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La quota
di Michele Pagliara
Ma tu quei soldi non ce li hai.
Non può essere entro oggi. Fa’ che non sia entro oggi. Lo stomaco ti si strizza come il panno dei pavimenti. Mentre la maestra discetta sul fonema sc sfili il diario dalla cartella blu con un gesto maturo: è la paura che ci fa adulti, del resto.
Apri il diario, e con orrore ti confronti con la parola scritta, che da millenni è espressione della Legge:
AVVISO
Si prega di portare entro giovedì 4/12 la quota di ₤. 4.000 neccessaria al trasferimento in autobus per la visita alla Centrale del Latte.
Firma:
Dopo i due punti la pagina è drammaticamente bianca. La firma non c’è, perché la mamma non ha letto l’avviso. Se l’avesse fatto, avrebbe corretto con un modesto tratto di matita l’errata geminazione consonantica. Ti sei dimenticato di mostrarle il diario.
Quindi tu quei soldi non ce li hai.
La Maestra, nel suo italiano regionale, è stata perentoria: «Chi giovedì non tiene i soldi, alla gita non ci viene. Se ne sta in II B tutt’a mateina».
Sceriffo.
Sciocco.
Pesce.
Scenziato o scienziato?
Su questo angosciante interrogativo la lezione termina e la Maestra si accomoda alla cattedra. Mentre sale il brusio ripone i gessetti colorati, annunciando ieratica: «Mo’ raccogliamo i soldi per la gita. Li tenete, bambeini?» Sorride materna. «Perché chi non li tiene, qui sta il giorno della gita. In II B, con la collega Randazzo». Ed è tutto un frusciare di banconote, un tintinnare sordo di monete.
E tu quei soldi non ce li hai. Non ce li hai.
L’angoscia ti preme la gola. L’appello è iniziato. Albertini, Albinoni, Casamassima. Ogni bambino depone la propria quota in un mucchietto sopra la cattedra.
Potresti mentire. Dire che ti hanno rubato i soldi, che li hai persi. Dire che la mamma te li ha messi nel giubbotto blu ma papà, uscendo stamani, ti ha vestito con un altro giubbotto blu: la vita, in fondo, è una questione di sfumature.
Ma ormai tocca a te. Quando echeggia il cognome della tua famiglia ti alzi. Le gambe molli ti conferiscono una camminata disinvolta, morbida. Infili la mano in tasca e frughi un po’. Poi stringi la mano a pugno, l’appoggi sull’arcipelago di monete immergendola tra le onde di banconote. La apri. E torni a posto, fissando sulla carta appesa la vasta macchia dell’Unione Sovietica.
«Qui non ci sta una quota. Chi non l’ha data?»
Silenzio stupito.
«Quattromila lire mancano. Ma mo’ lo scovo io, il furbo». E convoca alla cattedra ogni bambino, scrutandolo in volto per indagare i segni della menzogna.
«Sei stato tu?»
«No, signora maestra».
Sei l’unico che la chiama sempre signora maestra, anziché semplicemente maestra. Infatti non dubita di te.
Il papà di Anna Pascarella non porta la cravatta. Anzi, adesso che ci pensi non è che lo hai visto spesso, il papà di Anna Pascarella. Lei frequenta il prescuola e il doposcuola, perché sua mamma fa le pulizie e inizia il mattino presto.
Non appena si presenta alla cattedra, la Maestra non le chiede «Sei stata tu?» ma sibila, tranquilla: «Tu sei stata. Io lo so». Quella nemmeno si discolpa; e quando scoppia a piangere, capisci di essere salvo.
«Ecco, direttore. È una richiesta di mutuo per l’acquisto della prima casa», e ti fa scivolare sulla scrivania una cartellina con il logo dell’istituto di credito.
«Ma l’hai già vista, la pratica? Che garanzie offre?».
«Boh. Lavora in un call center, mi sembra».
Cacci una gran risata. «Allora non apro neanche la pratica! Di’ pure alla signora…» Sbirci il nome in alto a destra «… Anna Pascarella di andare affanculo. Pausa pranzo? Panino o sushi?».
Ci pensi un po’ su. Anna Pascarella. Ti sembrava, ma no. Quel nome non ti dice niente.
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