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Le affinità elettive
>> racconto

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    Le affinità elettive

    di Michele Pagliara

    Spalle dritte, pugni stretti. Vi faccio vedere io chi è Matteo Nembroni.

    Si tuffò nella luce abbagliante della sala d’attesa in vetro-acciaio come un pugile impaziente di incrociare i guanti.

    Tre colli incravattati si volsero nella sua direzione, tre visi perfettamente sbarbati stirarono un sorriso di saluto.

    In quattro. Siamo sopravvissuti in quattro. Ma entro un paio d’ore ne resterà solo uno. Per voi, sfigati, il viaggio finisce qui. Su queste belle poltrone Barcellona lascerete il vostro sangue e i vostri curriculum.

    A Matteo piaceva pensare al mondo del lavoro come a uno sport violento: poche regole, niente arbitri, niente gong. Si combatte fino all’eliminazione fisica, alla maniera del Fight Club di Brad Pitt.

    Ecco, pensò, potevo vedermelo ieri sera, per caricarmi. Fa niente. È andato bene anche “Il Gladiatore”. Che roba, cazzo! “Al mio segnale, scatenate l’inferno!”. Nella testa di Matteo scorrevano i fotogrammi del film. Sentiva il cozzare delle lame, vedeva il sangue impregnare la sabbia del Colosseo. Sotto il finto Rolex (un’imitazione perfetta, indistinguibile dall’originale, ma sempre in ritardo di cinque minuti) osservava i tendini della mano stendersi e contrarsi. Non era nervosismo. Era la manifestazione fisica del suo spirito agonistico.

    Com’è che dice a un certo punto? “Un soldato ha il grande vantaggio di poter guardare il suo nemico negli occhi”. A proposito:

    «Ciao a tutti. Chi è il primo?»

    «Sono io», gli rispose fermo un candidato più o meno della sua età, sguardo metallico e cravatta di Marinella. Matteo cercò di indovinare la firma del suo completo scuro alzandosi e girandogli intorno con indifferenza. Così i combattenti valutano l’allungo dell’avversario.

    Bah, sembra un Calvin Klein da centro commerciale. Un outfit da cafoni.

    Si avvicinò al distributore dell’acqua e si versò un bicchiere di frizzante gelida. Mentre le bollicine gli graffiavano la gola si godette la vista di Milano dalla sede italiana della Freiman consulting, al ventesimo piano. Si immaginò lì il suo ufficio, servito dalla metropolitana e con sotto una stazione dei taxi che sembrava il parcheggio di un supermercato.

    Decise di restare in piedi vicino al refrigeratore per sovrastare fisicamente gli altri candidati, che rimanevano seduti. Scaldiamoci un po’.

    «Voi dove avete studiato, ragazzi?». Che le vostre facce di cazzo non le ho mai viste alle feste di noi bocconiani. Di certo venite da qualche università sfigata di provincia, tipo Castellanza.

    «London School of Economics», rispose con indifferenza il più vicino alla finestra. Gessato di sartoria, capelli in perfetto ordine. Oh, cazzo. Questo picchia.

    «Beh, di certo non avrai avuto problemi nella conversazione in inglese, allora», scherzò Matteo, già chiuso sulla difensiva. Ripensò al suo colloquio in lingua straniera. Era andato bene ma non era stato fluido come avrebbe voluto. Gli era uscito solo un basic English da aeroporto, e quando, acquistata confidenza, aveva provato a sfoggiare un po’ di slang appreso dai sottotitoli di Breaking bad, la selezionatrice aveva abbassato i suoi occhiali da pornosegretaria e lo aveva freddato: «Don’t be gross, please. It’s a job interview».

    Matteo tracannò un altro bicchiere d’acqua per darsi forza, quasi fosse uno shot di vodka.

    «Neanch’io ho avuto grossi problemi, per fortuna», intervenne Cravatta di Marinella, simulando modestia. «Ho studiato a Yale e lavoro in California, al commerciale di Google. Ho preso un permesso per venire qui».

