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Intervista a
Lavinia Petti

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    Intervista a

    Lavinia Petti

    di Francesco Spiedo

     

    Gira la ruota e tocca a: Lavinia Petti, napoletana classe ’88, laureata in islamistica e autrice de “Il Ladro di Nebbia” (Longanesi, 2015), un libro che si fa estremamente fatica a catalogare. Un romanzo per ragazzi? Riduttivo. Una rivisitazione fantastica di qualcosa di reale? Quale buon romanzo non lo è? Piuttosto una storia con dentro una storia che nasconde altre storie, perfettamente in sintonia con la trama stessa del romanzo.

    Simbolicamente seduti davanti a un caffè ci racconta com’è iniziata, come continua e come non finirà – tra un Harry Potter, armadi magici e viaggi (non solo mentali).

    È generalmente diffusa l’idea che la strada per arrivare alla pubblicazione sia lunga, sofferta, fatta di tanto lavoro, pubblicazione su riviste, una certa attenzione affinché il proprio nome arrivi alle orecchie giuste, una paziente attesa del momento in cui l’editore si accorge di te. Lavinia, la tua storia è leggermente diversa – per usare un eufemismo.

    Sì, la definirei quasi imbarazzante. Di solito sono gli scrittori ad andare a caccia di editori. A me è successo il contrario. Avevo mandato alla Longanesi i primi capitoli di un libro scritto dieci anni fa, e dopo qualche mese non ci ho più pensato. Sono partita per un viaggio in medio oriente, perché era arrivato il momento di staccare da tutto e da tutti. Al mio ritorno ho scoperto che avevo ricevuto chiamate ed email dal direttore editoriale della Longanesi.

    Volevano il resto del romanzo, e io ci ho messo un po’ a capire cosa stava succedendo.

    Ancora mi è difficile realizzarlo. È stato senza dubbio un colpo di fortuna, ma non mi sono svegliata un giorno, ho deciso di diventare scrittrice e il giorno dopo ho ricevuto “la chiamata”. Scrivo da quando ho sette anni, il che significa che alle spalle ho ventidue anni di “carriera”. Ho partecipato a tanti concorsi, ho scritto per blog e riviste, ho mandato le mie storie a persone che non hanno nemmeno provato a leggerle. Quindi la strada è stata davvero lunga, è praticamente durata una vita. Solo che non me ne sono accorta, non ne ho avvertito il peso.

    Il ladro di nebbia è stato un esordio fortunatissimo – in cima alle classifiche, numerose traduzioni – dove credi che stia la forza del tuo lavoro? Quali sono le caratteristiche per un esordio convincente?

    Eh, magari lo sapessi! Posso solo tirare a indovinare. Anche perché, come dici, Il ladro di nebbia è stato un esordio fortunato, sì, è vero. Ma ho avuto anche tante critiche. È un libro strano, so bene che non tutti riescono a entrare a Tirnaìl. Ma ti dirò: la cosa mi piace. Rende il Regno delle Cose Perse qualcosa di ancor più proibito e difficile da raggiungere. Ad ogni modo credo che nella scrittura, come nella vita, si debba essere se stessi. Dare quello che si è e quello che si ha in quel momento. Se piace, è un bene. Se non piace, si va avanti, non sarà la fine del mondo. Però posso dirti una cosa: le persone hanno bisogno di storie. Da bambini ce ne raccontavano tante, perché ci rendevano felici. Vivevamo grandi avventure, te lo ricordi? Mi chiedo dove sia finito tutto questo. Così mi viene voglia di cercare storie perdute, di raccontarle e di condividerle. Forse è questo che piace alla gente. Per un po’ dimenticano chi sono, per un po’ diventano immortali.

    Ogni scrittore ha le sue paranoie e i suoi segreti: hai qualche strana abitudine? Durante la scrittura de Il ladro di nebbia, che so, tenevi tutte le finestre chiuse per paura che le idee fuggissero via?

    No, al contrario. Le ante degli armadi devono essere aperte, le imposte spalancate: le idee vengono da fuori. E ti giuro, non scherzo. In camera mia è sempre tutto aperto. È una scusa perfetta per il mio disordine.

    Quand’è che per la prima volta hai detto “sono una scrittrice”? Cosa significa per te esserlo?

    Ho ancora difficoltà a dirlo! Mi vergogno quasi, la gente spesso non capisce e mi sembra che voglia prendermi in giro. Poi dico la parola magica: Longanesi. E tutto diventa più semplice. Ma cosa vuol dire esserlo? Che vivi di scrittura? Che sei in cima alle classifiche? Che vinci premi? Che hai schiere di fan che aspettano il tuo nuovo romanzo? Che sei sempre sotto contratto? Chi lo sa. Nell’ultimo anno ho avuto grandi difficoltà con il nuovo romanzo, per tantissimi motivi. Ho pensato più e più volte che non ero una vera scrittrice. Mi dicevo che non ero all’altezza e che dovevo rinunciare. Sai cosa? Non ho mai rinunciato e non ho intenzione di farlo. Non ho smesso di scrivere un solo giorno, di pensare alla mia storia una sola ora. Non per lavoro, per classifiche, premi o contratti. Per la storia. Sento di avere una responsabilità nei confronti di quello che creo. E questo, credo, fa di me una scrittrice.

