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La Fine Gloriosa di un Uomo in Fiamme
>> racconto

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    La Fine Gloriosa di un Uomo in Fiamme

    di Luca Franzoni

    «Scendi.» «No!»

    «Scendi subito!» «No!»

    «È un comportamento del tutto irrazionale. Scendi!» «No!»

    «Vuoi morire? Ricordi cosa ti ho detto sulla morte?» «No!»

    «Se cadi è molto probabile che muori. E se muori è finita. Finita!» «No!»

    «Te l’ho spiegato: vuoi tornare nella non esistenza? Lo sai cos’è il niente? Te l’ho spiegato dai, falla finita e scendi!» «No!»

    «Se scendi ti do la caramella al limone. Guarda, è qui.» «No! Limone no!»

    «No?» «Lampone!»

    «Non ce l’ho quella al lampone. Quando mai hai assaggiato quella al lampone?» «Lampone!»

    «Va bene, se scendi cerchiamo quella al lampone.» «No!»

    «Ma non so dov’è! Tu lo sai dov’è. Scendi.» «No!»

    «Ragiona. L’unico che sa dov’è la caramella al lampone sei tu. E tu sei lassù. Quindi l’unico modo per avere la caramella al lampone è che tu scenda.» «Bugiardo!»

    «Si chiama logica. Ti ho parlato della logica. Dai scendi.» «No!»

    «Va bene. Allora faremo così: tu stai lassù e io vado a cercare la caramella al lampone. Ma quando la trovo me la mangio.» «No!»

    «Oh sì!»

    Il bambino scende in quattro secondi. La libreria è alta un metro e mezzo e lui conosce a memoria tutti gli appigli e gli appoggi. Quando sale ci mette meno di quattro secondi. Si ricorda il discorso sulla morte, che quando cadi puoi morire, e morire vuol dire che chiudi gli occhi e non ti svegli più, e non senti più, non mangi più, non fai più la pipì, non corri ed è tutto nero. Che poi non è neanche nero, perché non c’è neanche il nero, se muori. Ma quelle parti il bambino non le trova interessanti. Il suo papà non è interessante, è stupido. Ha sempre paura che cada, che non è vero che muori sempre, se cadi, puoi anche sbucciarti il ginocchio, non succede mica niente. Fa male, ma c’è l’acqua, e basta soffiare. Non è mica sempre stato il suo papà. La caramella al lampone è la sua preferita, non c’è un motivo particolare, è la più buona. Non ha mai visto un lampone. C’è un disegno sulla carta che contiene la caramella, ma non se n’è mai interessato. Oggi è il giorno in cui inizierà a prestare attenzione al disegno sulla carta delle caramelle.

    «Blea! Non è lampone! È limone!» «Esatto, manigoldo. E questa si chiama punizione dolcificata.»

    Suo papà lo chiama manigoldo. Nessuno sa cosa vuol dire. Ora gli dà un calcio poco sopra il piede, ma suo papà fa finta di niente. Fa sempre finta di niente. È grosso e stupido e non sente male. Potrebbe tornare in cima alla libreria, ma crede che suo papà lo prenderebbe prima e lo obbligherebbe ad ascoltare uno dei suoi discorsi. Il gusto di limone non è così cattivo, ma lui fa un sacco di smorfie. E suo papà copia le sue smorfie. Che cosa stupida. La mamma non copiava mai le sue smorfie. La mamma si metteva a ridere e dopo poco lui si metteva a ridere insieme alla mamma, e poi lei lo abbracciava e chissà come a lui, là dentro, stretto alla sua pancia e ai suoi seni, mentre rideva veniva un po’ da piangere, come quando si ha paura di qualcosa che non c’è, o come quando si ha paura perché qualcosa non c’è.

    Gliel’ha portato sei mesi fa, di notte.