    «Ma dai! C’è ancora George Mailer là a Mountain View?» si inserì il terzo candidato, aggiustandosi al polso un Omega Speedmaster Broad Arrow. Un orologio da cinquemila euro. «Abbiamo fatto assieme un Phd ad Harvard con una borsa di studio. Eravamo amici, ma poi ci siamo persi di vista. Sai, il lavoro…».

    Matteo gemette. Butto giù altra acqua.

    Nell’ora successiva ascoltò i suoi avversari evocare un mondo che lui aveva solo sognato, e di cui essi erano a buon diritto cittadini. Li guardò entrare a turno nell’ufficio del CEO e affrontare, tranquilli e determinati, una simulazione di vendita davanti ai massimi dirigenti della sede italiana dell’agenzia internazionale di consulenza in cui sperava di farsi assumere. Soprattutto, apprese con orrore che loro un lavoro l’avevano già. Ai suoi occhi era proprio questo particolare a renderli appetibili all’azienda, come un uomo sposato a un’amante infida.

    Quando sentì il rumore di tacchi della segretaria che percorreva il corridoio per venirlo a chiamare, si rese conto che doveva andare in bagno. Urgentemente. Aveva bevuto troppa acqua.

    «Please, mr. Nembroni. They are waitin’ for you».

    «Solo un minuto», piagnucolò, alzando l’indice. E schizzò alla ricerca della toilette.

    Matteo pisciò fuori le sue insicurezze e le guardò scomparire trascinate via dallo sciacquone. Uscito dal bagno si sentiva di nuovo un predatore perfetto, al vertice della catena alimentare. Si specchiò, scoprì i denti bianchissimi in un ringhio lupesco e abbozzò un immaginario colpo di arti marziali.

    Ne resterà solo uno.

    Ma che cazzo…

    Una macchia di orina si allargava all’altezza dell’inguine, tingendo di scuro i pantaloni Armani acquistati all’outlet in un’affollata domenica di saldi. Era stato frettoloso e non si era scrollato bene.

    Spalancò la bocca in debito d’ossigeno. Fottuto. Sono fottuto. La simulazione si fa in piedi.

    Provò a chiudere la giacca, inutilmente.

    Si avviò al suo destino con passo malcerto.

    Ingobbito, a tratti balbettante, Matteo illustrava a un ipotetico e danaroso cliente power point e tabelle excel che gli sembrava di vedere per la prima volta. Non avrebbe convinto una massaia ad acquistare il Folletto. La sensazione di umido in mezzo alle gambe gli mangiava via le intuizioni, gli agglutinava le parole. Tutti i top manager della sede italiana della Freiman consulting tenevano lo sguardo fisso sotto la punta della sua cravatta Andrew’s. Ogni tanto non riusciva a resistere e abbassava gli occhi anche lui. Sul completo grigio chiaro la chiazza si vedeva, eccome. Tre o quattro gocce grosse come il Lago Maggiore, più una sottilissima scia lungo l’interno coscia.

    Una quarantenne tailleur e chignon si voltò verso il suo collega e gli sussurrò qualcosa all’orecchio coprendosi la bocca con la mano. Quello a stento inghiottì una risata.

    L’amministratore delegato in persona uscì a congedare gli aspiranti, stringendo a tutti la mano. Sfoggiò un italiano perfetto, appena velato da un’ombra di accento anglosassone.

    «Complimenti a tutti voi. Vi faremo sapere. Arrivederci».

    Per ultimo, Matteo raccolse la borsa e si avviò verso l’ascensore.

    «Aspetti, dottor Nembroni». Il CEO della società gli si fece incontro a grandi passi e gli strinse di nuovo la mano, allungandogli una pacca sulla spalla. Lo guardò con soddisfazione.

    «Mr. Nembroni, you are the man. Come tomorrow to sign your contract».

    Incredulo, Matteo fissava la gigantesca macchia di sugo che si intravedeva sotto la giacca Musella-Dembech del suo nuovo capo.

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