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«Laventicinquesimaora.» 2018 – Terzo classificato

    «Laventicinquesimaora.» 2018 – Terzo classificato

    Haiti

    di Alberto Milazzo

    [three_fifth]

    A sud, palazzi erano stati piantati ed erano cresciuti. L’impazzimento delle mareggiate di costa, l’impasto scadente nelle betoniere, al risparmio.
    Colonie di pulci umane s’erano infilate sotto la corteccia di cemento. Avevano gonfiato i muri di fiati e intasato le condutture di liquidi organici. Le colonie erano prosperate, s’erano moltiplicate e come carie avevano contribuito a far marcire Haiti, dall’interno. Una generazione era morta e poi una seconda. All’epoca della terza, un’esplosione demografica da locuste, qualcuno aveva piantato Barahona, nuovi palazzi, un po’ più grigi. Che erano cresciuti, un po’ più alti. E s’erano gonfiati di nuovi parassiti, transfughi di Haiti prima e poi quelli che migravano da rovine di caseggiati, ancora più a sud.
    Ad Haiti non era rimasto nessuno. Eccetto in quel palazzo grigio, che in niente si distingueva dagli altri.

    Il padre – Valerie lo ricorda come un coso malandato e rancoroso infilato dentro un cappotto vecchio – era morto. Irsa l’aveva seppellito nel tozzo cortile condominiale, in una buca che pareva essersi aperta nel terreno apposta per lui. Valerie aveva appena fatto a tempo a strappargli l’orologio da polso. Adesso era suo. Unica eredità paterna. Con l’ultima badilata di terra, alle ventitré di un sabato sera, Irsa aveva sparso chiodi intorno alla tomba.
    “I morti non muoiono veramente. Bisogna rendergli difficile la via del ritorno”.
    E aveva trascinato via Valerie, per il gomito.

    Il giorno dopo, Valerie era stata mandata in avanscoperta, là dove baluginavano i fuochi, armata di chiodi da cantiere, perché Irsa sospettava fosse il morto. Al rientro, nascondendo il sangue della mano, Valerie aveva riferito di uomini stranieri, la pelle scura, seduti attorno ai falò, a testa basa. Non lo sapeva cosa facessero attorno al fuoco. Indossavano grossi cappotti, zuppi, che fumavano, e quei vapori parevano preghiere e maledizioni che salivano al cielo.
    Più tardi, a cena, Irsa disse: “Se tornasse con il suo corpo sarebbe facile. Ma la morte è astuta e si traveste, così non la riconosci e finisce che la inviti in casa”.
    Un chiodo da cantiere le s’era infilato fra le dita mentre ne spargeva manciate in una linea, a segnare il confine fra Haiti e gli stranieri. Un po’ sanguinava, un po’ colava fuori un liquido giallo piscio di gatto.
    “Cercati un posto dove dormire. Perdi sangue. Il sangue attira i morti. Guarda come hai ridotto il materasso. Portatelo via”.
    Valerie aveva controllato l’orologio da polso – erano passate quasi ventiquattro ore dall’ultima badilata in cortile – e s’era messa il materasso sulla testa.
    Irsa intanto sospettava. La osservava di schiena, quella figlia d’un ventre debole, salire le scale e trascinare i piedi e la mano pesante. Mezza morta pareva, come il padre.

    Valerie s’era accampata sul tetto, ch’era ormai mezzanotte. Da lì si vedeva appena Barahona, ma non gli stranieri con i loro cappotti fumanti.
    Le pareva che un secondo cuore, più piccolo ma più sonoro di quello che le batteva in petto, pulsasse al centro del suo palmo rigonfio.
    “I fuochi si muovono. Si avvicinano”. Aveva urlato, sperando che Irsa la sentisse. E piantando occhi di sfida sulla linea dell’orizzonte, aveva mormorato fra sé: “I morti non muoiono mai veramente”.

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