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La nebbia delle 18:30
di Irene Raschellà
“Come sarebbe la storia di un uomo senza la paura?”
Alex si chiedeva questo ogni volta che iniziava un nuovo progetto. Sapeva che la vita degli uomini era riduttiva: nascevano, cagavano in media due volte al giorno, si ponevano domande senza risposta e occasionalmente scopavano. Al corso di formazione dell’azienda gli avevano insegnato che la paura serviva a preservare tutto questo, a distinguere il buono dal cattivo e spingeva spesso all’azione, attivando l’adrenalina.
Ma questo non bastava: questi meccanismi di difesa erano ormai stati elaborati e consolidati. Loro dovevano creare le ansie quotidiane, le fobie senza spiegazione. Creare il tassello di una complessa identità. Per stimolare i dipendenti alla creazione, avevano chiesto loro di rispettare una prima regola: dovevano pensare innanzitutto al proprio incubo personale. Questo avrebbe reso i loro lavori più realistici e spendibili.
Alex aveva orientato subito i suoi pensieri verso la nebbia. Non gli incuteva, in realtà, particolare timore. Ma lo confondeva. Era una magia mobile: si poteva distinguire da lontano, ma, avvicinandosi, non si poteva percepire totalmente. E tutto inizava a galleggiare: i colori, come sott’acqua, venivano risucchiati. Compagna del silenzio, arrivava triste come la marea.
Dopo questo pensiero, ne fece il suo spauracchio personale. Così, ogni volta che fumava, dalla punta della sua sigaretta il fuoco diventava fitta foschia, che si diramava tra le sue braccia, poi per tutto il paesaggio.
Spense il suo demone con la punta della sua scarpa sinistra, non più bianca. Spinse con calma la porta del magazzino, ed entrato nella stanza, si affacciò ad uno degli oblò. Gli alberi mollemente riprendevano a fare gli alberi, le colline ad essere rotonde e il crepuscolo riacquistava la sua vacuità arancione.
Alex era un costruttore di incubi. Nelle leggende degli uomini e in qualche quadro famoso, la sua categoria lavorativa era rappresentata come una piccola creatura pelosa e tozza. Non era necessariamente così. Ogni dipendente aveva la forma che confaceva al suo cliente, per capirne meglio le necessità. Alex, quindi, era un uomo. Altezza media, passione per le camicie, occhiali. Attaccato emotivamente al suo orologio.
Riprese a lavorare per l’evento della notte seguente. Aveva a che fare con una grande responsabilità: creare l’archetipo dell’incubo ricorrente di un bambino di due anni. Giulio. Aveva visto il replay della sua vita alle prime luci del giorno, proiettando le immagini sulle vasche che costellavano le pareti del magazzino, dove pigramente fluttuavano i sogni di serie B dei suoi colleghi. Rane pescatrici, arti mozzati, i resti di un’eruzione vulcanica. Terrori che le persone avrebbero dimenticato il mattino dopo.
Osservando le immagini annacquate, vedeva solo un bambino che amava corricchiare e strillava incuriosito da ogni cosa, in particolare da quelle gialle. Non pareva provare disgusto per nulla che potesse essere uno spunto creativo.
Alle 10:00 Alex si mise a rovistare nelle cantine, alla ricerca di ispirazione.
Alle 10:30 prese un caffè.
Alle 11:15 si mise a contare le unghie tumefatte che nuotavano negli acquari.
Il blocco del distruttore.
Rigirava nervosamente l’orologio, mentre continuava a pensare solo che Giulio pareva fare un sacco di capricci per fare il bagnetto. Ma creare la paura dell’acqua sarebbe stato troppo. La fobia per il mare aperto era un cliché.
Sapeva che con quel progetto non sarebbe andato da nessuna parte: ambiva al posto di scatenatore di attacchi di panico, ma quel sogno sicuramente non lo avrebbe portato alla promozione.
Guardò nuovamente l’ora. Gli vennero in mente i pesci, ma erano riduttivI.
Mentre osservava nuotare la sua sedicesima unghia e la lancetta ticchettava le 12, pensò che avrebbe potuto creare una serie di incubi a catena, tutti diversi ma legati allo stessa tema, che avrebbe creato in Giulio una paura non categorica ma totalizzante.
Scelse la fobia per tutto ciò che stava in acqua.
Doveva essere preciso. Il primo incubo della serie non poteva essere una busta galleggiante scambiata per medusa, o una persona che nuota in mare. La madre di Giulio sembrava essere già abbastanza stressata. Aveva la fobia dei germi, con un figlio piccolo e selvatico non è facile. Inoltre la famiglia abitava a Pesaro. Un disastro.
Era necessario trovare un compromesso tra quotidianità e magnificenza. I mostri marini erano ormai roba da Settecento inglese. Gli squali… razionalmente a nessuno piacciono gli squali.
Optò per i molluschi.
Potevano trovarsi in acqua, essere enormi e incombenti, erano addirittura un piatto. Scelse quindi un calamaro gigante. Avrebbe stritolato Giulio nel sonno. Al suo risveglio, i genitori lo avrebbero ritrovato con le coperte strizzate intorno al corpo e avrebbero pensato ad uno stimolo tattile.
Come idea non era tra le migliori, quindi doveva puntare tutto sulla progettazione.
Rientrato dalla sua seconda pausa nebbia, l’orologio segnava le 18:30. La tecnologia onirica era davvero sorprendente: in poche ore aveva completato la progettazione dei tentacoli. Ne era fiero: erano lunghi due metri e tre. La proiezione olografica aleggiava sopra al tavolo.
Doveva applicare la seconda clausola industriale: il collaudo. “Rendete il vostro incubo vivo! Deve avere un odore, uno spessore, una realtà propria!”, avevano detto il primo giorno.
Accese una terza sigaretta. Si rilassò. Pensò che non aveva mangiato niente, quindi colse l’occasione e mise il bollitore sul fornello. Tutti trascuravano il gusto, ma valutarlo poteva sempre essere una buona prova.
Tamburello’ le dita sul tavolo, in attesa dell’ebollizione. Il tamburellare divenne eco, che si mescolò alla nebbia. Quando nacquero le prime bolle, prese un coltello. Si avvicino’ alle estremità del calamaro gigante.
Taglio’ una punta di tentacolo e si girò verso il bollitore.
Un rumore secco si palesò dietro al suo orecchio sinistro. Stretto tra le braccia del calamaro, pensò: “finalmente la direzione mi noterà”.
Il collo rotto di Alex penzolava verso destra. Il bollitore urlava e la notte, fosca e incolore, si insinuava dagli oblò.
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