    In quel periodo lui stava lavorando al nuovo romanzo. Stava lavorando assiduamente al titolo. Un po’ autobiografico, un po’ no. Un memoir complesso e ramificato, ricco di colpi di scena e di sesso. Forse ci sarebbe stato spazio anche per lei. Si erano divertiti, loro due, e lei era matta. Probabilmente nel senso patologico, non metaforico. Stava lavorando a quel titolo, e ne era venuto fuori uno niente male, che sarebbe piaciuto al pubblico, ne era certo. La Fine Gloriosa di un Uomo in Fiamme. Qualcosa che poteva catturare la rapace attenzione di un editore. Certo non aveva idea di che storia raccontare, e non era certo che dovesse essere precisamente la storia di un Uomo in Fiamme. Non la storia di un bonzo nel Vietnam del ’63, no grazie. Non un sacrificio, non fisico, non gli piacevano le storie di gente morta male.

    Era a quel punto quando lei si presentò con il bambino, di notte, senza telefonare, come se fosse una cosa naturale e giusta, dopotutto lui era il padre. Solo che lui non lo sapeva. Non sapeva di essere padre e non sapeva dell’esistenza di quel piccoletto alto un metro, con cui a quanto pare condivideva una quantità imbarazzante di dna.

    «Perché non me l’hai detto?»

    «Saresti stato interessato?»

    «Ma che cazzo dici?»

    Matta. Doveva andare a un concerto. Un gruppo mai sentito, e lei aveva trovato divertente e imbarazzante la sua ignoranza musicale. Doveva tenerle il bambino. Tutto qua. Solo una notte. Lei indossava calze a rete e un bel vestito nero strappato sulla spalla, scarpe da ginnastica bianche, trucco leggero e un cerchietto.

    «Ma che cazzo dici?»

    «Non iniziare a insegnare parolacce a tuo figlio, per favore.»

    Non gli aveva detto come si chiamava. Non gli aveva detto il nome di suo figlio. Se n’era andata come un sogno o l’acqua del water. Ed era tornata. La mattina dopo era tornata, certo. Gli aveva lasciato un post it: per un po’ tocca a te, trattalo bene, si chiama Rosso. E a quel punto se n’era andata, crede lui, immagina lui, dopo aver fatto colazione con latte caffè e i suoi cereali al cioccolato, mentre lui e Rosso, mai l’avrebbe chiamato così, dormivano. Abbracciati, sì, è vero: abbracciati.

    A quel punto scrivere era diventato impossibile. E nemmeno sapeva se fosse davvero suo figlio. Richiedere un test del dna sarebbe stato imbarazzante e magari, chissà, causa di denuncia per complicità in rapimento di minori. Quel bambino senza nome e senza madre era come se non esistesse. Che doveva farne?

    «Tu saresti mio figlio?» «No!»

    Andarono d’accordo dall’inizio. Essere padre era come venire inghiottiti da un buco con i denti. Era forse il peggior padre che si potesse immaginare. Si convinse che doveva insegnargli qualcosa.

    È qualche ora dopo, quando suo papà è di là che guarda lo schermo del computer, che crede di capire qualcosa del discorso sulla morte, e lo dimentica subito, quando cade non dalla libreria ma insieme alla libreria. Prova una paura così intensa che si convince sia un sogno, mentre vola aggrappato al legno, e il rumore forte dello schianto lo fa piangere all’istante, ma un pianto totale e impossibile da fermare, come se fossero lacrime che aspettavano da mesi nell’ombra. Suo papà lo solleva e lo stringe forte. Lo fa senza sforzo, la sua faccia è terrorizzata. Suo papà ha paura della morte. Lo abbraccia ma è come se cercasse di essere abbracciato da qualcosa che non c’è. Lo bacia sulla pelle bagnata di lacrime, lo controlla, lo palpa, ispeziona senza metodo, senza logica.

    «È del tutto irrazionale, papà.» «Sì.»

    «Mi scappa la pipì.» «Sì.»

    «Quindi non sono morto.» «Esatto.»

    «Quando torna la mamma, posso restare qui?» «Eh?»

    «Niente.»

    Non si è fatto niente ma papà lo porta in ospedale e dice che è suo figlio. E dopo un po’ delle persone gli chiedono i documenti di suo figlio. Perché suo figlio sembra che non esista. E allora, mentre lo portano via, l’unica cosa che il suo papà riesce a dire, l’unica cosa che ripete, è non chiamatelo Rosso, non chiamatelo Rosso, per favore.

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