchissimo, appena sedicenne ma con la forza di un gigante. Quando si alzava, si scuoteva di dosso i granelli di sabbia, perché per riposare gli piaceva stendersi sulla battigia e arricciare la schiuma tra le dita, e poi leccarsi via il sale. Se ne stava lì finché non cominciava a rimanere la sua impronta, allora si spostava per non farsi scoprire e calpestare dalle cinque piccole chele glabre dei granchi.
A volte, quando era stufo di arricciare, lasciava che una cresta più audace lo issasse in spalla e se ne restava lì tranquillo a pancia in giù, scivolando da un’increspatura all’altra, con gli occhi spalancati nell’acqua e le ciglia secche incrostate di sale, a fissare le piante che scuotevano i rami verso il cielo di sabbia: alcune si intrecciavano, così strette che a volte altri rami germogliavano in quel groviglio di steli; altre si colpivano con cattiveria, frustrate dal liquido spessore che ne rendeva aggraziati gli impeti crudeli.
Ce n’erano di così corte che non arrivavano neanche a sfiorarlo, il cielo, ma spesso una coppia più lunga le guidava. Alcune, le più strane, pareva si capovolgessero per restituire al vento il suo sguardo, in mezzo a un groviglio di radici aree. Ma sulle estremità di tutte riposavano tronfi i granchi pallidi. A volte il vento si spaventava a tal punto all’idea che quelle grosse bestie rosa potessero aggrapparsi anche a lui, che si liberava con una scrollata dalla stretta acquosa per precipitarsi in alto, e mentre prendeva la rincorsa, sembrava di nuovo un gigante di sedici anni con un diaframma da opera, e lo gonfiava e gonfiava per far uscire la sua voce calda e tagliente, profonda e secca, inconfondibile e divorante, come uno spicchio affilato di luna. Così, quando si riposava, chi guardava la luna poteva ricordarsi di lui, e quando lui cantava ci si ricordava di cercare la luna.
Io sapevo dove trovarlo, avevo guardato la mappa così a lungo che mi era scivolata negli occhi, e adesso mi bastava guardarmi allo specchio per vederla.
Quando ero piccolo, mi legavano per non farmi volare via. Quando sono cresciuto, hanno deciso che potevo restare a terra da solo, tanto le pinne si erano ritratte e le piume erano cadute, non ero più aerodinamico. Ma io mangiavo solo il vento, facevo bocconi enormi, masticavo, inghiottivo, mi leccavo le labbra, sapevo che se solo fossi diventato di nuovo abbastanza leggero ce l’avrei fatta. E, quando hanno cominciato a spuntarmi gli spigoli, li ho accarezzati per consumarli, finché non è rimasto soltanto quello che cercavo. Il vento aveva eroso così tanto la pelle che mi è bastato sfiorarla per aprirla, e dentro lo spigolo ho trovato una piuma, una crosta di sale, una mappa, e una luna, legate con lo spago.