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Lorenzo Mannella è il primo classificato al premio Laventicinquesimaora

    Dandora, Lorenzo Mannella

    Lorenzo Mannella è il 1° classificato al premio letterario “Laventicinquesimaora”, dedicato al racconto breve.

    La traccia del premio, che quest’anno è giunto alla sesta edizione, è stata pubblicata il 28 novembre e i partecipanti hanno avuto venticinque ore per scrivere un racconto di massimo 3.600 battute. Il tema di questa edizione è “Ma il cielo è sempre più blu”: ai candidati è stato chiesto di scrivere una storia completamente ambientata all’aperto.


    1º classificato: le motivazioni della giuria

    Dandora è una storia in cui il personaggio si misura con un ambiente duro (viene in mente il marabù, l’animale-antagonista che rappresenta l’istinto di sopravvivenza), ma soffuso di una struggente bellezza. L’autore riesce a creare un «immaginario distopico, preciso e credibile anche nella sua dimensione più assurda» e a stabilire, con pochi tocchi e senza quasi caratterizzazione psicologica, un «rapporto di asciutta empatia» (Giacomo Raccis) nei confronti della protagonista.


    Dandora

    di Lorenzo Mannella

    La ragazzina sistemò il sacco di tela bianca tra le gambe e si mise in fila. Il sole bruciava le creste irregolari della discarica, alto sopra le teste di una cinquantina di raccoglitori. L’uomo di fronte a lei indossava un cappello da baseball dei Nairobi Rockets e trascinava due sacchi enormi. Dai movimenti del polso si capiva che il suo raccolto era merce leggera. Resti di fibra ottica e qualche cavo spelacchiato, niente di più. Assestò un calcio morbido al suo sacco e avanzò con la fila. Quando fu il turno dell’uomo con il cappello da baseball, prese a strofinarsi il naso. La valutazione del raccolto era un momento delicato. Due guardiani ispezionarono il carico, mentre il terzo fece il prezzo. All’uomo con il cappello da baseball offrirono nove crediti. Prendere o lasciare. Lui intascò la paga in silenzio e se ne andò. Quando toccò a lei, sollevò il sacco e lo trascinò in avanti allargando le gambe. Disse che erano circuiti industriali e che dovevano pagarli bene. I guardiani si scambiarono un’occhiata e le offrirono due crediti. Quella era tutta plastica, sicuro. Prendere o lasciare.
    Lasciò la piazza di scambio stringendo le due tessere tra i denti. Le infilò nella tracolla di stoffa e risalì le pendici della discarica imprecando. Decise di spingersi fino al cratere, dove c’erano i pezzi migliori. Lì avrebbe fatto un altro raccolto. La aspettavano due ore di cammino, ma il sole era ancora alto. Uscì dal reticolo di sentieri battuti dai cercatori e imboccò una pista deserta. Fece una sosta a metà, quando le pennellate nere delle fornaci erano ormai lontane. Il sole iniziò la sua discesa nel mare di rifiuti. Voltandosi, le sembrò di scorgere un’ombra che la seguiva. Scrutò a lungo la pista. Intorno a lei si aggiravano solo i profili sgraziati dei marabù.
    Raggiunse la parete orientale del cratere e iniziò la raccolta sul ciglio della scarpata. Trenta metri sotto di lei, a perdita d’occhio, si estendeva il groviglio di rifiuti speciali. Lavorò a testa bassa per un’ora, prima di riesumare un pacco batteria ancora sigillato. Ripulì l’involucro con un lembo della tuta e lo sistemò all’interno della tracolla. Aggiustò il carico sulla schiena e si alzò con fatica. Il tramonto le accarezzò la nuca sulla via del ritorno. Costeggiò il ciglio del cratere prima di ricongiungersi alla pista. Sentì allentarsi la tensione e crescere il buco che aveva in pancia. Frugò nelle tasche della tuta, aprì un sacchetto di plastica e annusò il cartoccio speziato della patata che aveva comprato all’alba. Senza un suono, l’ombra la assalì alle spalle. Torse appena il busto e incontrò lo sguardo vitreo del marabù. Il becco del grosso uccello strattonò la busta con violenza. Si oppose, tirando con entrambe le braccia. Quando la busta si ruppe, si ritrovò sbilanciata oltre il ciglio del cratere. Ruzzolò giù per decine di metri prima di incontrare un mucchio di copertoni. Tentò più volte di risalire, ma la scarpata era troppo ripida. Doveva attraversare il cratere, sfruttare le balze della parete ovest e fare tutto il giro. Si incamminò.
    Raggiunse il punto esatto della caduta a notte fonda. Del cartoccio rimanevano solo brandelli. Spianò il terreno e si infilò sotto un telo di plastica. Abbracciò la tracolla con soddisfazione. La piazza di scambio sarebbe ammutolita davanti alla sua batteria. Dal cielo senza luna zampillava una fontana di scie luminose. La fitta galassia di detriti si incendiava nell’atmosfera. Rimase a guardare fino a quando le palpebre non furono troppo pesanti. Quella notte sognò di raccogliere il suo primo satellite.

    Scuola di scrittura Belleville