    Hai completato gli studi e poco dopo è arrivato il contratto con Longanesi: quale strada avevi tracciato e come l’hanno presa amici e parenti? Mica è facile dire Ciao mamma, faccio la scrittrice.

    No, non ho detto proprio così. Le parole sono state più o meno queste: “Ciao mamma, mi sono laureata e mi prendo un anno per vedere se riesco a fare qualcosa con la scrittura. Ti spiace? Tanto la verità è che non so proprio che fare della mia vita. Nel frattempo me ne vado in medio oriente, sennò che l’ho presa a fare questa laurea in islamistica?” E dopo sei mesi: “Ciao mamma, ti ricordi quella storia della scrittura? Mi hanno chiamato certi tipi dalla Longanesi…”

    Nel tuo lavoro c’è molto di te – l’hai detto e ripetuto più volte. Quanto si scrive per se stessi e quanto per gli altri?

    Il ladro di nebbia, questo lo dissi già dieci anni fa, è un piccolo scrigno dove ho nascosto un pezzo della mia anima. Il mio Horcrux. Adesso è diverso, devo cercare un compromesso. È folle quello che succede quando pubblichi e inizi ad avere riscontri dai lettori. È meraviglioso, ma psicologicamente ti blocchi. Non fai che chiedertelo: per chi scrivo ora? Per me o per i lettori? Per me o per gli editori? Prima di tutto, scrivere per se stessi, scrivere per amore, scrivere per divertirsi. Chi legge se ne accorge. Poi, accettare dei compromessi. Sii sempre te stesso, l’ho detto prima, nella vita come nella scrittura. Ma anche nella vita bisogna tener conto degli altri, giusto?

    Ne ho parlato anche con Nadia Terranova – il triste destino dei libri per ragazzi. Il ladro di nebbia segue la strada tracciata dal nuovo fantasy, modello Harry Potter per intenderci, che riesce a catturare anche un pubblico più maturo. Dov’è la forza di questo genere di storie?

    Credo di aver già involontariamente risposto a questa domanda. Le storie stesse sono la forza. La gente vuole sentirle, vuole leggerle, vuole immedesimarsi in eroi e avventurieri che si trovano in grandi pericoli e in qualche modo riescono a uscirne; vuole sacrifici, vuole gesta memorabili, vuole la sconfitta del male, non importa se si tratta di un mago oscuro o di una parte malata di loro stessi. Dietro le storie ci sono verità e insegnamenti profondissimi. È qualcosa di ancestrale, gli uomini primitivi si riunivano intorno ai fuochi per raccontarle, i bambini le pretendono ogni sera, e anche noi le vogliamo. Non lo sappiamo, non lo ammettiamo, perché siamo adulti, e gli adulti mica ne hanno bisogno, giusto?

    Viaggi molto e si vede: le città, così come le persone, diventano raccoglitori di memorie e di storie, vasi di pandora da scoperchiare. Per sviluppare una storia preferisci partire da un’intuizione, da un personaggio o da un luogo? Te lo chiedo perché c’è una tale attenzione alla storia, ai personaggi e ai luoghi che mi viene difficile individuare il nucleo.

    Parto da un’idea, la chiamo “il germoglio”. Spesso è un’immagine che mi fulmina da dentro. Mi vengono altre idee, inizio a unirle come con quei giochini della settimana enigmistica. Ho bisogno subito di personaggi, naturalmente, e del luogo. Se il luogo è reale faccio tantissime ricerche, finché non me ne approprio. È la fase di esplorazione. Se invece il mondo è inventato, mi diverto tantissimo a tracciare una geografia fantastica. Regioni, città, fiumi… devono essere sorprendenti, devono avere nomi assurdi. Devo anche capire che tipo di storia voglio raccontare. Mi muovo sempre su un terreno insidioso, ai confini tra realtà e immaginazione, ma sta a me stabilire quei confini ed è importante tracciarli per bene, o i lettori si smarriscono. Ricamare una storia è un lavoro difficilissimo, e non riesco a farlo rinchiusa in una stanza. Devo uscire, camminare, sperdermi, viaggiare, conoscere, scoprire. Viviamo in un mondo immenso, pieno di magia nascosta. Esplorarlo, e lasciare che la realtà contamini l’immaginazione, può dare frutti sorprendenti. Shakespeare diceva: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia.”

    Questa domanda è ormai la chiusa di ogni intervista: una cosa che un aspirante scrittore dovrebbe assolutamente fare e una che non dovrebbe assolutamente fare.

    Fare: avere un gatto, bere tanto tè, non sapere mai l’ora esatta, leggere, leggere, leggere. Non fare: non credere che pubblicare significhi essere arrivati: sarà solo l’inizio; non affidatevi all’editoria a pagamento; non arrendetevi; non leggere.

     

    Scrittori oggi avete letto? E leggete, anzi no, forse.

     

    Intervista a Lavinia Petti

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    Scuola di scrittura Belleville